La Casta
Gian Antonio Stella - Sergio Rizzo
Una oligarchia di insaziabili bramini
Da Tocqueville aDe Gregorio: la deriva della classe politica
La pianeggiante Comunità montana di Palagiano è unica al mondo: non ha salite, non ha discese e svetta a 39 (trentanove) metri sul mare. Con un cucuzzolo, ai margini del territorio comunale, che troneggia himalaiano a quota 86. Cioè 12 metri meno del campanile di San Marco. Vi chiederete: cosa ci fa una Comunità montana adagiata nella campagna di Taranto piatta come un biliardo? Detta alla bocconiana, l'ente pubblico pugliese ha due missioni Una è dimostrare che gli amministratori italiani, che già s'erano inventati in Calabria un lago inesistente a Piano della Lacina e un'immensa tenuta di ulivi secolari nel mare (catastale) di Gioia Tauro, possono rivaleggia re in fantasia con l'abate Balthazard che si inventò l' “Isola dei filosofi” dove non esisteva un governo perché i suoi abitanti non riuscivano a decidere insieme quale fosse “il sistema meno oppressivo e più illuminato”. L'altra è dis trib uire un po' di poltrone. Obiettivo assai più concreto della salvaguardia di un borgo alpino o della sistemazione di una mulattiera appenninica. Certo, le Comunità montane sono solo un pezzetto della grande torta. Ma possono aiutare forse meglio di ogni altra cosa a capire come una certa politica, o meglio la sua caricatura obesa, ingorda e autoreferenziale, sia diventata una Casta e abbia invaso l'intera società italiana. Ponendosi sempre meno l'obiettivo del bene comune e della sana amministrazione per per seguire piuttosto quello di alimentare se stessa. Obiettivo sempre più disperato e irraggiungibile via via che la bulimia ha contagiato tutti: deputati, assessori regionali, sindaci, consiglieri circoscrizionali, assistenti parlamentari, portaborse e reggipanza. Fino a dilagare, nel tentativo di strappare metro per metro nuovi spazi, nelle aziende sanitarie. nelle municipalizzate, nelle società miste, nelle fondazioni, nei giornali, nei festival di canzonette e nei tornei di calcio rionali... Una spirale che non solo fa torto alle migliaia di persone perbene, a destra e a sinistra, che si dedicano alla poli tica in modo serio e pulito. Ma che è suicida: più potere per fare più soldi, più soldi per prendere più potere e ancora più potere per fare più soldi... Sia chiaro: la montagna, che copre oltre la metà dell'Italia, è una cosa seria. E spezza il cuore vedere gli sterpi inghiottire certe contrade costruite dall'uomo a prezzo di sacrifici immensi, dalla piemontese Bugliaga all'abruzzese Frattura, dalla romagnola Castiglioncello ai tanti borghi calabresi svuotati dall 'emigrazione. Come la povera Roghudi, raccontata mezzo secolo fa da Tommaso Besozzi, dove c'erano “tanti grossi chiodi conficcati nei muri e le donne vi assicuravano le cordicelle che avevano legato attorno alle caviglie dei bambini più piccoli, perché non precipitassero nel burrone. Infatti, da qualunque parte si guardino, le case appaiono costruite sopra un torrione che scende a picco, da ogni lato”. Ma proprio perché la montagna vera ha bisogno di essere aiutata, spicca l'indecenza della montagna finta . Artificiale. Clientelare. Costruita a tavolino per dispensare posti di sotto governo. Divoratrice di risorse sottratte ai paesi che vengono sommersi davvero dalla neve o non vedono davvero il sole per mesi e mesi come succedeva a Viganella, sopra Domodossola, prima che piazzassero uno specchio di 40 metri quadrati che cattura i raggi e li riflette sulla piazza del villaggio. Basti dire che della Comunità montana Murgia Tarantina alla quale appartiene Palagiano (che si adagia in parte a zero metri sul livello dello jonio lì a due passi), i comuni riconosciuti come solo “parzialmente montani” nel loro stesso sito internet sono 4 e quelli “non montani” 5. E montani? Manco uno. Tanto che l'altitudine media dei 9 municipi è di 213 metri. Una sessantina in meno dell 'altitudine del Montestella,la collinetta creata alla periferia di Milano con i detriti.Ma quanto bastava a fondare una struttura con un presidente, 6 assessori, 27 consiglieri, un segretario generale ... Pagati rispettivamente, visto che tutti insieme i paesi passano i 100.000 abitanti , quanto il sindaco, gli assessori e i consiglieri d'una città grande come Padova. Chi vuol capire come funziona faccia un salto a Mottola, dov'è la sede, e giri una per una le stanze vuote fino a trovare qualcuno. “Cosa fate, esattamente?” “Cosa vuole che facciamo...Abbiamo pochissimi soldi. Non è che ci sono margini per fare tante cose.” “Quindi?” “Qualcosa qua e là... Poca roba.” “Ma il bilancio 2006 di quanto è stato?” “Non so... Intorno ai 400.000 euro. Togli gli stipendi, togli le spese...x il presidente, per esempio, che fa?” “Gira.” “Gira?” “Gira, si dà da fare per cercare di avere dei finanziamenti.” “E ne raccoglie?” “Mah...” Tutto merito d'una leggina regionale pugliese del 1999. Che interpretando a modo suo una sentenza della Corte costituzionale si era inventata la possibilità di inserire nelle Comunità anche comuni che non erano montani ma “contermini”. Concetto che, di contermine in contermine, potrebbe dilatare una comunità montana dall'Adamello al Polesine. E infatt i consentì a quelle pugliesi di sdoppiarsi e ampliarsi fino a diventare 6 per un totale di 63 comuni pur essendo la loro la più piatta delle regioni italiane. Benedetta da contributi erariali che, in rapporto agli ettari di montagna, come dimostra la tabella in Appendice, sono quattordici volte più alti di quelli del Piemonte. Eppure non è solo la Puglia ad aver giocato al piccolo montanaro. L'ha fatto la Campania, che con poco più della metà degli ettari montagnosi della Lombardia ha quasi il doppio dei dipendenti e quasi il triplo dei contributi pro capite.L'ha fatto la Sardegna, che era arrivata ad avere 25 Comunità, alcune delle quali bizzarre. Come quella di Arei Grighine, con
paesi definiti nelle carte “totalmente montuosi” come Santa Giusta, che, a parte un pezzo del territorio che si innalza all'interno, è sulle rive di uno stagno nella piana di Arborea, da Oa 10 metri sul livello del mare. O quella di Olbia (Olbia !) che fino alla primavera del 2007 portava un nome assolutamente strepitoso, per una “Comunità montana”: Riviera di Gallura. Portava. Dopo un braccio di ferro con mille interessi locali, riottosi alla chiusura di un rubinetto da 11 milioni di euro, Renato Soru è riuscito a far passar infatti un drastico ridimensionamento: da 25 Comunità a un massimo di 8. Con l'invito ai comuni, semmai, a consorziarsi su alcuni interessi specifici. Una scelra i cui effett i sul risparmio e sulle clientele saranno tutt i da vedere. Ma indispensabile. Lo stesso Enrico Borghi, presidente dell'Unione nazionale Comuni, Comunità, Enti montani, sorride: “La definizione di "montagna legale" che ai tempi di Fanfani voleva tutelare i paesi che magari stavano in pianura ma erano poveri come quelli alpini o appenninici, va rivisra. Ha presente quei prelati che al venerdì , avendo solo carne, la benedivano dicendo: "Ego te baptizo piscem"? Ecco, da noi c'è chi ha detto: "Ego te baptizo montagnam". Troppi abusi”. Col risultato che i 2 miliardi di euro che tra una cosa e l'altra vanno alla montagna sono dispersi spesso dove non ha senso. Diciamolo: almeno un terzo delle Comunità andrebbe chiuso. Viva l'onestà. Ma vale per un mucchio di altri bubboni, grandi e piccoli, gonfia ti dalla cattiva politica. Come i consigli circoscrizionali di Palermo, dove i presidenti, contrariamente a centinaia di colleghi di tutta la Penisola che lavorano per rim borsi modestissimi, prendono 4750 euro al mese e hanno l'auroblu. Come certe società miste istituite anche per piazzare amici e trombati quale l'Irnast, un consorzio parapubblico fondaro dalla Regione Campania, Cnr ed Enea e qualche privato, con 25 consiglieri di amministrazione e un solo dipendente, e successivamente fuso, allo scoppio delle polemiche, con il Campec, un altro ente misro che di consiglieri ne aveva 11 e di dipendenti 8. Come l'Unità operativa nucleo barberia di Palazzo Madama dove c'è un figaro (le senatrici hanno un bonus per farsi la messa in piega da coiffeur esterni) ogni 36 senatori, il
che, dati i ritmi dei lavori parlamentari, fa pensare a sforbiciate più rare e cosrose delle uova imperiali di Fabergé. E così andrebbero chiuse almeno un po' di megalomani “ambasciate” regionali in America o nei Paesi più improbabili del mondo. E come minimo una parte delle 218 sedi (il quadruplo di quelle venete) della Regione Sicilia. E certe strutture interne che potrebbero benissimo essere delegate all'esterno e sono arrivate a includere un manipolo di tappezzieri a Montecitorio e addirittura, stando a un rapporto di Sabino Cassese, una pattuglia di sei rammendatrici di arazzi al Quirinale. E poi una delle due squadre che per la Camera e per il Senato compongono ogni mattina, con rare varianti, la stessa identica rassegna stampa per i parlamentari e dell'uno e dell'altro ramo. E insomma tutta una serie di cose che a far la lista non si finirebbe più. Conosciamo l'obiezione: occhio alla demagogia. Giusto. Non ha senso !'invettiva di Giosué Carducci contro i politici : “Voi., piccoletti ladruncoli bastardi...” , Ma occhio anche a non da re per scontate e «normali» cose che nei Paesi seri scatenerebbero l'iradiddio. Esempio: è normale che il senatore Pierluigi Mantini mandi una lettera a tutti i suoi colleghi ricordando che “in vista dei Campionati europei parlamentari di tennis è opportuno rip rendere un programma di incontri e di allenamenti per i quali sono disponibili i maestri presso il Circolo Montecitorio”? Cosa c'entra con le legittime prerogative parlamentari il maestro gratuito di volée? Ed è normale che l'indennità di deputati e senatori non sia mai pignorabile, neppure se sono stati condannati per un reato comune tipo l'emissione di assegni a vuoto? Altro esempio: è normale che il ministro della Giustizia, come chiese un'interrogazione parlamentare del diessino Francesco Carboni, possa andare in vacanza in uno dei posti più belli del mondo, nel villaggio-vacanze nell 'area della colonia penale di Is Arenas, in Sardegna, costruito coi soldi trattenuti sugli stipendi delle guardie carcerarie che ne fruiscono a rotazione? Roberto Castelli, accusato di averci portato anche il parentado e gli amici, rispose piccatissimo che il suo comportamento era stato ritenuto corretto dalla Corte dei Conti. Vero. Ma i giudici contabili dovevano rispondere solo a una domanda: se il guardasigilli avesse rispettato la legge pagando il dovuto. Stop. Lo scandalo era un altro. E stava nella fattura presentata dal senatore leghista al processo per diffamazione contro “l'Unità”. Fattura pagata due settimane dopo (dopo) che il giornale aveva denunciato la sua villeggiatura. Tre camere matrimoniali: 19,37 euro l'una. Ventiquattro camere singole: 11 ,82 euro l'una. Meno che in una topaia sulla cos ta marocchina. Quello era il dovuto. Fissato per agenti carcerari che però hanno già versato i soldi per la costruzione e guadagnano un decimo di un senatore. Un decimo. C'è chi dirà: non è vero. E citerà il sito di Palazzo Madama dove sra scritto che nel 2007 l'importo mensile della indennità “è pari a 5486,58 euro (prima del "taglio" della Finanziaria 2006 era pari a 5941,91 euro), al netto della ritenuta fiscale (€ 3899,75), nonché delle quote contributive per l'assegno vitalizio (€ 1006,51), per l'assegno di solidarietà (€ 784,14) e per l'assistenza sanitaria (€ 526,66). Nel caso in cui il senatore versi anche la quora aggiuntiva per la reversibilità dell'assegno vitalizio (2,15% pari a € 251 ,63), l'imporro netto dell'indennità scende a 5234,95 euro». Insomma, uno stipendio buono ma non eccezionale. Non è così. L'indennità è infatti solo una parte della paga vera e propria, come la considera qualunque cittadino. E che comprende ogni mese un sacco di altre voci. Quali la diaria: 4003 euro, meno 258 per ogni giorno di assenza ma solo “dalle sedute dell'Assemblea in cui si svolgono votazioni qualificare” e solo se il senatore manca per più del 70% delle votazioni nell'arco della giornara. Più il rimborso forfett ario delle spese di viaggio: 554 euro per chi risiede a Roma, d a 1108 a 1331 per chi abita fuori a seconda se sta a meno o a più di 100 chilometri dall'aeroporto o dalla stazione più vicini. L'aereo e il treno sono gratis. Più 258 euro di “spese per viaggi internazionali di aggiornamento”. Più 346 euro per “spese telefoniche”. Più un “rimborso forfettario per le spese sostenute per retribuire i propri collaboratori e per quelle necessarie a svolgere, anche nel collegio elettorale, il mandato”: 4678 euro, in parte (1638) dati direttamente al senatore medesimo e in parte (3040) al suo gruppo parlamentare. Fatti i conti, un senatore che vive a Roma e partecipa con regolarità ai lavori incassa ogni mese 12.032 euro netti. Uno che vive a Potenza o a Sondrio, coi rimborsi più alti, 12.809. Sui dettagli e la differenza con la busta paga dei deputati e quella dei parlamentari europei vi rimandiamo alle tabelle in Appendice: se n'è scritto e discusso così tanto che non vale la pena di indugiare sul tema. I numeri dicono tutto. Giudichi il lettore. Ricordiamo, in breve, solo quattro punti. Il primo: tra i grandi Paesi occidentali l'Italia è quello col numero più alto di parlamentari eletti. Senza contare i senatori
a vita (come non contiamo i Lords, la cui assemblea non ha i poteri della Camera dei Comuni ed è composta ancora in larghissima p arte da gente nomin ata) abbiamo un parlamentare ogni 60.371 abitanti contro ogni 66.554 in Francia, ogni 91.824 in Gran Bretagna, ogni 112.502 in Germania, per non dire degli Stati Uniti: uno ogni 560.747. il secondo: lo stipendio di un deputato è cresciuto dal 1948 a oggi, in termini reali e cioè tolta l'inflazione, di quasi sei volte: era di 1964 euro allora (987 + 977 di diaria) ed è di 11.703 oggi. E non basta dire: “Ah! Altri tempi!”.Terzo punto: nessuno si avvicina ai 149.215 euro di stipendio base dei nostri deputati europei. Non solo prendono oltre 44 .000 euro più degli austriaci ma incassano quasi il doppio dei tedeschi e degli inglesi, il triplo dei portoghesi, il quadruplo degli spagnoli... E la lista, spiegano i senatori diessini Cesare Salvi e Massimo Villane nel libro Il costo della democrazia, non tiene conto delle integrazioni, a partire dal rimborso delle spese di viaggio per l'europarlamentare e i suoi collaboratori, “calcolato a forfait sul biglietto aereo più costoso, senza vincolo di documentazione “. Più “la rilevante indennità aggiuntiva per i collaboratori, di cui non solo non occorre documentare la retribuzione, ma neppure l' esistenza». Più «indennità e benefit vari». Cioè: “3785 euro mensili come indennità di spese generali; 571 euro come rimborso forfettario per le spese di viaggio ogni settimana di seduta;
3736 euro annui per indennità di viaggio per motivi di lavoro; 268 euro giornalieri come indennità di soggiorno; 14.865 euro mensili di indennità per gli assistenti parlamentari” . Insomma, chiudono i due autori: «il calcolo di 30-35.000 euro al mese a testa (tenendo conto delle variabili indicate) è quindi probabilmente approssimato più per difetto che per eccesso».
Quarto punto: l'insofferenza di molti parlamentari verso chi calcola nel loro stipendio anche i soldi per il collaboratore è spesso ipocrita fino all'indecenza. Lo dimostra il sereno distacco con cui i senatori hanno accolto ai primi di ottobre del 2006, votando svogliatamente il suo ordine del giorno ricco di buone intenzioni ma privo di ogni efficacia, la denuncia in aula di una matricola di Alleanza nazionale, Antonio Paravia: «Nei primi mesi di presenza a Roma ho avuto modo di parlare con circa trenta giovani, diplomati, laureati, alcuni anche con un doppio titolo di laurea, che hanno svolto, mi hanno detto, alcuni per pochi anni, altri anche per un decennio e passa, la loro prestazione professionale sia per parlamentari di Camera e Senato sia per il raggruppamento di centrodestra e di centrosinistra. Bene, questi giovani hanno confessato candidamente di non avere nessun anno di contribuzione previdenziale e assicurativa perché hanno sempre percepito tra i 500 e i 1500 euro al mese, ma senza contribuzione, cioè in nero». Ma come, direte, fanno le prediche e poi pagano sottobanco i collaboratori per i quali, come abbiamo visto , prendono al Senato 4678 euro e alla Camera 4190 al mese? Esatto. Il povero Paravia era sconvolto: come è possibile far lavorare in nero una persona che «svolge la sua attività munito di badge identificativo rilasciato dagli uffici di questura dei due rami del Parlamento » e con quello entra nei Palazzi della Camera e del Senato e usa «in una sorta di comodato gratuito , uffici, arredi, strumenti, reti»? Si era rivolto al ministero del Lavoro (del Lavoro" ) ricevendo la risposta che «c'è l'assenza di una qualificazione normativa, cioè il parlamentare che vuole comportarsi correttamente ha difficoltà a trovare uno strumento normativa di riferimento chiaro e preciso» . L'aveva chiesto ai colleghi senatori (senatoril) che gli facevano sorrisetti di cortese comprensione. L'aveva chiesto al segretario generale (il segretario generalel) di Palazzo Madama, il cavaliere di Gran Croce (10 specifica perfino nella pianta organica, oibò) Antonio Malaschini. Il quale gli aveva precisato che «il contributo per il supporto di attività e compiti degli onorevoli senatori connessi con lo svolgimento del mandato parlamentare, erogato mensilmente, non ha alcun vincolo di destinazione rispetto a eventuali prestazioni lavorative rese da terzi o a possibili configurazioni contrattuali». Per capirci: caro senatore, ne faccia quel che le pare. Una vergogna. Ingigantita dall'improvvisa e ipocrita «presa di coscienza» seguita a un servizio tivù delle Iene che a metà marzo del 2007 smascherava il giochetto dimostrando che alla Camera su 629 collaboratori ufficiali quelli regolarmente assunti erano solo 54 tutti gli altri erano pagati in nero. Quanto? «Il mio riccamente» rispondeva spigliata la margheritina Cinzia Dato prima di sprofondare in un confuso balbettio alla richiesta di maggiore precisione: «Ma... No... Chieda a lui.;». «La politica ha dei grossi costi. Quindi ognuno s'arangia» spiegava romanescamente il nazional-alleato Carlo Ciccioli. «Quanto paga i portaborse?» «Quattro o cinquecento euro ar mese pe' fa 'na cosa. Quattro o cinquecento pe' fanne 'n'antra...» E il compagno Fausto Bertinotti? «Non lo sapevo.» Ma dài! «Non lo sapevo.» Cinque mesi dopo la segnalazione in aula del senatore Paravia, se non lo avesse informato la tivù, sarebbe rimasto ignaro : «Di fronte alla denuncia siamo intervenuti immediatamente ». Come? D'ora in avanti sarebbero entrati nei palazzi solo i collaboratori a contratto. Però... «Però serve una leggina » rispondeva Franco Marini. Quando? «Subito. Appena possibile» Bene, bravi, bis. Peccato che lo stesso identico problema, dopo un'altra denuncia pubblica, fosse stato affrontato esattamente allo stesso modo dalla Camera già il 17 luglio del 2003. Quando i questori avevano intimato ai deputati: “I rapporti di collaborazione a titolo oneroso dovranno essere attestati, al momento della richiesta di accredito,mediante la consegna agli uffici di copia del relativo contratto”. Chiacchiere. Solo chiacchiere in attesa che si calmassero le acque. Dei bramini, ecco cosa sono diventati i politici italiani. Partoriti
non da Brahma «Davvero grandi sono gli dei nati da Brahma» dice la genesi dell'Atharvaveda, una delle opere sacre dell'induismo}, ma da un sistema partitocratico malato di elefantiasi. Non tutti, si capisce. Camere, Regioni, Province, Comuni ospitano anche molte persone a posto che provano un sincero disagio per i privilegi di cui godono. E cercano di approfi ttarne con sobrietà. Tutti insieme, però, sono una casta. Che si sente al di sopra della società della quale si proclama al servizio. Tanto che i più attenti, quelli che non vivono «solo» di politica e magari scrivono anche romanzi o biografie sofferte di musicisti tragici, come Walter Veltroni, non si sognano di bollare le critiche come demagogiche: «Quando i partiti si fanno casta di professionisti, la principale campagna antipartiti viene dai partiti stessi» . Per carità , non siamo nel regno di Tonga del re Tupou IV detto «re Ciccia» perché arrivò a pesare 201 chili. Da noi il Parlamento e i ministri non vengono scelti dalla corte. Ma come ricordò un giorno Eugenio Scalfari citando l'amatissimo Aexis de Tocqueville, l'oligarchia è «un sistema dove il potere è fortemente centralizzato e i corpi intermedi sono stati dissolti o indeboliti nelle loro autonomie. AI vertice i poteri costituzionali, anziché distinti e bilanciati , si sono fittamente intrecciati tra loro . Chi li gestisce fa parte dell'oligarchia; ciascuno degli oligarchi ha una sua area esclusiva di potere, che gli altri sono impegnati a garantirgli in perpetuo, a condizione naturalmente di godere del diritto di reciprocità». Questo «non significa necessariamente che il popolo non possa votare, ma che i meccanismi elettorali sono costruiti in modo da confermare invariabilmente l'oligarchia». Eppure, proseguiva il fondatore della «Repubblica» , quando scriveva La democrazia in America Tocqueville «non conosceva ancora i regimi di massa, i mezzi di comunicazione di massa, i modi per manipolare il consenso di massa». Né tantomeno, aggiungiamo noi, la legge elettorale del 2006, la «porcata» di Roberto Calderoni che ha chiuso ogni spiraglio alle candidature non decise dai leader. Una legge che, per dirla con Uva Diamanti, «ha alimentato ulteriormente il frazionismo partigiano. Riducendo gran parte dei part iti a oligarchie di pote re». «Io non conosco questa cosa, questa politica, che viene fatta dai cittadini e non dalla politica» disse anni fa Massimo D'A1ema sbertucciando i critici: «La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali». Una tesi che Diamanti ha bacchettato più volte: «Fa sorridere amaro, questa rinascita della Repubblica dei Partiti. Che non si può giustificare con la nostalgia. Della "vecchia" Dc, del "vecchio" Pci. E degli altri: socialisti, liberali, repubblicani. Perché i "nuovi" partiti non somigliano a quelli della Prima Repubblica. Sia detto con assoluta convinzione, ma senza alcuna nostalgia: sono peggio, questi partiti. Con qualche eccezione, non hanno una vita democratica. Non promuovono la partecipazione. Sono oligarchie. Partiti personali. Senza società e senza territorio. A loro agio nei salotti tivù. A chi vuole (riproporre una democrazia proporzionale, per restituire lo scettro ai partiti, per questo chiediamo: restituiteci, prima, i partiti». Quelli veri, non quelli fondati dal commercialista. Sapete com'è nato il parti tino Italiani nel Mondo di proprietà di Sergio De Gregorio, che grazie alla micidiale parità tra destra e sinistra si è ritrovato nel 2006 a essere l'ago della bilancia che poteva salvare o affossare Prodi? C'era una volta un'impresa in via Terracina 431, a Fuorigrotta, aperta nel giugno del 2002 da un «amico benefattore» e dedita, diceva la ragione sociale, alla «distribuzione e commercializzazione all'ingrosso e al dettaglio di prodotti tessili». Era iscritta col nome Italiani nel Mondo. Un nome magico, che qualche mese dopo l'«amico» (un certo Claudio Mele) registrò all'ufficio brevetti delle Attività produttive dichiarando di occuparsi di «apparecchi scientifici e per la registrazione e riproduzione del suono», «cuoio e sue imitazioni, bauli, valigie, ombrelli, ombrelloni e bastoni da passeggio», «articoli di abbigliamen to, scarpe e cappelleria» ed «educazione, formazione, divertimenti, attività sportive e culturali». Parallelamente, secondo il sito internet www.napoliontheroad.it, spunta sotto il Vesuvio un '«associazione culturale Italiani nel Mondo» che, «ideata nel giugno del 2001 dal giornalista Sergio De Gregorio... intende promuovere il marchio e l'immagine del "Made in Italy" al di fuori dei confini nazionali at traverso un proficuo interscambio commerciale, economico e culturale con l'estero» e per questo ha aperto «cinque sedi operative localizzate a Napoli, Roma, Nizza, New York e Zurigo, a cui presto si aggiungeranno altre strutture a Buenos Aires, Sofia, Londra, Parigi e Berlino». Un obiettivo «consacrato» nella competizione musicale Italiani nel Mondo Festival trasmessa da una tivù locale. E destinato a essere sviluppato «aprendo nuove sedi in Australia (Melbourne), in Estremo Oriente (Tokyo e Hong Kong), in Russia (Mosca) e ad Atene». Per dirla alla napoletana: «'nu nettuorche» planetario! E chi è questo ambizioso Sergione fondatore del network planetario? Un giornalista di seconda fila che nel '97 è spuntato dal nulla per «salvare», come direttore editoriale, il defunto «Avanti !» e risulta autore di due scoop finiti nell'archivio del l'Ansa. Un'intervista all'imputata poi assolta del celebre omicidio di Anna Parlato Grimaldi, la cronista del «Mattino» Elena Massa (che lei nega d 'avere concesso) e un'intervista a bordo della nave Monterey al più celeb re dei pentiti mondiali, Tommaso Buscetta, che lui nega di avere concesso. Lamentando anzi di essere stato tradito «con quelle foto hanno messo in pericolo mia moglie e mio figlio» da chi sapeva della crociera e cioè, pare di capire, da qualche spione infedele dei «servizi». Ma adesso occhio alle date. Nell'ottobre del 2004 il nostro futuro senatore e Angelo Tramontano, un deputato regionale di Forza Italia, fondano dal notaio la «Italiani nel Mondo Radio e Tivù Srl». E il primo mattone di un piccolo impero: «Italiani nel Mondo Channel», «Italiani nel Mondo Immobiliare» , «Italiani nel Mondo Servizi Immobiliari»... Tutte in pugno a Sergio De Gregorio e tutte piazzate nella stessa brutta palazzina di colore incerto di Fuorigrotta, in via Terracina 431 , dove ha sede già la prima società costituita dall'«amico» Mele per commerciare prodotti tessili, ombrelli e cuoio. Un piccolo impero di carta in cui non manca una società per bambini: la «Italiani nel Mondo junior», che «ha lo scopo fondamentale di aiutare i comp onenti a diventare Cittadini Italiani inseriti nel Mondo» e in cambio chiede ovviamente ai cari piccolini «il versamento di una quota fissa decisa a livello nazionale e di una quota aggiuntiva, decisa dal raggruppamento territoriale». Cosa se ne fa, di tutte queste società? La risposta è nella storia di «Italiani nel Mondo Channel», che nasce il1° giugno del 2005 con un capitale sparagnino di 10.000 euro ma la settimana dopo ingloba il marchio «Iraliani nel Mondo» (quello dei prodotti tessili e del cuoio) e aumenta il capitale di 2 milioni. Miracolo! E da dove vengono tutte quelle banconote? Niente banconote: il «capitale» è un documento. La perizia giurata firmata pochi giorni prima da un giovane «tributarista», Andrea Vetromile, miracolosamente individuato dal nostro futuro senatore nonostante non sia sull'elenco telefonico e malgrado figuri non come commercialista ma come «consulente del lavoro ». Perizia secondo la quale il prodigioso marchio «Italiani nel Mondo» (sempre quello d ei prodotti tessili e del cuoio) vale ap punto quella cifra enorme. Direte: ma non apparteneva a Claudio Mele? Boh... Certo è che il giorno dopo sboccia un documento in cui Mele, indifferente al fatto che il suo marchio valga ora 4 miliardi di vecchie lire, dona generosamente tutto a De Grego rio. Che a questo punto comincia a vendere in giro quote della magica società incassando in pochi giorni 100.000 euro di qua, 29.000 di là, 250.000 di là ancora... Averne, di . . “ amici così”... Un giochino finanziario meraviglioso. Al punto che in autunno, cioè sei mesi prima di candidarsi con l'implacabile moralizzatore Antonio Di Pietro, il nostro lo rifa. Stavolta fondando con altri 10.000 euro la «Italiani nel Mondo Reti Televisive- arricchita all'istante dal «costosissimo» marchio «Italiani nel Mondo Channel», Stesso «tributaristas (strana figura di indipendente se all'assemblea della società, con De Gregorio già senatore, esulterà «ponendo l'enfasi sul risultato positivo raggiunto»), stesso tipo di perizia, stessa dichiarazione giurata sull'immenso
valore di quel marchio planetario, stesso aumento di capitale ma stavolta ancora più grosso (3 milioni di euro !) , stessa vendita immediata di quote: 20.000 di qua, 30.000 di là... Fino alla donazione dell' ultima fetta di torta societaria, come la prima volta, a una gentile signorina non ancora trentenne, Maria Palma. Il consiglio di amministrazione, dice il verbale steso dopo le Politiche, fa «i complimenti per il successo elettorale». Complimenti, va detto, meritatissimi. Dove lo trovate un altro che abbia chiesto il voto ai nostri emigrati in Europa con una lista nata da una società di cuoio e tessili? Che si sia candidato con l'«eroe» di Mani Pulite dopo aver rifatto 1'«Avanti!» (primo numero: una lettera di Craxi e Il crepuscolo di Antonio Di Pietro) ed essere stato forzista e neodemocristiano? Che si sia fatto eleggere a capo della Commissione Difesa senza che gli chiedessero conto di queste società -partito che aumentano di capitale con perizie giurate di un «consulente del lavoro»? ,Che sia riuscito ad avere i salamalecchi della destra «E un uomo di grande spessore» dice il neodemocristiano Gianfranco Rotondi) senza rossori di imbarazzo per la catena di assegni a vuoto per centinaia di migliaia di euro emessi negli anni, come ha scritto sul «Sole 24 Ore» Claudio Gatti, da un mucchio di società a lui collegate, dalla «Broadcast Video Press» alla «Aria Nagel»Misteri. Misteri però tutti dentro un sistema profondamente marcio. Dove il bramino sa che, una volta varcato l'ingresso del Palazzo della Casta, è a posto. In eterno. Perché troverà sempre qualcuno, davanti a qualsiasi grattacapo, pronto a difenderlo in cambio di un voto. Come è successo a Pietro Fuda, che, passato dalla destra alla sinistra per fare il senatore, firmò quel celebre emendamento alla Finanziaria 2007 che, tagliando i tempi della prescrizione, permetteva agli amministratori incapaci, folli o criminali di scampare al rischio di rimborsare i soldi di scelte sventurate. Emendamento passato tra mille polemiche e subito abolito con un decreto ad hoc.Tutti a chiedersi: perché l'avrà fatto? In nome di chi? Con quali obiettivi? Lui bacchettava i magistrati contabili che «dovrebbero operare in modo diverso, guidare gli amministratori locali, non aspettarli al varco dopo che hanno sbagliato» e chiedeva:
«La Corte dei Conti, scusate, la paghiamo noi, sono stipendiati oppure no? Devono fare un servizio utile per lo Stato». Come lui: una vita «al servizio». Prima come dirigente della
Cassa del Mezzogiorno e della Regione Calabria, poi come
presidente della Provincia di Reggio e insieme amministratore
unico dell'aeroporto reggino, carica mantenuta (ovvio: spartisce
coi tre del collegio sindacale 162 mila euro) anche dopo l'elezione
a Roma e ottenuta col parere favorevole non solo della
Regione ma anche (pensa te) della Provincia di cui era a capo.
Bene: di qu and 'era l'emendamento? Dell'inizio di dicembre.
E cosa era successo, senza clamori, un paio di settimane
prima? Coincidenza! La Corte dei Conti calabrese aveva steso
una relazione durissima sull'aeroporro, chiedendosi come avesse
fatto a sommare nel 2005 «perdite pari al 53,86% dell'intero
patrimonio netto, circostanza che denota una quantomeno insoddisfacente
gestione della società». Tesi che il nostro Fuda
non condivideva affatto. Anzi, il buco del 2004 di 1.392.000
euro su 1.648.000 di fatturato (buco coperro dai soldi pubblici,
dei cittadini) l'aveva liquidato sbuffando: «Irrisorio», Mica erano
soldi suoi. Intoccabile come il Gran Khan, che nel Milione di Marco
Polo beve vino e latte e altre buone bevande da coppe che «per
opera degli incantatori» si sollevano e «vanno a presentarsi» alla
bocca del sovrano «senza che nessuno le tocchi», un parl amentare
italiano sembra davvero potersi permettere di tutto. Anche di restare a Montecitorio senza essere stato eletto, come è accaduto nella legislatura berlusconiana a Luciano Sardelli,
che per un errore materiale del presidente di un seggio brindisino
che aveva subito ammesso la svista «ero stanchissimo, stavo
malissimo» si era ritrovato i voti dell'avversario, Cosimo
Faggiano, al quale venne finalmente data ragione un mese prima
delle nuove elezioni, quando ormai era troppo tardi.
Per non dire di Luigi Marrini, «l'Uomo che visse tre volte
». Nella prima vita, durante la quale conquistò anche uno
scudetto, era un calciatore della Lazio. Nella seconda un pilota
dell'Alitalia. Nella terza un deputato di An. Sulla carta, una volta
eletto, doveva andare in aspettativa. Macché: la direzione della compagnia di bandiera pensò che sarebbe stato «diseconornico », Al suo rientro in azienda sarebbe stato infatti necessario
un lungo e costoso periodo di riaddestramento. Meglio continuare a pagargli lo stipendio: minimo contrattuale più un tot per ogni volo. Per 10 anni, deciso a mantenere «attivo» il
brevetto di pilota (minimo stabilito dall'Enac: 3 decolli e 3 atterraggi
ogni 90 giorni), continuò quindi a volare una volta al mese: «L'onorevole pilota Luigi Martini vi dà il benvenuto a bordo...». E l'Alitalia continuò a mandargli a casa la busta paga.
Finché non è andato in pensione: 300.000 euro di liquidazione
da sommare al vitalizio da deputato e a una mancia finale
di 150.000 euro di buonuscita. Soldi pubblici. Soldi dei cittadini. Che si chiedono come
sia possibile che le spese correnti della Camera (la tabella è in
Appendice) siano passate negli ultimi tre lustri, tolta l'inflazione,
da 636 a 1004 milioni di euro. O che Palazzo Madama nei
cinque anni della legislatura berlusconiana sia costato 2202 milioni
di euro, quanto i 900 chilometri del nuovo gasdotto ItaliaAlgeria.
Eppure, ed è questo che cercheremo di dimostrare, il
cumulo dei privilegi dei parlamentari e le divise dei commessi
del Senato pagate nel 2006 ben 1815 euro a testa e la montagna
di denaro speso nei palazzi romani sono solo una parte del costo
enorme della politica. Che va dalle indennità al presidente
della Repubblica ai gettoni dei consiglieri circoscrizionali per
un totale di 179.485 persone interessate. Più gli stipendi del
personale delle varie amministrazioni, dal Viminale alle Comunità
montane. Più quelli degli autisti, dei portaborse, dei collaboratori
esterni. Più i quattrini dati a quasi 150.000 consulenti.
Più le prebende ai vertici delle oltre 6000 società pubbliche e
parapubbliche, usate spesso per piazzare gli amici e i trombati.
Tutti soldi che sarebbe scorretto contare come «costi della
politica» se dalla politica non fossero stati gonfiati in modo abnorme.
E se le istituzioni non fossero state piegate agli interessi
di partito, di fazione, di famiglia. Da Palazzo Chigi fino a certi
paesini siciliani come la catanese Roccafiorita dove ci sono un
sindaco, un vices indaco, 2 assessori effettivi, 2 assessori non
consiglieri , un presidente del consiglio comunale e I l consiglieri
per 254 abitanti. Fino al capolavo ro di Militello Rosmarino, un paese sui
Nebrodi. Dove dal 2003 è sindaco Concetta Maria Papa per investitura
«Concettina, molla un momento la 'ncasciata che devo
farti fare a sindaca...» del marito Vincenzo, che già fu sindaco dopo papà Calogero e zio Vincenzo, e che del borgo è il monarca: «Voglio bene alla gente e la gente vuol bene a me. Se uno mi domanda di trovargli un ricovero a Milano gli devo dire
di no? Se mi chiede una mano per fare assumere il figlio gli devo
dire di no? Perciò mi amano. Vi pare che con tutte le grane
giudiziarie che ho avuto avrei potuto resistere sennò?».
Laureato in medicina, primario di ginecologia, sindaco dicì per
una vita salvo i periodi in cui lasciava la carica a suo cognato
Biagio, don Vincenzo è l'erede di una dinastia rimasta sul
trono di Militello quasi più dei Savoia su quello d 'Italia, fin dai
tempi in cui il bisnonno entrò in consiglio comunale a metà Ottocento.
Disp rezzato da mezzo paese per la distribuzione dei
posti e delle prebende, è venerato dall'altra metà per gli stessi
motivi. Il meglio lo diede come presidente dell'Usl quando, lasciata
la poltrona di sindaco al fidato Sante Russo, si guadagnò
la fama d 'essere una specie di Padre Pio all'incontrario. Dove
lui posava la mano, lì germogliava una sclerosi a placche, una
angina pectoris, un'insufficienza cerebrovascolare, un'osteoporosi...
I nemici lo irridevano acclamando: «Don Vince': facci la
grazia! Don Vince': dacci una pustola!». E via via la sua fama
messianica aveva valicato i Nebrodi e le Madonie e chiamato
folle da tutte le contrade. Finché era intervenuta la magistratura accusando lui e altri
di avere distribuito 180 assegni d'accompagnamento e 500 pensioni
a monchi, tisici, ciechi, sciancati spesso falsi. Come Carmelo
Femminella , che per «gonartrosi bilaterale, osteoporosi
diffusa, discopatia cervicale e lombare» risultava semiparalizzato
ma girava in motorino. Tale era l'aspettativa, scrisse il magistrato, che i carabinieri avevano notato «verso il comune di Militello un fenomeno migratorio anomalo». A casa di don Vince'
risultarono 15 nuovi residenti. Pareva finito, don Vincenzo, dopo quella grana. Sepolto
sotto lo scandalo, i debiti del Comune, l'ondata di indignazione
morale. Lui fece spallucce: «Ho solo distribuito a un po' di poveracci
un milionesimo dei soldi regalati alle industrie del
Nord !». Quindi, per mostrare quanto l'inchiesta non l'avesse indebolito,
si candidò a sindaco di Sant'Agata diMilitello. E vinse.
Poi candidò il figlio Calogero a Militello Rosmarino. E vinse
ancora. Pronto a candidare la volta dopo Concettina. E vincere
ancora. Fedele sempre a quel cognome incredibilmente adatto
a uno come lui che simboleggia un certo modo di far politica
all'italiana: Lo Re.
1
E pensare che dormivano in convento
Dai paltò in prestito di De Gasperi agli sfa rzi hollywoodiani
Il leggendario Matteo Tonengo, col tesserino parlamentare, voleva
andare gratis anche al casino. Era un robusto contadino,
veniva da Chivasso, aveva fatto la Resistenza ed era noto, racconta
nel libro Al Viminale con il morto Ugo Zatterin, «soprattutto
per le sue licenze alcoliche». Democristiano, si era guadagnato
l'elezione distribuendo in tutto il Piemonte, scrive Guido
Quaranta nel suo Scusatemi, ho il paté d' animo, due volantini
indimenticabili. Il primo diceva: «Questa notte mi è apparso in
sogno don Bosco che mi raccomandava: "Vai a Roma, Tonengo.
Vai a Roma e difendi gli interessi dei piccoli e medi coltivatori" ». Il secondo: «Contadini, votate Tonengo: feconderà i vostri campi». Questa idea che il parlamentare avesse diritto anche a rombare gratis nei lupanari capitolini frequentati, secondo Gioachino
Belli, pure dai peccatori in tonaca «Entrato er brigattiere in
ner bordello je se fa avanti serio serio un prete» la dice lunga
sul modo in cui, fin dall'inizio, qualcuno intendesse i privilegi
del ruolo. La richiesta della marchetta gratuita, sottoposta allora
addirittura ai questori della Camera, non deve però trarre in inganno.
I parlamentari dell'epoca in realtà, rispetto a quelli di oggi,
conducevano una vita assai più sobria e avevano decisamente
meno pretese. Certo, era un'Italia diversa. Nel secondo dopoguerra il
reddito pro capite nel Mezzogiorno e nelle aree più povere del
Nord era inferiore a quello iugoslavo. Un mezzadro palesano o
un solfataro siciliano dovevano lavorare undici ore per comperare
una dozzina di uova, così care che la madre dello scrittore
Gesualdo Bufalina si vide togliere il saluto da una vicina di casa
che raccusava di averle restituito un uovo più piccolo di quello
che aveva avuto in prestito. I giornali pubblicavano l'immagine
di un uovo con corona reale, sigaro, monocolo e anello di diamanti
sopra uno slogan che diceva: «Il signor uovo è diventato
ricco a forza di essere caro e vi guarda dall'alto in basso. Abolite
le uova e provate l'Ovocrema che sostituisce otto rossi d'uovo
e costa poche lire». La gente continuava a canticchiare, facendo il verso a Beniamino
Gigli, la parodia di Mamma che già aveva sbeffeggiato
la grandeur fascista: «Paaaasta, sessanta grammi e poi ti dico
basta, riiiiso, quando ti mangio sembra un paradiso. Lo mangio
sempre zuppa, di cavoli e di verdura, la vita è troppo dura, così non si può andaaar!». Il Piano Marshall veniva esaltato dai cinegiornali che mostravano «il treno dell'amicizia» mentre girava per l'America a raccogliere fondi «per alleviare la carestia
in Italia»: “A ogni stazione si aggiungono nuovi vagoni:
zucchero, grano, calorie per il nostro inverno. Cowboy e sceriffi
rivaleggiano in un western dell'umana solidarietà!», Un pellerossa
diceva: «Anch'io aiutare visi pallidi Italia !», La mucca Pazzarella muggiva ansiosa di donare il suo latte agli «Italians friends», E la sigla finale tuonava: «Grazie.joe!»,
I bambini recitavano: «Dal lontano continente, è arrivata la farina. C’è la porta la Marina, di un Paese assai potente. Burro, latte, marmellata, per i bimbi e gli ammalati: siamo tanto fortunati, ci son uova di covata. Benedetti dal Signore questi aiuti mai finiti, vengon dagli Stati Uniti sono il dono dell'amore». Giornali come «La Settimana Incom Illustrata»
dedicavano alle donne immerse nelle risaie titoli così: Le mondine
sognano la polenta. E sui muri di Roma, nel giugno 1946, affiggevano manifesti come questo: «Mentre i bambini diventano sempre più gracili e mancano gli alimenti necessari, le pasticcerie vendono pasticcini. Questo è un insulto per chi ha fame! Madri romane, protestate contro questa vendita: non permettete che degli incoscienti si arricchiscano speculando sulla
fame dei vostri fìgli! ».La povertà era tale da spingere al varo di una commissione
parlamentare sulla miseria che nel 1951 , sei anni dopo la fine della guerra, avrebbe detto che quattro milioni di italiani non consumavano mai nell'arco di un intero anno, manco a Natale,
carne, vino o zucchero. Che una famiglia su quattro viveva in «case sovraffollate, tuguri o grotte» . Che in zone disperate del Nord come Comacchio le abitazioni con la latrina (non col bagno: con la latrina erano 5 su 100. Che alla borgata Gordiani
di Roma c'era un gabinetto ogni 200 persone.
A farla corta: era cosi dura la vita , in quell'Italia, che i politici
non avrebbero avuto neppure la possibilità di trattarsi troppo
bene. Ne Lo stomaco della Repubblica Filippo Ceccarelli ricorda
la testimonianza d i Maria Roman a De Gasperi, figlia e
biografa di Alcide: “A Salerno, ai tempi del gabinetto Bonomi,
quando l'intero governo si riuniva per cena nella villa dell'ambasciatore
G uariglia a Vietri, nell 'atto di servire le polpette il
cameriere in livrea si abbassava all'orecchio di ciascuno e con
rispetto, ma con altrettanta fermezza, suggeriva: "Due, signor
ministro"”. Cinghia stretta per tutti. Ma è fuori discussione che
i padri costituenti conducessero anche per formazione mentale
una vita assai sobria.
Certo, il principio che la politica fosse un servizio d a rendere
gratuitamente come p revedeva un tempo l'articolo 50 dello
Statuto Albertino «Le funzioni di senatore e di deputato
non danno luogo ad alcuna retribuzione») era stato abbandonato
da un pezzo. Già nel 1913 i deputati si erano auto-attribuiti
una modesta indennità, ma solo a titolo di rimborso spese. Indennità
confermata e aumentata nel 1925 dal regime fascist a.
Ancora come «rimborso spese».
L'idea che il pubblico denaro dovesse essere «rispettato»,
tuttavia, era diffusa. Con qualche punta addirittura di ascetismo
morale. Come quello di Enrico De Nicola che, eletto capo
provvisorio dello Stato il 28 giugno del 1946 al primo scrutinio,
prese così sul serio la «provvisorietà» del suo ruolo che non solo
non si insediò al Quirinale (anche per scaramanzia, pare, data
la fine fatta d ai Savoia «dopo aver regnato nell'edificio lasciato
da Pio IX») ma, come scrive in Quelli del palazzo Guido
Q uaranta, «non utilizzò mai gli 11 milioni annui previsti per il
suo appannaggio e fece il presidente pagando di tasca sua».
Per non dire degli ospiti della cosiddetta «Comunità del
Porcellino». Come avesse preso quel nome non è chiarissimo.
C'è chi lo fa risalire al giorno in cui l'allora presidente delle
Acli, Vittorino Veronese, si presentò reggendo in una borsa un
porcellino farcito, che in quegli anni di magra sembrò un'apparizione.
Chi, come Telemaco Tuzi, nipote delle padrone di casa,
le celeberrime sorelle Portoghesi, offre una versione diversa:
«Il nome Comunità del Porcellino nacque dall'intercalare che
Laura Bianchini (in casa chiamata Laurona per distinguerla da
Laurina o Laura piccola che era zia Laura, molto più minuta)
era solita utilizzare. Laurona, carattere forte da "vecchio alpi.
no", come a lei piaceva definirsi, quando perdeva la pazienza
etichettava i suoi interlocutori, e specialmente i nostri commensali,
con l'epiteto "tu sei un porco". L'11 giugno del 1947 alle
ore 21, nel salotto rosso fu convocata la Comunità e altri amici
e nello spirito fucino che li distingueva, fu redatto su una pergamena
firmata dai vari membri e controfirmata in qualità di
notaio da padre Caresana, un atto ufficiale di costituzione (che
purtroppo è andato srnarrito)».
Ciò che è sicuro, è che il primo emblema della Comunità
fu «un porcellino di vetro appeso con un nastro tricolore al
lampadario della sala da pranzo». E che da quel momento tutti
coloro che facevano visita alla casa, un grande appartamento su
due piani (uno con le stanze da letto e il salotto, l'altro con la
cucina, la sala da pranzo, le terrazze e la soffitta) in via della
Chiesa Nuova 14, si sentì in dovere di portare porcellini di ogni
forma e materiale via via recuperati sulle bancarelle di tutta Italia.
Ogni tanto, gli ospiti goliardi tenevano nota degli avvenimenti:
«Uniti al comune trogolo rinnovato a porquet a onorare
la Gran Porca nel suo 580 del lattonzolato i sottoscritti riconfermano
il loro amore di Troia e dei suoi destini e auspicano le
più gran porcherie a tutti gli idealisti».
Chi erano quei «goliardi» che affollavano il mitico appartamento
delle Portoghesi? Alcuni dei massimi rappresentanti del
cattolicesimo politico italiano. C'era Giuseppe Dossetti, che in
attesa di ritirarsi dalla politica per farsi prete, era deputato alla
Costituente e vicesegretario della Dc. C'era Giuseppe Lazzati,
che con Dossetti spartiva una stanza nella quale era stata tirata
su una piccola parete divisoria di legno e dopo essere sopravvissuto
alla prigionia nei lager nazisti era entrato lui pure tra i costituenti
prima di dedicarsi all'Università Cattolica di cui sarebbe
diventato il celeberrimo rettore. C'era Giorgio La Pira, il futuro
sindaco di Firenze anche lui deputato alla Costituente e
uomo del dialogo quando dall'altra parte non c'era Piero Fassino
ma comunisti dal profilo feroce quale Iosif Stalin.
Amintore Fanfani era già ministro eppure si adattò per un
pezzo a vivere con moglie e figli lì, in quella specie di «comune
» cattolica dove tutti mangiavano insieme la pasta e fagioli
messa in tavola dalla Iolandina, un'emiliana sulla cinquantina
convinta a trasferirsi a Roma dalla madre di Dossetti. Una vita
spartana. Di pasti frugali e abiti dimessi. In cui non solo la sob
rietà ma la povertà , ricorda oggi sospirando l'ex presidente
dei Popolari Giovanni Bianchi, «veniva addirittura teorizzata»,
Lazzati si concedeva l'unico lusso della pennichella accomiatandosi
dai commensali con un sorriso su se stesso e il sonnellino:
«Por Pepìn inscì bon e inscì disgrasià, andem a fà un
sugnett». Dossetti si stava via via così estraniando dalla politica
che il giorno in cui De Gasperi gli mandò un'amica ambasciatrice
per convincerlo a entrare nel governo, la poveretta restò a
lungo a battere al portone (il citofono non c'era) con «zia Laura
che dalla finestra ripeteva che lui non era in casa» . E avevano
tutti un tale spirito di adattamento che per anni i due appartamenti,
sopra e sotto , ebbero un solo bagno e quando finalmente
le sorelle Portoghesi si decisero a farne un altro, questo
secondo cesso fu inaugurato in pompa magna dal ministro Fanfani
con tanto di taglio del nastro tricolore. Per non dire di La
Pira, così indifferente alle cose materiali che infilava sulla porta
il p rimo cappotto che gli capitava sottomano finché un giorno,
dopo essere uscito con quello di Lazzati, tornò indossando un
pastrano bisunto e rattoppato e così pieno di pulci Vi ho scambiato
con un poveretto più infreddolito di me» che «zia Laura
e Iolanda furono costrette a b ruciarlo in terrazza».
li cappotto, in quella Roma che firmava accordi con Bruxelles
oggi impensabili. “Per ogni scaglione di 1000 operai italiani
che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà in Italia tonnellate
2500 mensili di carbone...” è qualcosa di più che un capo
di vestiario. È il simbolo di un'epoca. Alcide De Gasperi, che
in un'altra occasione si vedrà regalare da una ditta anche due
valigie per non far sfigurare l'Italia, vola in America nel '47 con
il cappotto che gli aveva prestato Attilio Piccioni. Pietro Nenni,
scrive Ceccarelli, «ha un solo vestito e un solo cappotto: "e pure
lercio" annota Vittorio Gorresio ne I moribondi diMontecitorio.
Solo al momento di diventare ministro degli Esteri compra finalmente
due vestiti scu ri e un cappello a falde larghe con il
quale, ironizza ancora Gorresio, pare un piantatore americano».
E anche nella vita di Rosetta Russo Iervolino c'è un paltò: «Mia
mamma si riscaldava con una coperta ricavata dal cappotto scucito
di sua madre, la nonna Santa, dignitosissima baronessa de
Unterrichter, che pur di far stare calda la figlia a Roma per alcuni
inverni girò per le gelide strade di Trento senza cappotto sostenendo
che non aveva affatto freddo».
Quella della famiglia Iervolino è una storia esemplare, per
capire come vivevano i politici di allora. Il padre, Angelo Raffaele
Iervolino, un avvocato antifascista salvato da papa Pio XII
che gli aveva offerto rifugio in Vaticano e ministro nel governo
Badoglio, era uno dei democristiani più in vista della Costituente.
E anche la madre, Maria de Unterrichter, era deputata.
Ma, avrebbe raccontato anni dopo Rosetta a «Gente» in un memoriale,
«non era facile trovare un posto dove abitare: le case
mancavano e i miei non erano certamente ricchi. Alla fine fu
trovata una soluzione che doveva essere temporanea e durò invece
ben nove anni. Io con mia madre e mio fratello fummo
ospitati presso il convento delle Madri Pie di via Bonifacio
VIII, mentre papà andò a stare in viale delle Mura Aureliane,
presso i frati francescani. La famiglia si riuniva solo il sabato e
la domenica quando, tutti insieme, tornavamo a Napoli nella
vecchia casa sul porto. )
«La mamma dormiva in un vero letto posto in un angolo,
mentre sulla parete opposta c'erano due poltrone Letto per me
e per mio fratello. Sul lato della finestra trovava posto un tavolino
verde che aveva funzioni di scrittoio per mamma, di scrivania
per noi quando facevamo i compiti e di tavolo da p ranzo
quando arrivava l'ora dei pasti».
Pranzi e cene da convento postbellico: «Spesso la minestra
delle suore non riusciva a saziare il nostro appetito. Allora
mamma apriva il primo tiretto del cassettone, che aveva anche
funzioni di dispensa . Il pasto veniva rinforzato con qualche fetta
di soppressata o qualche tarallo che zia Concetta ci faceva
porta re da Napoli». Lui stava al governo, lei alla Camera. Eppure,
c'è da sorriderne davanti alle autoblu di oggi, i due s'incontravano
la mattina «al capolinea del bus 64 per andare insieme
a Montecitorio».
Nove anni dopo (nove annil) , quando Rosetta è già in terza
liceo, gli Iervolino hanno finalmente una casa loro: «Ci fu infatti
consegnato l'appartamento della cooperativa edilizia t ra
parlamentari a cui mamma si era iscritta dal 1948. Lasciare il
convento per tornare finalmente a una vera vita in famiglia ci
sembrò, ed era, una grande conquista. Avevamo tre stanze da
letto, saloncino e servizi (...). AI piano terra vennero ad abitare
gli Almirante e i Mancini, al primo piano Pietro Amendola, dirimpetto
Fiorentino Sullo, di fronte all'ingresso Velio e Nadia
Spano, sul mio stesso piano i Micheli . Spesso mi son sentita
chiedere: "Ma come mai hai dei rapporti così buoni con l'opposizione?".
Semplice: con l'opposizione ho diviso quotidianamente
quasi quarant'anni di vita, gioie e dolori, nascite e lutti».
Il potentissimo Palmiro Togliatti viveva, sorvegliato notte e
giorno da Pietro Secchia che stava al piano di sopra, in un villotto
di largo Arbe, a Montesacro, all'estrema perife ria della
città d'allora. Il futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi
Scalfaro sarebbe rimasto tutta la vita, salvo gli anni sul Colle, in
un «appartamento qualunque di un quartiere qualunque» dalle
parti di Forte Bravetta. E altri due futuri inquilini del Quirinale
, Giovanni Leone e Sandro Pertini, furono tra i soci di una
cooperativa simile a quella degli Iervolino, che tirò su due edifici
bruttissimi in piazzale dei Navigatori, lungo lo stradone che
porta all'Eur. «Quando ci consegnarono le case era il 1956» ricorda Renzo
Foa, che ci andò a vivere da ragazzo col papà e il nonno senatore
«la palazzina dei deputati era coperta da un orribile mosaico
verdognolo, quella dei senatori da non meno sconce mattonelle
giallognole. L'Eur, che Mussolini aveva cominciato a costruire
per farci l'Esposizione universale del 1942, era ancora
disabitato e dietro i nostri condomini c'era l'aperta campagna.
Baracche. Orti. Marrane. Sotto casa non erano parcheggiate
auto di lusso, ma utilitarie. Nenni aveva una 1100 con cui la domenica
si rifugiava in una villetta a Formia, Pertini una 500 di
colore più o meno rosso ruggine. Walter Audisio andava in Parlamento
in autobus. Aveva ammazzato lui Mussolini, o almeno
così si diceva.Ma se ne andava in giro da solo. Tranquillo. Senza
scorta. Le classi dirigenti dell'una e dell'altra parte non si
detestavano come adesso. C'era rispetto reciproco»
Case dignitose, ricorderà sul «Foglio» Gabriella Mecucci,
ma niente di lussuoso. «Appartamenti da 140 metri quadrati:
tre camere, soggiorno, tinello e servizi. Appartamenti pieni di
figli e di librerie, che si vedevano dall 'esterno attraverso le
grandi finestre sulla Colombo, e nei quali tardarono parecchio
a entrare gli apparecchi televisivi.» Dalle abitazioni ai piani più
alti, come quella di Concetto Marchesi, «la vista arrivava sino
alla tomba di Cecilia Merella».
Autoblu? Rarissime. Per anni. Nonostante tra gli inquilini
ci fossero appunto Pietro Nenni e Giovanni Leone, Ugo La
Malfa e Giorgio Amendola, Sandro Pertini e Ferruccio Parri.
Finché «Leone fu nominato presidente del Consiglio, nel primo
"governo balneare" della sto ria della Repubblica». Era il
1963: «Non era ancora stata votata la fiducia, che nella guardiola
di Arnaldo apparvero dei tecnici che installarono rapidamente
una linea telefonica speciale per un poliziotto messo di
guardia ventiquattr'ore su ventiquattro». Uno solo, però. «E in
borghese.»
Quanto «pesassero» gli stipendi deì parlamentari, nel secondo
dopoguerra, non è facile da ricostruire. Francesco Cossiga,
eletto la prima volta deputato nel 1958, giura che poteva
permettersi «di mangiare ogni giorno nei migliori ristoranti». Il
comunista Ado Guido Di Mauro al contrario (ma forse era gravoso
il versamento mensile obbligatorio al Pci) spiega a Guido Quaranta
di aver deciso nel 1972 di tornare a fare il medico dopo
due legislature per motivi economici: «L'indennità parlamentare
non mi consentiva di mantenere i miei due figli all'università
». Fatto sta che per risparmiare i soldi dell'albergo, racconta
Filippo Ceccarelli, il comunista Renato Degli Esposti,
che di professione era ferroviere, andava su e giù ancora negli
anni Sessanta facendo «in modo di passare la notte in treno.
Per le stesse ragioni parecchi dici dormivano nei conventi, negli
ostelli del pellegrino, dalle suore. I deputati laici no, ma
quando nei primi anni Ottanta furono inaugurati gli uffici di
vicolo Valdina, alcuni di loro si ritrovavano la mattina presto
davanti all'unico bagno del piano, belli stropicciati, asciugamano
e spazzolino da denti, dopo una notte sul divano accanto alla
scrivania». Certo alla fine degli anni Cinquanta le cose vanno già meglio
se, scrive scandalizzato Luciano Cirri in Stupidario parlamentare
edito dal Borghese, la busta paga di un deputato arriva
al lordo, tra una cosa e l'altra, a «350.000 lire mensili, con il diritto
alla pensione e i periodici "anticipi" graziosamente concessi
dall'amministrazione delle due Camere». C'è da fidarsi
della testimonianza? Sì e no, in anni in cui la polemica sui «forchettoni
» aveva portato nel 1953 alla nascita perfino del partito
della bistecca, fondato da Corrado Tedeschi (per essere veramente
tale la bistecca deve pesare almeno 450 grammi. Se pesa
un chilo, tanto meglio. Ma non meno di 450 grammi, perché altrimenti
diventa cotoletta») al grido di «La vita è una vitella!».
Comunque, un direttore generale ministeriale guadagna allora
320.000 lire al mese, un commesso della pubblica amministrazione
68.000, un tranviere romano 75.000. Un biglietto aereo
Milano-Roma costa 16.500 lire , uno per New York 172.200,
una notte in un albergo a 3 stelle 1600, una «telefonata minima» intercontinentale da almeno 8500 lire in su. Insomma, uno stipendio coi fiocchi, rispetto agli altri. Meno rispetto al costo
della vita, se è vero che servono tre mesi di stipendio netto per
comprare (625.000 lire) una Fiat 600 berlina.
Due decenni scarsi più tardi, nel 1977 , nel libro Tutti gli
uomini del Parlamento, Guido Quaranta dà i nuovi numeri
nei dettagli: ogni parlamentare, tra indennità (1.l14.686 lire) e diaria
(270.000) prende 1.384.686 lire, per 12 mensilità. Per capirci:
un commesso di un negozio romano guadagna in media (dati
Istat) 365.509 lire lorde, un tranviere 558.059, un usciere statale
279.000. Eppure, spiega al grande cronista Michele Zolla un deputato
dici di Novara che diventerà il fedelissimo di Scalfaro sul
Colle, non bastano, non bastano, non bastano. Perché lui deve
«spendere 180.000 lire per 12 giorni al mese trascorsi a Roma,
mangiando al self-service di Montecitorio e pernottando in un
albergo di seconda categoria; 150.000 di spese postali, telegrafiche
e telefoniche; 180.000 per girare il collegio, con una media
di 1500 chilometri, su un a Fiat 124; 50.000 per acquistare
lib ri, riviste e quotidiani; 30.000 di cancelleria; 50.000 di rappresentanza,
fra cui sottoscrizioni varie delle Pro-loco; 150.000
per una dattilografa (5 giorni alla settimana per quattro ore
giornaliere); 50.000 per contributi al comitato provinciale della
Dc. Totale, 840.000 lire».
«Se non avessi il gusto della politica» rincara il repubblicano
Oscar Mammì «ritornerei al Banco di Napoli e, con la qualifica
di funzionario direttivo, guadagnerei 800.000 lire nette e
avrei 16 mensilità. L'indennità dei deputati , spiega Quaranta che pure non è
mai stato tenero con gli uomini di potere, «non è solo sensibilmente
inferiore alle entrate di un qualsiasi professionista affermato
ma è addirittura sp roporzionata rispetto ai minimi degli
stipendi dei dipendenti della Camera: un funzionario direttivo
guadagna 766.000 lire al mese, un impiegato di concetto 602,
un impiegato esecutivo 485, una stenodattilografa 443, un dattilografo
422, un commesso 414» . Per capirci: la paga di un
parlamentare sta tra il doppio e il triplo di un lavoratore medio.
Fate voi il parallelo con oggi. Certo è che alcuni parlamentari, ancora negli anni Settanta,
riducono «la permanenza a Roma unicamente al giovedì (il
solo giorno in cui in aula o nelle commissioni sono previste votazioni)
partendo la sera del mercoledì dal loro collegio e rientrandovi
la mattina del venerdì, dopo aver trascorso in treno un'altra notte:
"Una corvè. Ma è l'unico modo per limitare le
spese del soggiorno nella capitale a due pasti e a qualche corsa
in taxi ". Altri hanno rinunciato alla stanza con bagno e, per fare
la doccia, ricorrono a quelle della Camera (orario 8-13 e 1619,
sabato chiuso)». Già allora, però, verso la fine degli anni Settanta, si notano
le prime avvisaglie di quell'andazzo che si affermerà trionfante
a partire dagli anni Ottanta. Quelli passati nell'immaginario
collettivo come gli anni «ramazzottimisti» della «Milano da bere». Quelli in cui una classe politica grintosissima, spregiudicata e nuovissima, assai diversa (non in meglio) da quella dei padri costituenti, comincia a sentirsi in diritto di prendersi lussi
un tempo impensabili. Ed ecco i! matrimonio napo-hollywoodiano di Angelo Gava,
figlio di «don Antonio Fetenzìa» (copyright di Giorgio Bocca),
che raduna a Ischia, sotto gli occhi ironici di Laura Laurenzi
della «Repubblica», 800 invitati che sciamano vocianti intorno alla piscina dell'albergo nella quale galleggia una maestosa composizione floreale, coi muretti a secco che traboccano di
rame cariche di limoni e aranci appesi col fi! di ferro e una to rta
larga come un letto matrimoniale con due grandi cuori rossi
nella panna. Ecco le mega-feste nelle acque della Costa Smeralda con
venti barche intorno allo yacht Zeus dell'onorevole dicì Pino
Leccisi dove, come scriverà Denise Pardo ripresa ne Lo stomaco
della Repubblica da Ceccarelli, «si andavano friggendo chili
di pesciolini, olive, patate, zucchine e melanzane. A bordo, in coperta, salivano i politici respirando salsedine, ma anche un fumo da friggitoria cinese» e dopo un po' di tempo «sull'imbarcazione del festeggiato non ci si riusciva più a muovere, tanti
erano gli ospiti, molti dei quali era previsto che tornassero sui
loro yacht per mangiare. A questo punto, come in una sequenza
cinematografica, scattava un passavivande generale. Di mano
in mano, di barca in barca, scorrevano enormi zuppiere di
pasta e fagioli, orecchiette pugliesi, melanzane alla parmigiana,
insalate di riso, insalate di pasta , cannolicchi alla checca, purè
di favetta, sartù di vongole e di cozze, lasagne fatte in casa».
Ecco il «finanziere» Giuseppe Ciarrapico inventare su suggerimento
di Giulio Andreotti il Premio Fiuggi che coi suoi 500 milioni (commento degli amici ciociari: «me cojoni!») si propone di stracciare il Nobel coi suoi miserabili 230.000 dollari.
E le cene faraoniche date a Capri da Francesco De Lorenzo con
400 invitati. E le vacanze ad Hammamet di tutta la corte di Bettino
Craxi che, nelle memorie di Marina Ripa di Meana, «a ogni
negozietto di cianfrusaglie si fermava. Entrava, afferrava con le
mani braccialetti d'ottone orribili, statuine di peltro, ninnoli di
legno e ne faceva omaggio alle signore. Pagava tirando fuori rotoli
di banconote» . E l 'appartamento di 303 metri quadrari a
pochi passi da Castel Sant'Angelo dato in affitto per la miseria
di 259.000 lire al mese a Luca Danese, nipote giovane ma scafato
di Giulio Andreotti. E il conto di 490 milioni presentato a
Gianni De Michelis per gli ultimi 29 mesi di soggiorno al Plaza,
dove il ministro regalava a Natale e a Ferragosto al portiere
Luigino Esposito un paio di mance «da un milione».
Per non dire delle ostentazioni di un'improvvisa ricchezza
di personaggi anche di secondo piano quali il democristiano
poi forzista Angelo Sanza, che vive in uno stupendo casale ristrutturato
a cinque minuri a piedi da piazza del Popolo. Una
villa dotata, oltre che di un ascensore interno, di una sala fit ness,
un campo da tennis, una vasca in mosaico tardo pompeiano
a forma di mezzaluna turca proprio accanto alletto, di uno
sfizio hollywoodiano. Dal tunnel che porta al garage il nostro
arriva sotto la piscina, guarda in alto e, scrive Denise Pardo,
«s'illumina vedendo nuotare nell'oblò, come una sirena, la sua
Aurora». Il tutto di proprietà del demanio. E avuto in «comodato
d'uso» per 19 anni. Chissà cosa avrebbe detto, il vecchio Alcide De Gasperi...
2
Un palazzo di quarantasei palazzi
Spese impazzite nell'infinita moltiplicazione delle sedi
Che i parlamentari siano generosi solo con se stessi è falso: sanno
esserlo anche con gli altri. A volte. Al costruttore romano
Sergio Scarpellini, che ricambia con affettuosi finanziamenti ai
partiti senza fare lo schizzinoso sul loro colore, hanno fatto fare
ad esempio un affare fantastico. Scelti quattro palazzi nel cuore
della capitale, il cosiddetto «complesso Marini», invece che
comprarli direttamente hanno deciso di entrarci come inquilini.
Garantendo un affitto così alto, per 9 anni più altri 9, da
permettere al nostro di pagare comodamente, senza affanni, le
rate dei mutui accesi per acquistare gli edifici in questione. Uno
sposalizio alla fme del quale la Camera si rit roverà ad aver pagato
complessivamente in 18 anni, al valore della moneta attuale,
per la sola locazione, la bellezza di 444 milioni e mezzo di
euro senza esser diventata proprietaria di un solo mattone. E il
fo rtunato locatore, estinto il mutuo, si ritroverà padrone dell'intero
complesso. Un capolavoro finanziario. Perfezionato da un dettaglio. I
lavori di ristrutturazione di due dei quattro palazzi, che hanno
l'ingresso principale in piazza San Silvestro e ospitano gli uffici
di gran parte dei deputati, sono stati finan ziati nel 1999 con un
sostanzioso contributo (1.913.970 euro) del Comune di Roma.
Benevolenza non ricambiata: la società scarpelliniana «Milano
90», intestataria dei contratti per il complesso Marini, aveva infatti
alla fine del 2005 niente meno che 1.708.389 euro di debiti
col municipio capitolino (quasi quanti quelli avuti per fare i
lavori) per non aver pagato l'Ici. L'amministrazione di Walter
Veltroni, però, non se l'è presa troppo per la mancata riconoscenza.
E ha permesso al nostro, sia pure con un sovraccarico complessivo
di 328.803 euro, di diluire il pagamento degli arretrati
entro il settembre del 2009. Ma questa è solo una parte della storia. Oltre all'ospitalità
nei palazzi di San Silvestro, per i quali accese mutui con Capitalia
e altre due banche per una tale montagna di denaro che alla
fine del 2005 doveva ancora rendere 352 milioni di euro (sei
volte il fatturato), Sergio Scarpellini concordò infatti nel 1997
la fornitura d'un pacchetto «tutto compreso». Avrebbe messo a
disposizione dei deputati, con personale proprio, una serie di
servizi accessori: sorveglianza, informazioni al pubblico, distribuzione
della posta interna ed esterna (portano a Montecitorio
le lettere che arrivano lì), pulizia, caffetteria e servizio ai piani.
Il tutto , affitti e servizi, per un totale generale, nel 2006, di
36.261.3 18,24 euro. Il che, per una società con 57 milioni di
fatturato annuo, rappresenta gran parte della polpa.
Appassionati di ippica, «sor Sergio» e il figlio Andrea sono
padroni di una delle maggiori scuderie italiane, la Nuova Sbarra.
«Hanno i cavalli nella pelle!» ha scritto di loro un cronista
innamorato. Ne avevano, alla fine del 2005, ben 288, per un valore
totale messo a bilancio di 8 milioni di euro. Quelli da allevamento
erano 135, quelli da corsa 153. Soddisfazioni sì, ne
danno: in un solo anno hanno vinto qualcosa come 2.300.000
euro di premi, soprattutto per merito del fenomeno di casa, che
si chiama Giovane Imperatore. Peccato che i bilanci siano inesorabilmente
in rosso. Ma così è il mondo degli ippodromi: non
si sa mai come va a finire. Basti ricordare il caso di Cigar, che in
pista era stato il miglior cavallo da corsa americano ma quando
fu messo a fare il produttore di puledri, fallì la monta con trentuno
femmine diverse. Padre e fìglio, però, non se ne sono fatti un cruccio. E hanno
fuso l'una nell'altra la scuderia e l'immobiliare. Risultato:
ora i purosangue perdenti sono mantenuti dai deputati e i deputati
sono inquilini della scuderia. A un canone diverso, s'intende,
da quello d'una stalla: 547 euro al metro quadrato l'anno.
Come se un appartamento di 100 metri fosse affittato a 55.000 euro. Averne, di inquilini così! Va da sé che i fortunati immobiliaristi, che sui cavalli politici non fanno mai cilecca, hanno messo a punto un contratto simile con Palazzo Madama, affittandogli a 3 milioni l'anno (per ospitare un po' di uffici di senatori) l'ex Hotel Bologna. In più, gestiscono il ristorante e due bar nel complesso Marini, la buvette del Quirinale, la buvette e il ristorante sulla terrazza di palazzo San Macuto, di proprietà della Camera. Ricavando annualmente da questi punti di ristoro quasi 2 milioni e mezzo di euro. Fatto sta che a un certo punto, nel settembre del 2006, lo stesso questore forzista della Camera, Francesco Colucci, metteva a verbale che la questione dei contratti del «complesso immobiliare che si affaccia su piazza San Silvestro» era stata «oggetto di un approfondito esame da parte dell'Ufficio di Presidenza», che aveva concluso sulla «opportunità di privilegiare l'acquisizione degli immobili piuttosto che la locazione». «Era ora!» esclamò illeghista Giacomo Stucchi. Le perplessità su «chi» guadagnava nell' affare, però, erano già state avanzate all'epoca del lussuoso contratto, alla fine degli anni Novanta, sotto la presidenza di Luciano Violante. L'allora segretario generale di Montecitorio, Mauro Zampini, proprio non riusciva a capire: «Che senso ha?». E molte perplessità sollevò anche, a nome della Lega, Mimmo Pagliarini. Sergio Scarpellini, britannicamente, non se la prese. Al punto che anni dopo avrebbe versato alla Lega 75.000 euro di contributi contro i 68.000 regalati ai diessini. Generosità apprezzata? Chissà. Certo è che nel maggio del 2005, quando si trattò di decidere se disdire o meno il contratto per il complesso Marini, anche la Lega superò le ostilità iniziali. Adagiandosi finalmente
nel solco tracciato anni prima da Angelo Muzio, il questore anziano
della Camera (già Pci, poi rifondarolo e infine dilibertiano...)
che davanti a chi storceva il naso disse: «Non sono molti i
proprietari di immobili nei dintorni della Camera. Che dovevamo
fare? Una gara europea per affittare qualche immobile?».
Ma si figuri, caro onorevole! E così fu tutto deciso a trattativa
privata . A un canone complessivo annuo che nel 2006 è salito,
come dicevamo, a olt re 36 milioni. Risultato: la scelta di
«affittare qualche immobile» (i «Marini» hanno 45.074 metri
quadrati) per meno di un ventennio, al canone attuale, ci costerà
alla fine un totale di 652.703.728,32 euro. Di cui, appunto,
444 milioni e rotti di sola locazione. Una cifra che, dice il
Borsino Immobiliare Confedilizia, avrebbe consentito nel 2006
di comprare nel pieno centro di Roma edifici per oltre 63.000
metri quadrati ristrutturati. O, per fare un paragone, una volta
e mezzo ciò che lo Stato italiano e la Ue hanno investito per la
più costosa operazione di recupero degli ultimi decenni in Europa,
la ristrutturazione (dalle scuderie ai dipinti) della reggia
di Venaria Reale, che era ridotta a un rudere ed è più grande di
Versailles. Scriveva nel libro Tutti gli uomini del Parlamento Guido
Quaranta: «Parecchi senatori rilevano che Fanfani, quando fu
per la prima volta presidente dell'assemblea, dal1965 al 1973,
fece mettere una statua di Emilio Greco nel cortile d 'onore e
un arazzo di Corrado Cagli nel suo studio, ma non trovò indecoroso
che molti tavoli per scrivere fossero, addirittura, sparpagliati
nei corridoi. Tutti protestano di non avere dattilografe a cui dettare il testo dei loro discorsi (alla Camera sono 5 in tutto quelle a disposizione e possono battere solo le comunicazioni
ufficiali) e di non avere nessuno che li aiuti nelle ricerche in biblioteca. "Possiamo contare soltanto sulla buvette e sul ristorante. Il nostro provveditorato ci assegna ogni mese 500 fogli e 500 b uste, senza penne e matite", commentano alcuni deputati, amareggiati dal confronto con i 179 colleghi danesi che dispongono di 150 uffici, con quelli belgi, 212, a cui è assicurato un servizio di segreteria per ciascuno, e con i 496 parlamentari
della Germania Federale che hanno anche un "assistente", a
carico del Bundestag». Era il 1975. E quei deputati non avevano torto: era difficile
far bene il proprio lavoro dovendo cercare un po' di spazio tra
i gomiti degli altri intorno a qualche tavolo dove posare il faldone
di carte da studiare. Il confronto segnato dall'invidia coi
colleghi stranieri, però, oggi fa sorridere. Calcolando soltanto il
complesso Marini, che secondo il bilancio della Camera ospita
551 uffici personali, i parlamentari hanno oggi a disposizione
oltre 50 metri quadrati pro capite. Quanto all'assistente, abbiamo già visto qual è l'andazzo.
I bilanci dei palazzi del Palazzo, ecco il punto, sono la prova
di come la politica, sia coi governi di destra sia con quelli di
sinistra, abbia continuato negli anni a divorare soldi alla faccia
delle quotidiane denunce di conti in rosso e dei quotidiani appelli
ai cittadini perché tirino la cinghia. Per cominciare, questi
palazzi del Palazzo, come fossero sta ti costruiti con mattoni
transgenici, continuano a crescere e si moltiplicano e si sdoppiano
e dilagano nel centro di Roma. La mappa aggiorn ata con
nuove bandierine sugli edifici via via «conquistati» dice tutto:
Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne
hanno una trentina. Vorremmo essere più precisi ma è impossibile:
spesso un palazzo, l'abbiamo visto col complesso Marini
ma vale anche per quelli di vicolo Valdina, ne ha inglobato un
altro e un altro ancora. E il totale ormai, con ogni probabilità,
non lo conosce più neanche il Catasto.
Sono talmente tanti che i soli traslochi dall'uno all'altro
(ogni volta che un gruppo parlamentare, una commissione o
un singolo senatore cambia stanza) sono costa ti per «facchinaggio
» 1.275.000 euro nel 2006, con un «ritocco» di 45.000
euro rispetto al 2005. Come mai l'aumento? Risposta: «Si è
dovuta tenere in giusta considerazione la spesa aggiuntiva»
dovuta alle «esigenze inevitabili nel corso del cambio di una
legislatura». Ovvio. Ma allora perché la Camera, che ha il doppio
dei parlamentari, spende per facchinaggio e traslochi meno
del Senato (1.255 .000 euro) e soprattutto ha fatto segnare
un aumento (+20.000 euro) dimezzato? Non hanno cambiato,
lì, legislatura? Misteri. Sui quali non può mettere il naso nessuno. Neppure
la Corte dei Conti. Il Parlamento, sensato o spendaccione,
è sovrano. Al punto che ogni anno comunica al Tesoro
quanto vuole e il Tesoro, anche se la cifra è sproposita ta, non
può che chiedere amichevolmente un po' di sobrietà. Fine. Né
può metter becco sui bilanci la dirigenza amministrativa dei
due Palazzi. A decidere sono, di fatto, solo deputati e senatori
nominati dai partiti (con scelte molto oculate), questori di Camera
e Senato. Questori cui è riservato non solo un appartamento
ciascuno (non un ufficio: un appartamento) per vivere più agiatamente
la loro missione, ma anche l'ultima e insindacabile
parola su tutto. Al punto che Mauro Zampini, il segretario
generale di Montecitorio, cont rario, come dicevamo, alla
scelta fatta sul complesso Marini, si rifiutò per anni di partecipare
alle riunioni dove avrebbe fatto la parte del d ue di coppe
con briscola a spade. Eppure, le cose sulle quali la pubblica opinione avrebbe
diritto di conoscere i dettagli, sono tante. A partire proprio dagli
appartamenti privati dati in dotazione, che per consuetudine
spettano non solo ai 2 presidenti (anche se, per esempio,
Franco Marini nel suo al Senato non ha dormito mai), ma anche
agli 8 vicepresidenti delle due aule parlamentari. Va da sé
che uno, alla lunga, ci si adagia. Al punto di predisporre finché
è in carica, come Carlo V predispose nei dettagli i propri fun erali,
anche la futura sistemazione da ex, come ha fatto Pier Ferdinando
Casini, che dopo aver lasciato lo scranno più alto di
Montecitorio si è sistemato nel punto più panoramico del palazzo,
una specie di superattico extralusso. Dài e dài, però, gli spazi non bastano mai. E così, per uscire dalle ristrettezze dei pochi ettari pro capite, la Camera ha
continuato a espandersi e ha speso nel 2006 (oltre ai denari per
il complesso Marini) altri 8 milioni in affitti vari. Destinati a salire
nel 2007 almeno di 1.300.000 euro. Una somma enorme,
alla quale vanno sommati i soldi spesi per le manutenzioni ordinarie:
13 milioni e mezzo. Quanto al Senato, che riesce a
spendere in canoni 5.750.000 euro nonostante occupi un sacco
di palazzi (dal «Madama» al «Carpegna», dal «Giustiniani» al
«Cenci») avuti in uso gratuito dal demanio, era così affamato di
metri quadrati che pochi anni fa ha comprato un paio di proprietà,
in largo Toniolo e in via dei Chiavari, per 21.692.000 euro.
Un affarone, dicono. Fatto sta che Prodi, appena arrivato a
Palazzo Chigi, si è ritrovato un conto in più da pagare: una delibera
del Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione
economica) del 29 marzo (dieci giorni prima del voto
che avrebbe sfrattato Silvio Berlusconi) stanziava 69.668.000
euro per i restauri di alcuni palazzi. Carucci? Ma no, ma no... E poi, se servono davvero, i
parlamentari i soldi riescono sempre a trovarli. Al punto che, dopo
che la destra aveva rosicchiato un mucchio di euro perfino
dall'8 per mille destinato ai poveri del mondo per tappare tra
l'altro un buco del «fondo volo» dei piloti Alitalia (!), la maggioranza
di sinistra ha fatto un piano triennale per la Camera che prevedeva di spendere 2.520.000 euro per «rinnovamento ascensori», 6 milioni per «rifacimento impianti di condizionamento», 870.000 euro per «smaltimento dei rifiuti speciali» (ulteriore
conferma che a Montecitorio c'è talora qualcosa di tossico),
180.000 euro per «dispositivi di protezione individuale»
(cioè? Boh...), 3 milioni e passa per la «riqualificazione degli
ambienti delle commissioni parlamentari e del palazzo dei
Gruppi». Dulcis in fundo: 750.000 euro per la «sostituzione di
arredi non ergonomici». Una spesa che in questi tempi di magra,
converrete, era assolutamente in-dis-pen-sa-bi-le.
Rossori di imbarazzo? Mai. Quanto alle retromarce, sono
rarissime. E solo nei casi in cui, scusate il bisticcio, il troppo è
troppo troppo. Come nel caso del tunnel che avrebbe dovuto
unire Montecitorio a una delle sue numerose dépendance, il
Palazzo Theodoli-Bianchelli su via del Corso. Progetto abolito
, non senza sbuffi di esasperazione verso i giornalisti impiccioni
, soltanto dopo che era stato svergognato sul «Corriere» .
Da un palazzo all'altro saranno, a esagerare, cinque passi. Lo
stanziamento previsto era di 5.220.000 euro. Un milione di
euro a passo. Quasi il triplo di quanto costò a metro l'Eurotunnel
sotto la Manica. Che prezzi fanno oggi i muratori, signora mia...
Per non di re degli arredatori. Come quello di fiducia di
Berlusconi, Giorgio Pes lo adora, il Cavaliere, quel suo devoto
servitor d'arredi. Al punto da omaggiarlo nella prefazione
del libro Atmosfere e arredamenti, con parole che vanno oltre la
stima: «Desidero presentarvi l'amico Giorgio Pes che oltre a
essere un valentissimo architetto è anche una persona leale, sincera
e un gran lavoratore, meticoloso e colto». Lo incrociò la
prima volta nei dintorni di Bettino Craxi, ad Hammamet, dove
Pes aveva una villa nella Medina affacciata sul mare: «Tra le
idee architettoniche, i raffinati oggetti orientali e i reperti romani
mi resi subito conto del suo talento e del suo gusto». Ne
ritrovò le tracce, racconta, in una villa sul lago di Como, di
Marcello Dell'Utri: «Ne rimasi colpito. Erano gli anni Ottanta.
Da allora il mio dialogo con lui non si è mai interrotto in un
susseguirsi di scambi amicali e culturali». Va da sé che quando
diventò presidente del Consiglio nel '94, decise di affidare il restauro
di Palazzo Chigi a lui. Alla vista delle condizioni della sede del governo, infatti,
avrebbe raccontato proprio a «Sette» il nostro «interior decorator », il Cavaliere era rimasto inorridito. «Là dentro c'era il peggio del peggio.» Mobili «di cattiva qualità, ottoni da fiera
paesana, stupendi affreschi abbinati con parquet a spina di pesce,
lampade di plexiglas.. . E poi lo sporco, il sudiciume, la moquete
color topo...», Insomma, pareva che per anni nessuno, a parte Maria Pia Fanfani, si fosse occupato di quel meraviglioso palazzo: «Tenevano ai giochi di potere più che alla cultura.
Hanno umiliato i capolavori con l'abbandono, riducendoli come le strade del paese: da vergognarsi. Anche questo è vandalismo» . Maria Pia! Maria Pia! Incaricato di riportare il palazzo agli antichi splendori e di recuperare in giro per il mondo i quadri e i pezzi di antiquariato e gli arazzi che costituivano l'arredamento originale, Pes non trascurò però il premuroso committente. Stando alle interviste dell'epoca, doveva aver letto quanto Sua Emittenza ami specchiarsi «Faccio come zia Marina che ha 80 anni e siccome nessuno
le dice che è bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si di ceva: Marina, cume te se bela! » e riempì la dimora di specchiere, specchiere, specchiere:
«Sempre alla ricerca di luce!». Un po' la stessa cosa che gli raccomandava
Luchino Visconti che dopo averlo prova to in Boccaccio
70 lo volle per il Gattopardo, incaricandolo di ricostruire
nei dettagli (perfino la scelta del profumo dei fiori, cinematograficamente
non indispensabile) le antiche dimore sicule grondanti
di ori e stucchi e stoffe damascate e, in particolare, il celeberrimo
salone del ballo. Alle prese con la sede del governo, scrive dunque il Cavaliere,
«Giorgio consultò i testi sulle origini del palazzo e sulle sue
successive trasformazioni, approfondi le conoscenze con il
principe Mario Chigi e infine si mise all'opera sottoponendomi
il suo progetto: far "piazza pulita" di tutte le superfetazioni e di
quello che c'era di sbagliato, per dar spazio ai grandi laboratori
di restauro di Roma, alle antiche fabbri che di tessuti di San
Leucio di Caserta, a patine della tradizione alle pareti, a grandi
damaschi, ai colori luminosi di Roma. Ed egli sempre sul posto
a controllare la qualità delle esecuzioni in tutti i particolari».
Entusiasmo ricambiato : «II presidente è un leader appassionato
e molto innamorato dell'arte». Soddisfatto, il Cavaliere gli chiese quindi di trovargli una
nuova residenza privata romana. Lui gli propose Palazzo Grazioli,
che Berlusconi «trovò bello ma triste» venendo però rassicurato:
«Sarebbe diventato luminoso e piacevole, pur rispettandone
lo stile» . Così, dopo avergli chiesto di progettare pure un
parlamentino privato, il Sommo Azzurro decise di affidare al
suo servito r d'arredi anche parte del patrimonio pubblico, dal
Palazzo del Viminale alla Palazzina dell'Algardi da Villa Doria
Pamphili a Villa Madama. Fino a commissionargli la messa a
punto scenografica (si sa quanto ci tiene: prima del G8 di Genova
arrivò a far appendere dei limoni agli alberi che gli sembravano
non abbastanza carichi) di alcuni avvenimenti speciali.
Parole dell'Augusto ex premier: A Pratica di Mare, dove
si tenne il vertice Nato-Russia, Giorgio Pes fece venire dai musei
di Napoli antiche statue romane, a testimonianza dell'italianità
dell'evento. A Bruxelles, per il semestre europeo di presidenza
italiana, c'era da confrontarsi con l'architettura moderna
del Palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio europeo, i cui in terni,
tra decori, spot a cilindro e colori forti e dissonanti, ci
ponevano dinnanzi a una sfida non certo facile. Pes ricorse all'o
riginale invenzione di apporre delle tele grezze lungo i percorsi
di rappresentanza e all'interno delle sale principali al fine
di consentire la collocazione di statue dell'antica Roma. Infine
a Roma, al Campidoglio per la firma della Costituzione europea,
nelle sale di Michelangelo ci confrontammo ancora una
volta con la storia dell'arte». Lì, grazie a Dio, le statue romane
c’erano gia’. Quanto siano costati questi restyling, nella prima e nella
seconda delle «ere berlusconiane», non è chiaro. Ma alla nuova
«padrona di casa», Flavia Prodi, l'appartamento a Palazzo Chio
gi non piacque per niente: «E un posto che toglie il fiato» disse.
Spiegando che tra marmi, arazzi e stucchi «sembra una prefettura ». Al punto che lei, donna pratica, preferiva quello di Bruxelles «arredato con mobili Ikea». Amen: il fatto è fatto. In
ogni caso, se anche avesse voluto dare una sistematina, non c'era
più un centesimo: le gestioni dei cinque anni del Cavaliere,
dal 2001 al 2005, dai fiori al catering, dalla tappezzeria alle tende,
erano costate infatti ai cittadini it aliani una tombola:
1.143.877 euro. Risult ato: nel bilancio 2006, al capitolo 185
(Spese di varia natura relative alla conduzione degli alloggi e
alle esigenze istituzionali del presidente del Consiglio dei ministri
e delle autorità politiche aventi sede a Palazzo Chigi) c'era
scritto: 0,0. Detta alla romana: zero carbonella. Problemi ai battiscopa?
Prego pazientare. Ma è meglio allargare la prospettiva: Palazzo Chigi, cornice
di tutti i ministeri senza portafoglio, dalla Funzione pubblica
ai Rapporti col Parlamento, è in realtà un arcipelago di palazzi.
Ce ne sono 15 nel centro di Roma più un deposito a
Ciampino più l'autoparco al quartiere Portuense dove stanno
le 115 autoblu di cui diremo. Cetto, dall' alto dei suoi sette governi
Giulio Andreotti ha buoni motivi per abbozzare una risatina.
Quando cominciò a bazzicare la presidenza del Consiglio
come sottosegretario, nel 1947, il governo non aveva neppure
una casa tutta sua: «A Palazzo Chigi stavano gli Esteri e noi dividevamo
il Viminale con gli Interni. Quali edifici avevamo?
Fatemi pensare... Forse non ne avevamo manco uno».
Per carità, era un'altra Italia. Ma è mai possibile che la popolazione
da allora sia aumentata di circa il 20% e il cuore operativo
dello Stato si sia dilatato così smisuratamente? È normale
che le due Camere più la presidenza del Consiglio occupino
insieme almeno 46 edifici? E meno male che il «complesso Palazzo
Chigi», per numero di immobili se non di metri quadrati,
si è ridotto: nel 2001 erano 24. Dei quali 17 in affitto. Spesso a
cifre da capogiro. Come Palazzo Sciarra, che apparteneva alla
Banca di Roma ed era un tale affare per l'istituto che quando la
presidenza decise di dare la disdetta finì quasi in un contenzioso.
Totale delle spese di affitto: 27.343.564 euro. Oltre 50 miliardi
di lire. Uno spreco tale da obbligare a una scelta: ridurre gli uffici o comprare nuovi palazzi. Si scelse, ovvio, di comprarne di nuovi. A partire da un pezzo della Galleria Colonna, a pochi
passi da Palazzo Chigi. Un investimento massiccio: 4500
euro al metro quadrato. Ma fortunato, dicono: oggi vale il doppio.
Fatto sta che la presidenza spese quasi 34 milioni di euro.
Ai quali, stando ai bilanci che però non sono chiarissimi, fu necessario
aggiungerne altri 7 e mezzo per opere di ristrutturazione
e manutenzione straordinaria. Era solo l'inizio. L'anno dopo, Palazzo Chigi si alla rgava
ancora comprando (25,3 milioni di euro) un altro immobile in
via della Mercede. Dove avrebbe speso, per risanarlo, sistemarlo
e adattarlo alle nuove esigenze, altri 16 milioni. Con grandi
brindisi, c'è da supporre, di imprese edili, falegnami, elettricisti,
idraulici. Impegnati anche l'anno successivo, un po' qua e
un po' là, in lavori di ristrutturazione e manutenzione straordinaria
per altri 26,5 milioni di euro, saliti nel 2004 a 30 milioni
con una coda nel 2005 di ulteriori 16,1 milioni. Facciamo le
somme? Il salasso degli affitti si è drasticamente ridotto da 27 e
passa milioni a poco più di 10. Il conto finale , però, è salato :
dal 2001 al 2005 la presidenza del Consiglio ha speso 60 milioni
di euro per acquistare immobili e 96 per restauri, aggiustamenti
e manutenzioni varie. Totale: 156 milioni di euro .
Ai quali vanno aggiunti i costi per la manutenzione ordinaria
e la cura dei giardini, che negli stessi anni sono raddoppiati
schizzando a 11.750.600 euro. Un'enormità. Più le altre «spese
di casa»: 5 milioni e mezzo (quasi uno in più rispetto al primo
anno della legislatura «azzurra») per l'acqua, la luce, il gas, il
telefono e la spazzatura. Quasi 4 per le pulizie e lo «smaltimento
dei rifiuti speciali» . Addirittura 1.663.000 euro (con un rincaro
del 35% su! 2001) per «facchinaggio e trasporto beni mobili» . Fatevi due conti: se il trasloco di un bell'appartamento costa sui 2000 euro è come se a Palazzo Chigi facessero due traslochi
al giorno. Quanto allo staff, ricordate cosa sc risse dell'attivismo del
Cavaliere un estasiato cronista del «Giornale» di famiglia?
«Beriusconi tiene ritmi insostenibili: nell'arco di poche ore studia
leggi e bilanci dello Stato, scrive articoli e discorsi, confronta
modelli econometrici di stampo opposto fra loro per verificare
l'impatto delle sue idee nella legislazione italiana, lavora ai
programmi e alla sua squadra di governo...» . Di più: «Segreterie
e collaboratori si alternano, con diversi turni, mentre il Cavaliere
sembra l'omino delle pile Duracell. Chi scrive riesce a
stento a girare lo zucchero nella tazzin a del caffè, nello stesso
tempo in cui il presidente fa almeno tre cose».
Pareva una lisciatina, invece era un programma. Lo dicono
i bilanci: nel 2005 le spese per «gli addetti alle segreterie particolari
del presidente, del vicepresidente e dei sottosegretari di
Stato estranei alla pubblica amministrazione» (insomma, le persone
di fiducia portate da fuori) più quelle per il «trattamento
economico accessorio per gli ad detti agli uffici di diretta collaborazione
del presidente, dei vicepresidenti e dei sottosegretari
», hanno sfondato gli 11 milioni di euro. Con un aumento reale
rispetto al primo anno «azzurro», del 186%. Per capirci: sul
bilancio del 2005 le buste paga dei collaboratori stretti della presidenza
hanno pesato quasi il doppio dello stanziamento attraverso
la Protezione Civile per lo Tsunami in Estremo Oriente.
Ed «Euroscena»? Come dimenticare la magica stagione
della società televisiva prediletta dal Cavaliere? Fondata venti
anni fa «su imprescindibili valori cristiani», come è scritto nel
sito, è arrivata a produrre un po' di tutto. Compreso il programma
forse più volgare mai visto , quel Distraetion dove spiccava
il gioco in cui t re concorrenti spiritati, inforcati occhiali
dalle lenti spessissime che facevano loro vedere tutto sfocato,
dovevano recuperare ciascuno la propria coccarda adesiva appiccicata
sul corpo di sventurati esibizionisti completamente nudi
che, pur di apparire in tivù, avevano accettato di togliersi
pancere, reggipetti e mutande e di lasciarsi palpeggiare sotto le
telecamere poppe e natiche, schiene e cosce. Roba che, a proposito
degli «imprescindibili valori cristiani», avrebbe lasciato papa
Ratzinger un po' perplesso. Bene: fino al Duemila «Euroscena» fatturava 2 milioni e
mezzo di euro. Un andazzo così così... Poi, proprio negli anni
di vacche magre, eccola salire su, su, su fino a 16 milioni e passa.
Wow! Merito del prodigioso amministratore unico Davide
Medici e cioè d'un ignoto ventiduenne? No, della Provvidenza,
spiegava in un'intervista il socio di maggioranza Luigi Sciò:
«Ho tanta fede nella Provvidenza», Che nel suo caso, dicono i
maligni, era bassotta, aveva i capelli trapiantati, la pelle liftata e
un sorriso panoramico: Silvio Berlusconi. Che per Sciò è «una
persona amica», uno «che ha dato moltissimo alla televisione»,
un «grandissimo imprenditore», un «uomo veramente straordinario
con una famiglia straordinaria». Una stima agiografica ma ricambiata. Convinto che «Euroscena » sia il top, l'allora premier le delegò infatti non solo la
confezione dei filmati propri (dal vertice di Pratica di Mare al
decennale di Forza Italia, poi smistati alla Rai con relative polemiche)
ma anche quelli del successore. Dopo una gara «informale» (motivi di segretezza: sic) fatta poco prima di sgomberare da Palazzo Chigi ma con un contratto che sarebbe scattato
il 19 maggio del 2006 e cioè sei settimane dopo le elezioni,
affidò alla società una serie di appalti a partire dal confezionamento
tivù dei grandi eventi per tre anni a venire. Cosa che al
nuovo governo non è piaciuta affatto. Tanto più che, appena insediato, Romano Prodi si è visto arrivare le fatture per tre avvenimenti «extra-canone» che avevano
magnificato il predecessore. 1) La cerimonia per l'anniversario del volontariato civile. 2) L'udienza agli atleti paraolimpici a Villa Madama. 3) La cena a Villa Miani con gli esponenti
del Partito popolare europeo venuti alla vigilia delle elezioni a spalleggiare il centrodestra.
«Perché dobbiamo pagare noi, coi soldi dei cittadini, uno spot promozionale privato e partitico?» si chiese il Professore. Tanto più che la fattura , per i tre servizi, era di 334.316 euro. Più di centomila a botta. Troppi, meglio cambiare. Macché: il contratto era blindato. E così a Palazzo Chigi qualcosa del Cavaliere è rimasto: i suoi cameraman preferiti.
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Quattro regine al prezzo d'un Napolitano
Costisegreti al Quirinale, on-line a Buckingham Palace
Giorgio Napolitano non ha mai messo i cappellini della regina
Elisabetta. Dio lo benedica. Non ha un marito gaffeur come il
principe Filippo che a una donna cieca col cane guida che vedeva
per lei disse: «Lo sa cara che ci sono cani che mangiano
per le anoressiche?». E Dio lo benedica. Preferisce i babà del
caffè Gambrinus alle cakes di patate, frutta secca e pancetta affumicata.
E Dio lo benedica. Sulla trasparenza, però, Dio salvi
la regina. La quale ha messo on-line tutti i suoi conti: tutti. Precisando
quanto spende per questo e quanto spende per quello
fin nei dettagli. Fino all'ultimo centesimo.
Da noi no: segreto. li bilancio del Quirinale è vietato ai cittadini.
Avevamo chiesto, seguendo l'iter che ci era stato suggerito,
poche, banali, innocenti informazioni. Chi ha diritto all'appartamento
di servizio? Quante sono le autoblu Quanto
costano i viaggi in Italia e le missioni all'estero? Come funziona
il trattamento pensionistico? Quali sono le spese per il mantenimento
del Palazzo? Cose così... Niente da fare. O meglio, alcuni dati generici il Colle li ha
dati. Per la prima volta, come se volesse farsi britannicamente
carico dei nomignoli di «Sir George» e di «Lord Carrington
che si trascina da una vita, il presidente ha deciso, nel gennaio
del 2007, di render note le «fondamentali scelte contenute nel
bilancio interno». Dando anche qualche dettaglio, come il numero
dei corazzieri, salito dai tradizionali 274 a 297. Evviva!
Ed evviva l'impegno, preso solennemente, di ridurre i costi della
macchina «al fine di cont ribuire ancor più incisivamente al
generale risanamento dei conti pubblici e di contenere la dinamica
della spesa». Di più: evviva perfino per il ritocco (un milione
di euro in meno) rispetto alle previsioni contenute nel bilancio
pluriennale 2006-2008. Un taglio simbolico ma vabbè,
chi si contenta gode. La fitta coltre di nebbia sui costi della presidenza, però, è
stata appena scalfita. Certo, «Sir George» ha annunciato la nascita
di due «apposite commissioni di studio» e rivendicato la
decisione di «autorizza re forme di pubblicità delle scelte fondamentali
contenute nel bilancio interno». Ma solo sulle voci
«compatibili con la riservatezza che caratterizza, in base alla
prassi costantemente seguita dal 1948 a oggi, una documentazione
contabile sottratta a controlli estern i, in forza dell'autonomia
organizzativa riconosciuta all'organo costituzionale della
presidenza della Repubblica dalla Costituzione e dalla legge
9 agosto 1948, n. 1077, istitutiva del segretariato generale, come
affermato dalla Corte costituzionale e dalla dottrina». Insomma:
chi si aspetta la trasparenza vera può aspettare. E per
un pezzo. Per carità, Napolitano non è il primo a far e questa scelta.
Anzi, ci tiene a dire che lui vorrebbe aprire di più ma sarebbe
indelicato verso i predecessori diffondere dati che per il 2006
lo riguardano solo in parte e che in passato erano stati blindati.
Sempre. Anche sotto la presidenza di un vecchio partigiano
estroso come Sandro Pertini, di una specie di bombarolo istituzionale
quale fu Francesco Cossiga, di un gentiluomo con la fissa
delle regole come Oscar Luigi Scalfaro o di un fedelissimo
servitore dello Stato quale Carlo Azeglio Ciampi. Sempre.
Questione di cultura. Secolare. Di là, in Inghilterra , re
Giorgio III decise che i proventi dei beni eredita ri della monarchia
venissero ceduti al Tesoro in cambio di un appannaggio
annuale detto della «Civil List» , addirittura nel 1760: t rent'anni
prima della Rivoluzione francese. Di qua il palazzo voluto
nel 1580 da papa Gregorio XIII (l'esaltatore dello spaventoso
Massacro del giorno di San Bartolomeo) è sempre stato abitato
da inquilini riottosi all'idea di rendere conto a qualcuno: prima
una trentina di papi, poi quattro re d'Italia, compreso l'ultimo,
Umberto di Savoia. Il quale dopo il referendum su monarchia e
repubblica, racconta Ceccarelli ne Lo stomaco della Repubblica,
abbandona l'ex reggia con le dispense così «desolatamente
vuote» che «per pagare i debiti occorre impegnare l'intero raccolto
di pinoli della tenuta di San Rossore». Prima di sbaraccare,
la corte savoiarda lascia «ai nuovi inquilini del Palazzo solo
un pacchetto: "È un'ottima miscela di caffè Moka-San Domingo,
che fu acquistato alla borsa nera esclusivamente per Sua
Maestà. Ecco, Vostra Eccellenza può consumarlo, se crede, alla
salute del sovrano"». Tempi duri. Ma quando già le dispense avevano ripreso a
riempirsi, restò a lungo l'idea che occorresse sobrietà. Un episodio
raccontato da Ennio Flaiano dice tutto. Al Quirinale c'era
Luigi Einaudi, che un giorno invitò a pranzo un gruppetto
di giornalisti e intellettuali, tra i quali appunto l'autore di Tempo
di uccidere. Alla frutta, «il maggiordomo recò un enorme
vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi i napoletani dipingevano
due secoli fa: c'era di tutto eccetto il melone spaccato.
E, tra quei frutti, delle pere molto grandi. Einaudi guardò
un po' sorpreso tanta botanica, poi sospirò: "lo" disse "prenderei
una pera, ma sono troppo grandi, c'è nessuno che vuole
dividerne una con me?"». Il maggiordomo si fece rosso, ricorda
ancora Ceccarelli, e anche Flaiano restò un attimo interdetto.
Finché alzò la mano: «Io...». «Qui finiscono i miei ricordi
sul presidente Einaudi» annoterà poi lo scrittore. Chiosando:
«Q ualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è
noto. Cominciava per l'Italia la repubblica delle pere indivise».
Pere d'oro. Ma per capire occorre davvero partire dal confronto
con la monarchia. Si potrebbe maramaldeggiare ricordando
la proverbiale sobrietà dei «monarchi in bicicletta» del
Nord Europa o l'austerità di un re Baldovino che in tutta la sua
vita non diede mai un ballo e visse e lavorò, come oggi il fratello
Alberto, in palazzi di proprietà dello Stato belga. Troppo facile.
Meglio il confronto con una monarchia spesso messa in croce
dai media locali con l'accusa di essere spendacciona: quella inglese.
Dicono i bilanci ufficiali che il Crown Estate , cioè il complesso
dei beni immobiliari che appartengono alla Corona britannica
ma sono gestiti dallo Stato, rendono immensamente più
di quanto lo Stato versi alla casa regnante per svolgere la sua
attività istituzionale. I contribuenti, insomma, ci guadagnano: nel
2006 hanno incassato dal Crown Estate 290 milioni di euro e ne
hanno dati alla regina meno di 57. Ripartiti in tre pacchetti. La
Civil List, che viene fissata ogni dieci anni e va a coprire gran
parte delle spese, dallo staff alla rappresentanza; il contributo
statale «Grant in aid for the maintenance...») per il mantenimento
delle residenze reali, e il fondo per i viaggi di Stato. Tutto
pubblico, su internet: www.royal.gov.uk!output/page3954.asp .
Con 33 pagine ricche di dettagli sulle tabelle entrate-uscite dedicate
alla prima voce, 54 alle residenze, 33 ai viaggi. Sei un cittadino? Hai di ritto di sapere che i dipendenti a tempo indeterminato a carico della Civil List alla fine del 2005
erano 3 10, cioè 3 in più rispetto all'anno prima. Che la regina
ha avuto regali ufficiali per 152.000 euro. Che nelle cantine reali
sono stoccati vini e liquori «in ordine di annata», per un valore
stimato in 608.000 euro. Che le uniformi del personale sono
costate 152.000 euro e «catering e ospitalità» 1.520.000. Che
sul volo di Stato numero tale, il giorno tale, in viaggio da qui a
lì c'erano i passeggeri Tizio, Caio e Sempronio.
La convinzione democratica che chi sta ai vertici del potere
abbia il dovere (non la facoltà: il dovere) di rendere conto
del pubblico denaro è talmente radicata che una tabellina indica,
con nome e cognome, lo stipendio dei massimi dirigenti.
Sappiamo quindi che la busta paga di Lord Chamberlain (Richard
Luce fino all' I l ottobre del 2006, poiWilliam Peel) è stata
di 97.000 euro, quella del segretario particolare della regina
Robin J anvrin di 253.000, quella del responsabile del Portafoglio
privato Alain Reid di 276.000, quella del Maestro di Casa
David Walker 191.000 euro. E da noi? Boh... Fu solo grazie a un'interrogazione parlamentare
di Filippo Mancuso, l'ex ministro della Giustizia ricco di entrature nei ganci più impenetrabili della macchina statale, che nel 1995 fini nel mirino lo stipendio di Gaetano Gifuni. Il
mitico «Parolinax {chiamato così perché era talmente riservato da apparire muto e parlava solo chinandosi nei momenti delicati alla basettona asburgica di Oscar Luigi Scalfaro per sussurrargli all'orecchio: «Preside', se permettete 'na parolina...» cumulava
allora due inrroiti favolosi. Lo stipendio di segretario generale del Colle e la pensione di ex segretario generale del Senato. Totale: 45 milioni di lire al mese. Netti. Per 15 mensilità. Lui
smentì. Tre giorni dopo saltò fuori la dichiarazione dei redditi del 1993, primo anno in cui aveva cumulato le due entrate. Il reddito era inferiore a quello denunciato da Mancuso ma niente male: 799.483.000 lire. In valuta attuale, 557.000 euro. Molti di più di quelli che prendeva il capo dello Stato. Non bastasse, «L'espresso» pubblicò allora un elenco dei
benefit del Grand(issimo) Commis: una villa nella tenuta di Castelporziano
(dove anche altri dirigenti hanno a disposizione cottage) più un faraonico appartamento di 500 metri quadrati un tempo abitato dal ministro della Real Casa più un maggiordomo,
una guardarobiera, un cuoco, una domestica e un autista. Ormai avviato verso la pensione, ricevette da Carlo Azeglio Ciampi l'ultimo dono: la nomina a segretario generale onorario,
un ruolo fino a quel momento, per quel che se ne sa, inesistente. Con ufficio personale a Palazzo Sant'Andrea, già sede del ministero della Real Casa, di fronte alla Manica Lunga del
Quirinale. Con segreterie, assistenti, autisti? Boh... Segreto. Certo è che i costi, stando all'unica fonte a disposizione (la comunicazione annuale con cui il Quirinale informa il governo di aver bisogno di «tot soldi» senza spiegare nulla su come vengano spesi) hanno continuato inesorabilmente a lievitare senza che mai sia stato segnalato un taglio e senza che mai sia stata fornita una risposta alle richieste di aggiornamento dei dati conosciuti
e mai smentiti. Ci sono ancora 7 1 alloggi a disposizione dei massimi dirigenti e dei collaboratori più stretti? I cavalli della ex Guardia del re sono ancora 60? Di quanto sono cresciuti i pensionati che nel 1998, ai tempi di una spietata radiografia
di Stefano Romita sul «Mondo», erano già 896? Chi viene
assunto è benedetto anche oggi dal dono di 4 anni d'anzianità
convenzionale per andarsene poi a fine carriera (molto prima
di tutti gli altri dipendenti pubblici) col 100% dell'ultimo
stipendio, come segnalava nel 2000 (5 anni dopo la riforma Dini)
un'inchiesta dell'«Espresso»? Ci sono ancora 2 ausiliari che
come unico lavoro controllano gli orologi a pendolo?
Segreto.Mentre dall'altra parte, in Inghilterra, la regina ha
deciso di fornire ai cittadini non solo tutti i particolari del bilancio
ma di far certificare questo bilancio dalla Kpmg. Ve l'immaginate
il Quirinale che si abbassa (che umiliazione! che umiliazionel)
al pari di una qualsiasi monarchia inglese ad affidare i conti a una società di revisori? L'idea di trasparenza è tale, lassù, che tra i resoconti c'è un capitoletto: «Politiche per il personale». Vi si spiega che «la Casa reale è impegnata a rispettare le pari opportunità e tutte le nomine e le p romozioni sono effettuate seguendo il criterio del merito». Si aggiunge che le selezioni
del personale avvengono con pubblico reclutamento e
«avvisi pubblicati sui giornali nazionali e specialistici e su internet
». E si precisa che «tutto il personale è sottoposto annualmente
a una valutazione delle performance anche per identificare
le opportunità di carrie ra individuali e le necessità formative
». Un riesame l'anno. Senza che i sindacati strillino contro
la ferocia padronale della regina. Altra cultura. Un giorno di qualche anno fa, per dire, il governo inglese si accorse che la Civil List aveva calcolato un'inflazione
(7,5%) più alta di quella poi effettivamente registrata, col
risultato che la famiglia reale aveva ricevuto 45 milioni di euro
in più. Bene: Tony Blair e il cancelliere dello Scacchiere Gordon
Brown, come riportarono tutti i giornali, decisero il congelamento
dell'appannaggio per andare al recupero dei soldi.
Invit at a a «dimagrire» , Elisabetta II ha preso l 'impegno
molto sul serio. Taglia di qua e taglia di là, per fare un solo
esempio, a Buckingham Palace ci sono oggi 6 centralinisti a
tempo pieno. La metà dei soli centralinisti del Comune di Catania
processati anni fa dalla Corte dei Conti perché si spacciavano
per ciechi. La metà dei centralinisti assunti dalla Asl di
Frosinone nella sola tornata del dicembre del 2002. Un quinto
dei centralinisti non vedenti richiesti con un concorso bandito
nel 2004, dice un documento parlamentare, dalla sola Università
di Palermo. Ma è tutto l'organico a essere stato ridotto all'osso. Per
mandare avanti non solo Buckingham Palace ma anche una serie
di residenze (Kensington Palace, Saint James Palace, Clarence
House e Marlborough House, Hampton Court, il castello e il
parco di Windsor) nel 1995 la monarchia aveva, spiegò un minuzioso
reportage di Gabriele Pantucci sul «Mondo» sulla base
del primo bilancio integralmente pubblico sulle spese della monarchia,
circa mille persone: "Cifra che comprende oltre al personale
dipendente anche la polizia e le forze annate assegnate
per la sicurezza della regina». AI mantenimento dei palazzi, visitati
ogni anno da quasi 2 milioni di turisti paganti, provvedevano
allora 176 addetti. Lo stesso direttore amministrativo Michael
Peat, spiegava il rapporto, era part-time. Metà dello stio
pendio glielo pagava la Civil List, metà il fondo per il mantenimento
del patrimonio immobiliare reale. Stipendio complessivo:
poco più dell'equivalente di 110.000 euro. Più «un incentivo,
basato sul rendimento, di 6500 sterline all'anno, ma sono al
lordo della somma di 11.159 sterline dedotte per l'alloggio».
Una decina di anni dopo, stando ai bilanci, il personale è
stato, sia pur di poco, ulteriormente ridotto. Un esempio? Gli
operai (falegnami, tappezzieri, orologiai...) impegnati nelle manutenzioni
di Buckingham Palace sono in tutto 15, compreso il
superviso re. Va da sé che la situazione finanziaria è letteralmen- .
te rifiorita, Nell'anno fiscale chiuso a13 1 marzo del 2006, la Corona
è costata in tutto, come dicevamo, 56.800.000 euro: 17 per
la Civil List, meno di 22 per la gestione dei palazzi, 8 per i viaggi,
750.000 euro per «informazione e comunicazione» e cose
varie come i 600.000 euro di provvidenze per gli impegni ufficiali
del duca di Edimburgo. Riassunto: nel 1991-1992 la spesa
pubblica per la Corona era di 132 milioni di euro, oggi è sotto i
57 milioni. Un taglio radicale. E il Quirinale? Sul «tesoro della Corona» è meglio stare alla
larga dai paragoni: di là entrano, dal Crown Estate, 290 milioni
di euro e di qua un milione, diceva un'inchiesta di Denise Pardo
sull'«Espresso» del 2000, dalla vendita dei pinoli di Castelporziano.
I pinoli! Ma anche gli altri paragoni sono umilianti. Negli
ultimi anni, una sola voce è rimasta uguale: la busta paga del capo
dello Stato. Che a partire da Enrico De Nicola, che come dicevamo
non toccava gli 11 milioni di lire l'anno di indennità, è
ancora praticamente la stessa. Anzi: è spesso rimasta bloccata
in tempi di inflazione finendo per ridursi in termini reali fino a imporre
nuovi adeguamenti all'insù. Fatti i calcoli in euro attuali,
Luigi Einaudi ne prendeva 184.960 nel 1948, Giuseppe Saragat
254.662 nel 1965, Francesco Cossiga 210.435 nel 1985 e 185.076
a fine mandato nel 1992, Oscar Luigi Scalfaro 210.770 nel 1996,
quando chiese e ottenne di pagare l'Irpef come rutti gli italiani, a
partire dal 10gennaio del 1997. Insomma: variazioni molto contenute,
in un'Italia sempre più benestante. Finché Carlo Azeglio
Ciampi scelse di non adeguare mai, nei suoi sette anni, i propri
emolumenti. Rimasti fissi a 218.407 euro.
Anche Giorgio Napolitano sta lì: a 218.407. Un 10% abbondante
sotto l'indennità di Saragat. Intorno a lui, però, il Palazzo
si è gonfi ato e gonfiato e gonfiato negli anni senza che
neppure Ciampi, che del risanamento dei conti pubblici e della
sobrietà aveva fatto una ragione di vita (il villino a Santa Severa,
i giri in bicicletta, le foto ai remi sul pattino...) riuscisse a fare argine.
Eppure il nostro amatissimo Carlo Azeglio, già nel febbraio del 2001, aveva sotto gli occhi una fotografia nitida della situazione. Il rapporto del comitato che lui stesso aveva voluto
subito dopo l'insediamento e guidato da Sabino Cassese. Le 49
pagine, allegati compresi, non furono mai rese note. E si capisce:
le conclusioni, fra le righe, non erano lusinghiere. Nonostante
i paragoni non fossero fatti con la monarchia inglese ma
con la presidenza francese e quella tedesca. Al 31 agosto del 2000 il personale in servizio da noi era composto da 931 dipendenti diretti più 928 altrui avuti per «distacco» , per un totale di 1859 addetti. Tra i quali i soliti 274 corazzieri, 254 carabinieri (di cui 109 in servizio a Castelporziano), 213 poliziotti, 77 finanzieri (64 della Tenenza di Torvajanica,
che è davanti alla tenuta presidenziale sul mare sotto Ostia, e 14 della Legione Capo Posillipo), 21 vigili urbani e 16 guardie forestali, ancora a Castelporziano.
Numeri sbalorditivi. Il solo gabinetto di Gaetano Gifuni era composto da 63 persone. Il servizio Tenute e Giardini da 115, fra cui 29 giardinieri (14 al Quirinale, 8 a Castelporziano e
7 nella napoletana Villa Rosebery) e 46 addetti a varie mansioni, Quanto ai famosi 15 craftsmen di Elisabetta II, artigiani vari impegnati nella manutenzione dei palazzi reali , al Quirinale erano allora 59 tra i quali 6 restauratrici al laboratorio degli
arazzi, 30 operai, 6 tappezzieri, 2 orologiai, 3 ebanisti e 2 doratori.
L'accettazione, il recapito e la distribuzione della corrispondenza
a mano richiedevano 14 persone. Nell 'autorimessa
c'erano 45 (quarantacinque !) autisti . In cucina, 37 persone di
cui 11 cuochi e 26 camerieri. Nel rapporto si sottolineava che la presidenza tedesca, dai
compiti istituzionali simili, aveva dimensioni molto più contenute:
50 addetti alle tre direzioni organizzative, 100 ai servizi
logistici e di supporto e 10 agli uffici degli ex presidenti. Totale:
160. Cioè 29 in meno dei soli addetti alla sicurezza della tenuta
di Castelporziano. Quanto all'Eliseo, il confronto era almeno
altrettanto imbarazzante: nonostante il presidente francese
abbia poteri infinitamente superiori a quello italiano, aveva
allora (compresi 388 militari) 923 dipendenti. La metà del
Quirinale. E infatti costava pure quasi la metà: 86 milioni e
mezzo di euro in valuta attuale, contro 152 e mezzo. Per non
dire del confronto, umiliante, con la presidenza tedesca che sulle
casse pubbliche pesava per 18 milioni e mezzo di euro: un
ottavo della nostra. Facciamola corta: nel 2001 era già tutto chiaro. La commissione
Cassese suggeriva che c'erano funzioni che potevano benissimo
essere appaltate all'esterno, dalla lavanderia alla legataria,
dal restauro degli arazzi alla tipografia fino all'officina meccanica.
Denunciava la sovrapposizione di funzioni o l'assurdità
che l'ufficio del consigliere militare fosse oberato da «pratiche
amministrative derivanti da istanze di privati» (raccomandazioni?)
che spesso non avevano «un'attinenza stretta con le funzioni
di carattere giuridico e militare». Spiegava che da troppo tempo
la definizione degli organici era avvenuta «in modo incrementale
», cioè gonfiando sempre più il personale senza alcuna
trasparenza. Al punto che l'ultimo concorso per assumere gente
(quei concorsi che in Gran Bretagna vengono pubblicizzati sui
giornali) era stato b an dito addirittura da Antonio Segni nel
1963. Quando era ancora vivo Winston Churchill.
Eppure, dopo quella denuncia interna sull'elefantiasi della
struttura, non solo sono aumentati perfino i corazzieri ma il
personale di ruolo è salito a 987 persone, di cui 84 nella carriera
direttiva, 124 in quella di concetto, 228 in quella esecutiva e
5 1 ausiliari. Più 85 collaboratori a tempo pieno e a vario titolo
del presidente, 38 civili e 47 militari (di cui 40 «addetti all'ufficio
del consigliere per gli Affari militari e alla segreteria del
consiglio supremo di Difesa») più 23 unità a contratto . Totale:
1072 persone. Cioè 182 in più rispetto a quelli che, stando a
una risposta in Parlamento a una interrogazione di Raffaele Costa
da parte dell'allora ministro Giorgio Bogi, c'erano nel '98.
E ancora più marcato è stato l'aumento sul versante del
«personale militare e delle forze di polizia distaccato per esi genze
di sicurezza del presidente e dei compendi»: poliziotti,
carabinieri e uomini di scorta vari sono 1086. Cioè 382 in più
rispetto a dieci anni fa. Con un balzo del 54%. Fatte le somme:
nelle tre sedi rimaste in dotazione alla presidenza dopo la cessione
alla Regione Toscana della tenuta di San Rossore, e cioè il
Colle, Castelporziano e Villa Rosebery a Napoli, lavorano oggi
2158 persone. li doppio, come abbiamo visto, di quelle impiegate
dalla corte inglese o dall'Eliseo. Ben 299 più di quelli fotografati
da Cassese. Addirittura 564 più che nel 1998. Con un
aumento del 35%. Va da sé che il costo del personale assorbe il 57,3% del bilancio.
Mentre un altro 30,3% se ne va nelle pensioni di quanti
sono usciti approfittando delle condizioni qua e là strepitose di
cui scrivevamo. Insomma, gli stipendi «pesano» per 134.655.000
euro. Più almeno altri 27 milioni e mezzo di euro pagati da altre
casse statali al migliaio di uomini distaccati per la sicurezza
(25.000 euro lordi di stipendio base, secondo stime sindacali, cui
va sommata l'indennità quirinalizia) col risultato che il solo personale
costa oltre 160 milioni di euro. Pari, grossolanamente, a
una busta paga lorda pro capite di oltre 74.000 euro. il doppio
dello stipendio di uno statale medio. E il doppio di un dipendente
della regina. I numeri più ustionanti, tuttavia, sono quelli assoluti. La
«macchina» del Quirinale costava nel 1997 «solo» 117.235.000
euro. Dieci anni dopo costa 224 milioni (più altri I I che arrivano
al Colle da «entrate p roprie quali gli interessi attivi sui depositi
e le ritenute previdenziali»). Un'impennata del 91%. Si dirà:
c'è stata l'inflazione. Giusto. Fatta la tara, però, l'aumento netto
resta del 61%. Per non dire del paragone con vent'anni fa. Sapete
quanto costava la presidenza della Repubblica nel1986?
In valuta attuale meno di 73 milioni e mezzo di euro. li che significa
che in vent'anni la spesa reale, depurata dall'inflazione,
è triplicata . Mentre lassù in Gran Bretagna veniva più che dimezzata.
Col risultato che oggi Buckingam Palace cos ta un
quarto del Quirinale. È tirchia Elisabetta II o sono spendaccioni
al Colle?
4
Prodigi: in volo 37 ore al giorno
Da Berlusconi a Bertinotti, tutti via con gli aerei di Stato
«Sevve un passaggio, cavo?» Era la sera del 20 settemb re del
2006 e Fausto Bertinotti scivolava tra principi e marchesine, finanzieri
e matrone grondanti di gioielli che affollavano la residenza
in me de Varenne di Ludovico Ortona, il nostro ambasciatore
a Parigi, con la scioltezza disinvolta di chi non ha fatto
altro in vita sua. Certo, el Giuan e gli altri compagni «casciavit»
dell'adolescenza avrebbero faticato a riconoscerlo. Che ci faceva,
lo storico segretario di Rifondazione comunista che dedicò
l'elezione a presidente della Camera «alle opevaie e agli opevai», in mezzo a quello sfarfallio di mondanità europea riunita per festeggiare le future nozze di Clotilde d 'Urso, nipote del
banchiere Mario, con Arthur de Kersauson de Pennendreff, la
cui famiglia è nella storia di Francia dai tempi in cui un antenato
guidò la flotta di San Luigi alle Crociate? Se glielo avessero chiesto, avrebbero ottenuto la risposta che il «subcomandante Fausto» diede dopo essere stato avvistato
perfino a un «pigiama party»: «Vado nei salotti come vado
nelle piazze o in Parlamento: per affermare ovunque il diritto
all'alterità della sinistra antagonista». Ovunque. Al punto
che per portare nel mondo la sua alterità antagonista e
sventolare la bandiera degli emarginati e dei derelitti a tutti i
cocktail e i gran galà, i ricevimenti e le cene esclusive, si è subito
rassegnato ai confortevoli aerei di Stato. Come quello
usato appunto per andare alla festa privata parigina di Clotilde
e Arthur. Con spirito da compagno, però. Gli operai da
bravi comunisti spartiscono la «schisceta»? Lui da bravo comunista
si offriva di spartire le poltroncine con chi volesse uno strappo
per tornare a Roma: «Sevve un passaggio, cavo?». li tutto in
gioiosa continuità coi «viaggi blu» del governo
delle destre. Prendete cinque Boeing 737 come quelli della Ryanair da
150 passeggeri e fateli volare da Roma a Londra andata e ritorno.
Tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. Oppure affittate
otto jet privati «long range» come i Gulfstream V da 18
passeggeri sulla rotta Roma-Madrid e ritorno. Tutti i giorni, Natale
e Capodanno compresi. Oppure prendete a nolo tredici aerotaxi
Hawker 800Xp da nove passeggeri e spediteli da Roma a
Parigi e ritorno. Tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. E
fate in somma tutte le ip otesi che volete ma i conti non torneranno
mai: come diavolo ha fatto Palazzo Chigi, nell'ultimo anno
dell'era berlusconiana, a spendere 179.452 euro al giorno in
voli di Stato? Come ha fatto ad accumulare 37 ore di volo al
giorno? Eppure sono questi i conti, a leggere i bilanci della presidenza
del Consiglio. Uno si domanda: su e giù dalla scaletta,
dove lo trovavano il tempo per stare un attimo fermi e governare?
E ti immagini, da certi numeri, spiritate gitandole di decolli
e atterraggi e pazze corse a sirene urlanti per piombare in nuovi
aeroporti per nuovi decolli e nuovi atterraggi. Tutti privati, si
capisce: i ministri non si mischiano coi passeggeri comuni.
Questione di sicurezza. Questione di status. Basti dire che la presidenza del Consiglio aveva, fino ai primi mesi del 2006, ben 14 «aereiblu», Ridotti a 13, a dispetto
della scaramanzia (Giovanni Leone o Enrico De Nicola non l'avrebbero
mai fatto, neanche con una dotazione di cornetti di corallo) grazie alla decisione berlusconian a di «tagliare» uno dei quattro Airbus per cederlo al collega turco Recep Tayyip
Erdogan. Una flotta che basterebbe a fare la fortuna di una medi
a compagnia. Eppure insufficiente a supportare la frenesia
aviatoria dei nostri ministri di centrodestra. Al punto di costringere
il governo a spendere un altro pacco di soldi per prendere
altri voli a noleggio. Fino a sborsare complessivamente
(rendiconti 2005) la bellezza di 65 milioni e mezzo di euro. Pari
al costo medio di quei voli di cui dicevamo all'inizio. O all'acquisto
di 2241 biglietti andata e ritorno al giorno Milano-Londra
della Ryanair. Direte: mica i ministri e i sottosegretari
possono viaggiare coi gruppi low cost! Benissimo: con la stessa
cifra , a metà del 2005, potevi comprare 750 biglietti MilanoLondra
della British Airways. Andata e ritorno. Al giorno.
Come abbiano fatto Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e i
loro 3 sottosegretari e la manciata di ministri senza portafoglio
legati a Palazzo Chigi ad ammassare tutti quei voli è un mistero.
A leggere i giornali parevano essere sempre a Roma a battagliare
contro i comunisti e contro i Follini. Invece erano sempre
in volo. Come il mitico U2, il grande aereo nero che volava
a 25.000 metri d'altezza e poteva essere rifornito in cielo senza
avere (teoricamente) la necessità di atterrare mai. Miracoli dell'ubiquità.
Per curiosità: chi viaggiava, su quegli aerei di Stato? Segreto.
Confermato , dopo il subentro, anche da Prodi: segreto. Una
scelta, come abbiamo visto, rovesciata rispetto a quella della
Corona britannica. Che sul suo sito ha voluto mettere tutto.
Spiegando di avere speso nel 2006 complessivamente, in viaggi,
8.360.000 euro. Di cui 3,3 per i trasferimenti in elicottero, 2,4
per i voli con aerei civili, 800.000 per quelli coi velivoli del 320
Squadrone della Raf. L'elicottero della regina ha volato 379 ore,
gli aerei privati per 194 ore, quelli della Raf (due, uno per 26
passeggeri, il secondo per 7) 483 . Costo medio di un'ora di volo:
3442 euro con il velivolo più grande, 1304 con quello più
piccolo. Contro i 4723 euro a ora spesi medi amente (come è
possibile?) dal nostro governo. Fate voi i conti.
Cosa ci di cono, da anni? Che l'uso dei voli di Stato viene
imposto dai «servizi» per ragioni di sicurezza. Di più: non usare
i voli di linea sarebbe un riguardo nei confronti dei normali
passeggeri. Così da non esporli al rischio di azioni terroristiche.
Cuori d'oro. Peccato che a smentirli sia an cora la monarchia
britannica: è vero o no che l'Inghilterra, dopo la guerra in Iraq,
è più esposta di noi al terrorismo islamico, il quale si è andato a
sommare al terrorismo tradizionale dell'Ira che per decenni ha
insanguinato Londra? Bene: la regina e la sua corte, nel 2006,
hanno preso anche 16 voli di linea. Senza che il loro status e gli
altri passeggeri, evidentemente, ne risentissero. Imperdibili,
infine, sono le ultime pagine del rapporto della Corona britannica,
dedicate ai voli da più di 15.000 euro. C'è tutto: chi c'era
sull'aereo o sull 'elicottero, dov'è andato, per quanto tempo,
quanto è costato. Tutto. Per carità: tanta riservatezza sui passeggeri dei voli di Stato,
dovuta magari all'imbarazzo su alcune presenze, non è una
novità. Ricordate cosa raccontava del ministro degli Esteri
Gianni De Michelis l'allora consulente strategico del segretario
della Difesa americano Edward Luttwak? «Quando partecipò
alla conferenza della Nato indetta dal Center far Strategie and
Intemational Studies per l' anniversario della Nato a Bruxelles,
De Michelis era accompagnato da: 1) una bionda avvenente
con compiti non specificati sul libro paga di un'azienda di Stato,
l'Eni, o forse del Partito socialista italiano; 2) una brunetta
con compiti non specificati anche lei sul libro paga di un'azienda
di Stato o forse del Partito socialista italiano; diversi assistenti
politici personali (ne aveva aggiunti circa 300 a libro paga
nel ministero degli Esteri invece della solita dozzina); 3) un
codazzo di diplomatici e di militari più folto di quello di qualsiasi
ministro o altissimo ufficiale della Nato, compreso il comandante
supremo alleato per l'Europa, noto per l'imperiale
grandiosità del suo seguito.» Di più: «Quando De Michelis si concedeva una pausa nelle
sue funzioni di ministro degli Esteri o di vicepresidente del
Consiglio dei ministri, per un pranzo informale in un ristorante
alla moda, non si sedeva mai senza almeno una dozzina di persone
al suo tavolo. Tra le quali: 1) almeno una rappresentante
del sesso opposto con compiti non specificati ma sul libro paga
dello Stato o del Partito socialista; 2) diversi riconoscenti benefici
ari del suo potere di nomina di alti dirigenti di imprese di
Stato , presidenti di banche controllate dallo Stato, sottosegretari
di vari ministeri e membri di alcuni dei meglio remunerati
consigli di amministrazione di Stato con questa, quella e altra
fun zione; 3) almeno un aspirante beneficiario del suo preteso
potere di distribuire ela rgizioni governative mediante appalti
pubblici, un ruolo che comportava, "ex officio ", per così dire,
il pagamento di conti di norma salatissimi». E il celeberrimo viaggio di Bettino Craxi in Cina, nel 1986? Si trascinò dietro una schiera di persone che ricordava la corte
di Caterina Cornaro al ritorno da Cipro e in viaggio verso Asolo.
Giulio Andreotti, che del «Cinghialone» era il ministro degli
Esteri, sogghignò: «Sono stato in Cina con Craxi e i suoi cari... ». Gennaro Acquaviva, il capo della segreteria, si affannò a spiegare che non c'era nessunissimo scandalo perché la delegazione non era stata «dissimile da quella che abitualmente accompagna
il capo del governo e il ministro degli Esteri nelle visite
ufficiali che compiono insieme in Paesi importanti e lontani.
..) La delegazione cinese che accompagnava il segretario
del Partito comunista Hu Yaobang nella sua visita ufficiale in
Italia nel giugno scorso, era composta da 42 persone».
La perla fu un'interrogazione parlamentare del comunista
Renato Nicolini che la compagna Nilde lotti, presidente della
Camera, non ammise neppure perché «sconveniente». Bettino,
al ritorno da Pechino, si era fermato in India per far visita, vicino
Bangalore, al fratello Antonio, che viveva a Puttaparthi nella
comunità del santone Shri Sathya Sai Baba con il quale il presidente
del Consiglio italiano, scrisse «la Repubblica», aveva
avuto un paio di colloqui presentati dalla stampa indiana «alla
stregua di udienze pontificie». «Perché si è limitato a portare soltanto 65 invitati?» chiese
perfido il deputato del Pci. Non pago, aggiunse: «Se la scelta di
soli 65 invitati è dovuta a motivi di capienza del velivolo , il presidente
non ritiene opportuno dotarsi di un mezzo più adeguato? ». Per finire, beffardo: «Vuole il presidente dirci quali siano le attrazioni di Macao e di Hong Kong più consigliabili al turista
italiano al fine di sprovincializzarne la mentalità?». Se Bettino, quella volta, si fosse portato dietro dei vettovagliamenti e magari un cuoco gli archivi non lo dicono. Ma certo
non c'è politico italiano che si presenti all'estero, da anni, senza
qualche container di «prodotti tipici» . Siete a una grande fiera
internazionale? Seguite le ondate di profumo, individuate i prosciutti
e i cacicavalli appesi e fatevi largo tra le plebi che s'ingozzano
di assaggini: lì c'è la delegazione t ricolore. Un esempio?
Francesco Storace, da governatore, si fece in quattro per il
progetto «Regione Lazio e Regione di Mosca: insieme verso il futuro
». I russi mettevano le astronavi, gli astronauti e la tecnologia,
spiegava entusiasta un'agenzia, noi il loro menu spaziale: «Ricotta
secca, caciotta di bufala, marzolina, olive di Gaeta, tozzetti
e torroncini, miele, castagne e nocciole, tutti rigorosamente
prodotti nel territorio laziale», il massimo lo diede la Regione Sicilia che, dovendo preparare
un campionato mondiale di ciclismo, organizzò una trasferta
a Oslo per vedere come se l'erano cavata i norvegesi. Partirono
in 120, compresi i musicisti di un'orchestrina folk, le
mogli (fu spettacolare la spiegazione dell 'assessore Sebastiano
Spoto Puleo: «Che dovevamo fare? Poi ci dicevano che siamo i
soliti siciliani che lasciano a casa i "fimmini ?»), 30 giornalisti e
4 cuochi. I quali erano stati preceduti da un tir di derrate con
ogni ben di dio: dai pomodorini secchi alla bottarga, dalle melanzane
al finocchio selvatico, dallo zibibbo alla Donnafugata.
Un'altra volta, dovendo preparare un'universiade, decisero
di andare a vedere come si erano organizzati i giapponesi a
Fukuoka. E misero a punto un viaggio che, se non fosse stato
bloccato dall ' apertura di un'inchiesta, prevedeva la trasferta
nel Paese del Sol Levante di 23 1 persone: deputati, fun zionari,
amici... Più il necessario per donare agli ospiti giapponesi un
simpatico spettacolino d urante la cerimonia di apertura della
manifestazione sportiva: 30 sbandieratori di Siena, 30 trarnpoIieri
dell'Emilia Romagna, 30 gondolieri veneziani, lOcantanti
romani e 30 Pulcinella napoletani.... Tutti prenotati allo Hyatt
Residence: 500.000 lire a testa al giorno. Caro ? Per niente,
spiegò l'assessore al turismo Luciano Ordile: «Mi dicono che lì
un caffè costa diecimila lire!», Gli chiesero: non bastava, per
esempio, portare solo i costumi da Pulcinella usando poi figuranti
giapponesi? Risposta: «Non capisco tutte queste polemiche.
Non stiamo mica organizzando una sagra di paese!»,
Com'erano grasse, le vacche degli anni grassi... Eppure, anche
nelle ristrettezze di oggi, il figurone all'estero lo vogliono
fare ancora tutti. Ed ecco Roberto Formigoni solcare le autostrade
brasiliane con un corteo imperiale aperto da 8 motociclisti
che gli spalancavano la strada tra le macchine come Mosè
il Mar Rosso nei Dieci Comandamenti di DeMille. E il sindaco di
Lecce, l'aennina Adriana Poli Bortone, tenere a New York, in
italiano e per spettatori in larga parte arrivati dalla Puglia, una
conferenza su «L'area del Salento come ponte fra l'Italia, i Balcani
e il Mediterraneo». E il rifondarolo Nichi Vendola «
Fitto e la destra prima di rne») andare al Columbus Day e
spendere tra una cosa e l'altra, col seguito, 345 .000 euro per 4
giorni newyorchesi mentre il suo vice dichiarava: «Certo la cifra
mi incuriosisce, sarà il caso di verificare». E ogni volta polemiche a non finire, sospiri di amarezza verso i giornalisti che non capiscono, moniti verso «la demagogia
che rischia di allontanare la gente dalla politica» e annunci
di tagli futuri. Poi passano un paio di anni e al è, tutto da capo.
Ve la ricordate la signora Sandra Lonardo in Mastella, l'«onorevola
» «Per una vita mi hanno chiamato così: proprietà transitiva
con mio marito» miracolosamente salita su su fino alla
presidenza del Consiglio regionale della Campania, nell'autunno
del 2006? Non si erano ancora placate le invettive per il
viaggio di Vendola e lei solcava già l'Atlantico per essere puntuale
al solito appuntamento. Tutti al Columbus Day! Tutti al Columbus Day! Avranno
visto troppi fumetti sulla parata di Itala Balbo nelle strade di
New York, fatto sta che non c'è ottobre in cui decine e decine di
politici italiani non organizzino una nuova trasvolata oceanica
per sfilare finalmente tra la folla nella Fifth Avenue. Vabbè lo
stipendio d'oro , vabbè le prebende, vabbè i portaborse e le autoblu:
ma vuoi mettere il pia cere di una «parade» a Manhattan?
Infilzata dai critici, Alessandrina «Mi chiamo proprio così:
il segretario comunale era fissato coi diminutivi e le neonate erano
registrate tutte così: Franceschina, Carmelina, Assuntina...»
disse che proprio non le capiva le polemiche sollevate da Emma
Bonino. La quale, irridendo a certi governatori che «credono di
essere ministri degli Esteri» e «aprono sedi di rappresentanza in
altre nazioni e poi finiscono per promuovere pacchetti turistici
in Paesi che non h anno neanche collegamenti con l'Italia», se
l'era presa soprattutto con la comitiva campana. «il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione» spiegò la First Lady sannita, reduce da un incontro con Hillary Clinton,
«assegna alle Regioni anche competenze in materia di promozione.
Quindi non capisco questa polemica. Non c'è alcuno
spreco di risorse se vengono utilizzate bene e nell'interesse della
comunità.» Quale fosse l'interesse della comunità» campana nell'inviare
all'annuale parata di New York, dove Alessandrina è cresciuta
prima di tornare a Ceppaloni per sposare il suo futuro
ministro, una delegazione di 160 persone (presidenti provinciali
e sindaci e assessori e addetti stampa più un certo numero di
mogli, che sarebbero state «a carico dei mariti») non è chiarissimo.
Francesco D'Ercole, il capogruppo di An in Regione, ci
tenne a far sapere, per esempio, che lui si era rifiutato di andare
«pur essendo stato inserito tra i partenti» proprio perché gli
pareva «assurdo buttar via tutti quei soldi per una mega-gita
transoceanica». Gita costata 680.000 euro di cui 250.000 stanziati
dalle cinque Province e 300, spiegò la First Lady sannita,
presi dai fondi europei destinati ai Por, i Progetti operativi regionali.
Chissà con quanto entusiasmo di Bruxelles.
Per carità, la «fissa» del Columbus Day non riguarda solo
la signora Mastella né la sola Regione Campania né le sole amministrazioni
di centrosinistra. L'esibizionismo lungo la Fifth Avenue, con certi codazzi di assessori, collaboratori, nani e ballerine da ricordare la corte portata dalla principessa Bona Sforza
a Cracovia quando andò in sposa a re Sigismondo, va avanti
da anni e ha visto protagonisti di ogni genere.Se Napoli, prima di presentarsi con un carro col Vesuvio e le fiamme stilizzate (guagliò , che fantasia !) fece cantare a tutto
volume per la Fifth Avenue Massimo Ranieri, Milano fece sfilare
sei modelle vestite Missoni piazzate sul cofano di cinque Alfa
Romeo Giulietta «scelte per rappresentare l'abbinamento fashion-
industria alla milanese» . il Lazio fece sbarcare in America
“i gioielli e le tradizioni gastronomiche” poiché, spiega un'agenzia,
«gioielli e vino trovano entrambi la loro origine nella
terra» . E c'è chi, via via, ha portato caciotte e chi torroncini, chi
arlecchini e chi pupi dell'Opera, chi Vivaldi e chi T-shirt.
Sempre, rigorosamente, come ha scritto Maria Teresa Cornetto sul
«Corriere», in ordine sparso. il presidente provinciale milanese
Filippo Penati stando alla larga (ricambiato) dall'allora sindaco
Gabriele Albertini, il governatore siciliano Totò Cuffaro ben
distante da quello campano Antonio Bassolino... Tutti a levare
il calice: viva l'Italia! Viva il Columbus Day! E ovviamente viva gli aereiblu! Camera e Senato hanno speso insieme, nel 2005, meno di un terzo di Palazzo Chigi. Ma si tratta comunque di una somma sostenuta: 20.255.000 euro. Più del doppio di quanto abbiamo dato quell'anno al programma mondiale per la lotta alla fame nel mondo. Per la precisione:
10.455.000 euro sono stati spesi dai deputati, 9.800.000 euro dai senatori. Facciamo due conti? Ogni deputato, compresi quelli che vivono a Roma o nel Lazio e non devono affatto raggiungere tutte le settimane la famiglia o il collegio elettorale, è costato mediamente di soli voli (i biglietti sui treni sono gratis, fatta eccezione solo per la prenotazione del posto) 16.595 euro. Quasi 3 milioni di lire al mese. Molto, ma non in confronto ai colleghi di Palazzo Madama. Dove i senatori eletti nel Lazio, in Toscana, in Umbria, nelle Marche, in Abruzzo, nel Molise o in Campania, sono complessivamente 99, dei quali non più di una trentina, a stare larghi, hanno interesse a rientrare a casa con un volo per Pisa o Ancona. il che vale anche per i senatori a vita, che da tempo fanno quasi tutti base nella capitale. Risultato: ogni senatore «volante» spende in ticket aerei 40.000 euro all'anno. Molto più del doppio di un deputato medio. Domanda: come è possibile? D'accordo: ci sono un po' di missioni e riunioni «europee » e importantissimi convegni qua e là. Ma bastano davvero
a giustificare una media così alta?Ma torniamo alla flotta di Palazzo Chigi. Facendo un passo
indietro fino al giorno in cui il capo del governo Massimo D'Alema ebbe finalmente a disposizione il primo dei due Airbus A319 che un paio di anni p rima Romano Prodi aveva comprato a 100 miliardi di lire l'uno per sostituire i vecchi Dc9 della presidenza del Consiglio. Una scelta «europeista»: al posto dei McDonnel Douglas americani ecco finalmente i velivoli cost ruiti dal consorzio europeo Airbus. Peccato solo che noi italiani
ci fossimo chiamati fuori. E peccato per la moquette: quella iniziale era bianca come il vestito di una sposa. Ideale per il vecchio GeiAr di Dallas o qualche miliardario cowboy di «Flamingo Road», Meno per noi. Era il 7 marzo del 2000. Da allora, compra oggi e compra
domani, gli Airbus A319 della presidenza erano aumentati, come dicevamo, fino a diventare (prima della saggia cessione di un esemplare al governo turco) addirittura 4. Per capirci, non
parliamo di Piper o mini-jet: 1'A3 19 è un bestione di 34 metri
di larghezza e 34 di apertura alare che raggiunge gli 837 chilometri
all'ora di velocità di crociera, ha un'autonomia massima
di 6845 chilometri e può portare fino a 124 passeggeri. Nella
versione commerciale, s'intende. Quelli della presidenza sono
tutt'altra cosa: c'è anche, per dire, una camera da letto con il
bagno per i lunghi voli transcontinentali. I tre Airbus fanno parte del 31o Stormo dell'Aeronautica militare. E non sono gli unici aerei in dotazione alla presidenza
del Consiglio. Quello stormo, che si fa carico pure delle esigenze
umanitarie, può contare infatti anche su tre Falcon 900 Ex
(un trireattore con autonomia intercontinentale), due Falcon
900 Easy e due Falcon 50. Tutti jet da 9 a 16 posti. Più due elicotteri
Agusta Sh3d da 10 posti. Ma non basta. Sono a disposizione
infatti anche i velivoli della Cai, la Compagnia aeronautica
italiana dei servizi segreti. Che conta su due Falcon 900 A,
un Falcon 900 Ex e due Falcon 50. Una flotta di tutto rispetto, o no? Macché: la presidenza
del Consiglio sentì la necessità, con Silvio Berlusconi, di prendere
altri aerei a noleggio. Tanto da firmare un contratto biennale
(2005 e 2006) con la società Servizi aerei SpA dell'Eni, per
300 ore di volo annue e un impegno per il 2007 di 2.079.000
euro. Più un secondo contratto per il periodo marzo-dicembre
2005 con la Eurofly Service di Torino, di proprietà di Rodolfo
Baviera e di sua moglie. Impegno finanziario: altri 2.100.000
euro, per 300 ore di volo totalmente esaurite. Riassunto: 50 milioni per gli aerei del 310 Stormo più 11.500.000 per quelli della Cai più 1.900.000 euro per gli aerei
dell'Eni più 2.100.000 per quelli di Eurofly. Totale, come dicevamo:
65.500.000 euro. Pari a 13.761 ore di volo. Una enormità.
Tanto più che, nel bilancio di Palazzo Chigi pubblicato
sulla «Gazzetta ufficiale» alla voce «Noleggio aeromobili per
esigenze di Stato, di Governo e per ragioni umanitarie, spese
connesse con l'utilizzo dell'aereo presidenziale», le previsioni
finali per il 2005 erano di appena 2.152.000 euro. La metà dei
soli contratti di noleggio. Come mai? Perché i bilanci della politica
sono spesso costruiti apposta per attenuare i numeri più
sconcertanti. Gli inquilini subentrati a Palazzo Chigi, davanti a quella
massa di spostamenti, prospettarono a Prodi la possibilità di
tagliare la bellezza di 5243 ore di volo. Una riduzione del 38%.
Con un risparmio di 23 .886.000 euro. E lì si sono aperte le
scommesse: ci sarebbero riusciti? Ridotti bruscamente i voli
Roma-Olbia, la tratta prediletta dal Cavaliere (che aveva fatto
della Certosa una specie di residenza secondaria della presidenza
del Consiglio) non è che la nuova maggioranza di centrosinistra
abbia dato prova di virtù. Un esempio? Il viaggio di Alfonso Pecoraro Scanio a Nairobi
per la conferenza internazionale sul clima, a metà novernbre
del 2006. Conferenza che a causa dei condizionatori sparati
a palla sotto i tendoni dei congressisti, come scrisse su «La
Stampa» Gianluca Nicoletti, faceva saltare continuamente la
luce in città. Il ministro dell'Ambiente avrebbe potuto andarci,
come tanti altri, comodamente spaparanzato in una comoda
poltrona in business class di un volo di linea. Scelse invece di
andarci con un Falcon di Stato, dando ospitalità anche a un
gruppetto di giornalisti. Paganti? Sì, ciao. Avvolgenti e spaziose poltrone di pelle. Tavoli di radica. Televisori. Salottino in fondo al velivolo per poter amabilmente
conversare sorseggiando gli aperitivi offerti dai camerieri in guanti bianchi. Bagnetto con porta-carta igienica d'ottone dall'elegante design. Cibi precotti, ovviamente (in attesa d'una collaborazione, chissà , con Gianfranco Vissani) ma serviti su una
tavola imbandita con piatti veri e vini di qualità e accompagnati
perfino da un menu che for se non elencava i manicaretti di
casa Angiolillo (tipo: «Petit clou aux fines herbes» o «Terrine
de esturgeon lumé») ma poco mancava. Qualche riunione, un giro alla bidonville di Korogocho dove un milione di persone vive a ridosso della più grande discarica
maleodorante del mondo, la firma di un accordo di cooperazione
per «realizzare forme di energia rinnovabile», una cena al
Carnivore per abbuffarsi con tutti i tipi di carne dalla zebra al
coccodrillo e complimentarsi (every pittoresco!») coi finti masai,
e poi via verso Il Cairo, per la riunione dei Paesi eurornediterranei.
Con rientro a Roma a bordo dell'ancora più grande e
lussuoso Airbus della presidenza del Consiglio.
Per carità, niente a che vedere con il jet di Vladimir Putin
che, a giudicare dalle fotografie pubblicate dal giornale on-line
«Kommersant», ha deciso di concedersi ciò che si concederebbe
il nipote di Nicola II se l'ultimo zar non fosse stato massacrato
con la famiglia a Ekaterinburg. Sala riunioni da dieci posti.
Grande bagno con doccia, lavandino di marmo e rubinetteria
dorata. Sala relax con tavolo da stiro. Arredamento in radica.
Camera da letto. Salottini da conversazione. Orologi da parete
finemente lavorati in oro zecchino. Tavolini damascati. E
insomma uno sfarzo da maharajah la cui ostentazione in internet
ha fatto fare ai più diffidenti un balzo sulla sedia: oddio, vedere
quel costoso giocattolo di rappresentanza non fa rà venire
l'acquolina in bocca anche a zar e zarine di casa nostra?
5
«Mi dia un'autoblu, tipo Rolls-Royce»
Hanno promesso tutti di tagliar/e, ma sono sempre di più
Sono tenute insieme con lo spago, certe ambulanze della Croce
rossa. Quasi la metà, dice il rapporto di un ispettore della Ragioneria
dello Stato dell'ottobre del 2006, «ha più di vent'anni»
e ha fatto «più di 250.000 chilometri». Eppure i capi dell'organizzazione
sotto la gestione di Maurizio Scelli, il vanitoso commissario
straordinario dell'era Berlusconi, non si sono mai fatti
mancare le autoblu. Nuove. Lussuose. Luccicanti. Mario Guida,
l'autore del rapporto, dice d'averne contate 28 (dopo una
rapida dieta : 3 mesi prima ne figuravano 40!) a disposizione del
presidente, del vicepresidente e dei vertici del Comitato centrale.
Di cui 17 macchine, alla faccia di tutti i volontari che sputano
l'anima per aiutare gratuitamente chi sra male, nella sola sede
romana. E che macchine! «Delle Land Rover, Fiat Doblò, oltre a
un fuoristrada. Diverse di queste autovetture possono classifi carsi
di lusso.x Alcune nuovissime. Comprate nel 2005 nonostante
la legge che obbligava a ragliare del 10% sul 2004. E poi
ancora nel 2006, nonostante una nuova legge imponesse un taglio
alle autoblu di un ulteriore 50%. Non basra. Per rinnovare
il parco macchine, presumibilmente dalle ambulanze alle auto
di rappresentanza, avevano varato un «Progetto flotra moderna
», nominando un'apposita commissione e prendendo perfino
come consulente a 8350 euro al mese una certa Sabrina Spera.
E non basta ancora. A un certo punto, è scritto nel rapporto, sotto gli occhi stupefarti degli amministratori subentrati al commissario famoso in tutta Italia con l'etichetta del «liberatore
delle due Simone», arrivò al servizio una parcella ulteriore:
«La richiesra di una società per il soddisfo di un credito
relativo a consulenze prestate nell'ambito del Progetto flotta moderna.
L'ammontare del credito vantato è di € 185.000 oltre Iva».
li costo di quattro Thesis 2.0 20V Turbo Emblema. Sulla base
di quali riscontri voleva i soldi? Di «documentazione tra l'altro
non effettivamente allegata». E quando era nata, questa bella
«società di consulenza»? Un attimo prima (coincidenza...) che
fosse varato il Progetto flotta moderna. Eppure il rapporto, che in altri Paesi avrebbe fatto saltare per aria ministri , è scivolato via quale acqua nei tombini. Come
se ormai la Croce rossa italiana non facesse più scandalo. Come
se gli italiani dessero in qualche modo per scontato che la Cri,
fondata dal ginevrino Henry Dunant scosso dalla mancanza di
soccorsi ai soldati feriti nella battaglia di Solferino, fosse uno
dei tanti carrozzoni politici. E i politici non hanno forse l'autoblu?
Politica, almeno per contaminazione, era la presidentessa
sto rica Maria Pia Fanfani. Politica Maria Pia Garavaglia, che
prima d'essere nominata commissario era stata ministro della
Sanità. Politico era Maurizio Scelli, che dopo esser stato messo
sotto accusa a sinistra per la «gestione mediatica» del
ruolo dell'organizzazione «Qual è la convenienza a trasformare un'istituzione
umanitaria in una sezione militante del governo?»
scrisse «l'Unità») cercò di rendersi utile fino in fondo al Cavaliere
organizzando a Firenze una convention di giovani devoti
alla destra e promettendo l'arrivo di centinaia di migliaia di fedeli.
Un raduno finito in un rovescio d'immagine catastrofico,
con titoli sui giornali come questo : Flop colossale a Firenze al
raduno di giovani per «Italia di nuovo»: Berlusconi per cinque
ore in prefettura ad aspettare che si riempisse un po' il Palasport.
Carriera finita. E autoblu automaticamente perduta.
«Automaticamente» si capisce, per la Croce rossa. Come
«automaticamente», il giorno stesso in cui lasciava la presidenza
della Provincia di Bolzano, restituì la macchina di servizio
Silvius Magnago, nonostante i 77 anni, il peso di una vita assai
fatico sa, le vecchie stampelle e la gamba mozza perduta in Russia:
«Ci mancherebbe altro, ci mancherebbe. Lo so ben io cosa
mi spetta e cosa no». Ma ci sono orticelli limitrofi alla politica
in cui l'autoblu, arrivato a una certa carica, ti resta vita
natural durante. Anche dopo avere chiuso con quell'esperienza. Come
nel caso non solo dei presidenti ma di tutti e 15 i giudici costituzionali.
Un tempo, quando arrivavano lì sulla velia, erano
vecchi. O almeno anzianotti. Male che andasse, pensarono gli
autori delle regole, si sarebbero tenuti la macchina e l'autista
per qualche annetto e amen. A part ire dal 1986, quando Francesco
Cossiga nominò Antonio Baldassarre che aveva 36 anni e
facev a sbarrare gli occhi ai colleghi raggrinziti raccontando dei
suoi giri in Kawasaki, le altissime toghe sono diventate sempre
più giovani. Risultato: in cambio di un impegno alla Consulta di 9 anni
e 30 giorni, uno come Baldassarre, con l'aspettativa di vita di
un italiano medio, conserverà il diritto a essere portato a spasso
per un totale di 44 anni. Di cui 35 «dopo» avere chiuso con la
magistratura. E il suo caso, in futuro, rischia di moltiplicarsi.
Con allegati alcuni altri privilegi. Quali il dirit to all'autista anche
per chi non è residente a Roma, come la genovese Fernanda
Contri o il torinese Gustavo Zagrebelsky, che dopo aver lasciato
la presidenza è tornato a fare il docente di Diritto costituzionale
all'università. Tanto ci tengono, i giudici, a queste cose, che l'Amministrazione
e Contab ilità della Corre costituzionale ha messo a
punto fin dal 1979 un pignolissimo regolamento di 1309 parole
(per capirci: quante la Dichiarazione d'indipendenza americana)
in cui si specifica tutto. Ma proprio tutto, Comp resi il
diritto all'autoblu anche per il segretario generale. La precisazione
che «ai giudici costituzionali in carica sono assegnati due
autisti; ai giudici emeriti un autista». La nota che sono a carico
della Corte da spesa per custodia in garage e quella relativa a
un servizio completo per ogni mese» più «le riparazioni, i materiali
di consumo, la tassa di circolazione, l'assicurazione ob bligatoria
di responsabilità civile, l'assicurazione per furto e incendio e il soccorso stradale» più le «spese per il rinnovo e il bollo delle patenti degli autisti» e perfino le seguenti cose:
«Olio motore e relativo filtro, candele, paraflu, acqua distillata,
lampadine di scorra, spugna, piumino e pelle di daino». La
pelle di daino! Vi chiederete: ma perché i politici non cambiano la legge
spazzando via queste vergogne? Semplice: perché usano i giudici
più alti in grado come il paragone con cui confrontare se
stessi. Più privilegi hanno loro, più privilegi hanno a strascico i
deputati e i senatori. Basta scorrere l'elenco dei presidenti del
passato, del resto, per vedere come la Suprema Corte e il Parlamento
e il governo siano sempre stati vasi comunicanti. Enrico
De Nicola è stato anche presidente della Repubblica. Leonetto
Amadei e Giuliano Vassalli deputati socialisti. Francesco Paolo
Bonifacio e Leopoldo Elia (di cui si narra non abbia mai dato
alle stampe un libro in versione definitiva ma solo provvisoria)
senatori della Dc. Mauro Ferri eurodeputa to socialdemocratico.
E così via. Ma è giusto così? Il primo a rispondere di no e a impegnarsi
per limitare il numero crescente di autoblu, fu addirittura
Benito Mussolini. Lo dice una lettera del 7 marzo del 1923
mandata al sottosegretario agli Interni Aldo Finzi dal ministro
del Tesoro Alberto De Stefani: «Per preciso ordine ricevuto dal
presidente del Consiglio ho disposto che rimangano in servizio
presso codesto ministero 3 auto: una per te, una per Acerbo e
una per S.E. il generale De Bono. Attualmente risultano in uso
16 vetture: di esse 13 dovranno dismettersi entro domani sera».
Macché, hanno continuato a crescere. Nonostante le solenni
promesse ribadite in tempi recenti da Carlo Azeglio Ciampi,
Silvio Berlusconi, Romano Prodi. Al punto che le 12.000 autoblu
censite anni fa dal «Messaggero» continuarono a salire e salire
e salire. Finché il Codacons, il Comitato di difesa dei consumatori,
denunciò l'esistenza nel '98, in tutta la Penisola, di almeno
40.000 unità. Comprese 11 dell' Istituto nazionale per la
fauna selvatica, 6 dell'Istituto superiore per l'elaiotecnica, 5 della
Stazione sperimentale del sughero.. E’ diventata via via così scontata l'idea che l'autoblu sia un benefit contrattuale, che qualche anno fa il sindaco di Rozzano
Enrico Sala la usava per andare a giocare al casinò di Saint Vincent. Il vicesindaco socialista di Reggio Emilia Giovanni Chierici decise di andarci in vacanza con la moglie e un paio di
amici in Polonia, cosa che non si sarebbe mai saputa se la
macchina di servizio non fosse uscita distrutta da un incidente. Il
magistrato vicentino Luigi Rende se la cavò con una semplice
censura dopo aver usato l'autoblu per far recapitare zibellini e
astrakan alla pellicceria della moglie in un'area pedonale, cosa
smascherata da una sfilza di multe. E un paio di reggipanza lasciati
liberi dal «loro» parlamentare arrivarono al punto di ano
dare una sera, a Milano, a raccogliere due travestiti brasiliani in
via Melchiorre Gioia. Beccati da una pattuglia di agenti con
una calza in una mano e un reggiseno nell 'altra, dissero: «Le
abbiamo raccolte perché si erano sentite male».
Certo, ogni tanto una ripulita qua e là c'è. La Regione Friuli,
per esempio, non ha più nel parco macchine la Lancia Thema
destinata al trasporto di un magistrato, il dottor Sebastiano
Cossu, che faceva il «Responsabile dci Commissariato Liquidazione
Ufficio Usi e Costumi». Un ente in liquidazione dal 1927,
l'anno in cui Charles Lindbergh compiva il primo volo in solitaria
sull'Atlantico a bordo dello Spirit Saint Louis, Trockij
veniva espulso dal Pcus e il cinema muto vedeva l'esordio di
Stanlio e Ollio. E l'aver approfittato della macchina di servizio
per farsi portare a Bari dove doveva imbarcarsi con la moglie
per una crociera è costato il posto, dopo un estenuante tormentone
di condanne e di ricorsi, al sindaco di Messina Giuseppe
Buzzanca. Per il quale, a battaglia giudiziaria ormai perduta, si
mosse addirittura il governo delle destre varando in tutta fretta
una leggina ad personam (poi bocciata dalla Suprema Corte)
che a babbo morto aboliva l'ineleggibilità del nostro uomo sta bilendo
che la legge che impedisce ai condannati per peculato di avere cariche pubbliche valeva per il «peculato di appropriazione » (quando ti impossessi di una cosa per sempre) e non per
il «peculato d'uso»: in fondo il primo cittadino peloritano mica
si era fregato la macchina per l'eternità... L'andazzo, però, è continuato come prima e peggio di prima: 115 autoblu a Palazzo Chigi (per una spesa che nel 2005 è
stata di 2.152.000 euro: più del doppio rispetto a1200l), 37 alla
Camera, migliaia e migliaia sparse per regioni e province, comuni
e consigli circoscrizionali (ne parleremo più avanti), municipalizzate
e società miste pubblico-private. Basti dire che la «rossa»
Regione Campania ha speso nel 2004 per la gestione
dell'intero parco automezzi e le «tessere Viacard con servizio
Telepass» 2.120.000 euro: 3 12.410 più di quelli che aveva speso
due anni prima. O che l'«azzurra» Lombardia, per le sole macchine
di servizio è arrivata a sborsare nel 2005 otto volte di più
che nel 2000: 1.250.000 euro contro 154.000. Per carità, siamo nonostante tutto lontani dalla grandeur megalomane del leader libico Muammar Gheddafi, che alla fine
di gennaio del 2007 si presentò al vertice dell'Unione Africana
ad Addis Abeba con due valigie piene d'oro «Un regalo
del nostro leader ai capi di Stato africani» spiegarono i diplomatici
al seguito) e facendosi precedere da alcuni cargo caricati
con 15 lussuosissime autoblu personali. Ma è fuori discussione
che il virus ha via via infettato anche un sacco di «moralizzatori
». Come i leghisti. Arrivarono al punto di presentare, nel
1993, un progetto di legge per abolire le Croma, le Mercedes,
le Bmw da sostituire con Panda, Cinquecento, Renault 4 e Fiat
Uno: I potenti devono viaggiare in utilitaria». Come sia finita è sotto gli occhi di tutti. Alessandra Guerra, la friulana che pareva destinata a una gran carriera prima di
schiantarsi nella sfida per la presidenza regionale con Riccardo Illy, sospirò un giorno: «È vero che noi della Lega per anni abbiamo dato battaglia su questa cosa. Ma per una donna e una mamma come me, diciamo la verità, l'autoblu è una bella comodità.Non so come farei, se non venissero a prendermi a casa tutte le mattine». Va da sé che, quando passi tutta la vita in
autoblu, diventi esigente. Com'è accaduto nel gennaio del 2007
agli amministratori regionali del Veneto. Una Lancia Thesis 2.4 JTD full optional coi sedili in pelle? «No 'a me piase.. .» Una Concept Volvo XC60 full optional coi
vetri oscurati e il navigatore satellitare e tutto il resto? «No 'a
me piase...» Una bella Volvo S80 2.4 D5 (l85 CV) Summum?
«No'a me piase...» Una Lexus GS? «No 'a me piase...» Una
Volkswagen Passat 2.5 V6 TDV 180 CV Var 4m H.line? «No 'a
me piase, no 'a me piase.. .» Niente da fare: non c'era una sola
ammiraglia o una sola berlina di lusso che piacesse a Giancarlo
Galan e ai suoi 12 assessori. L'ideale, certo, sarebbe stata una Rolls-Royce Silver Seraph
Park Award da 309.000 euro. O una Lamborghini Murcielago
da 259.000. O almeno una Bentley Continental GT Diamond
Series da 206.000. Quelle sì, sarebbero state all'altezza di un
Eccellentissimo Onorevole Signor Assessore della Regione Veneto.
Ma sono anni di vacche magre. Così, nell'incessante dedizione
al bene collettivo , hanno deciso di rinnovare il parco
macchine puntando al risparmio. E rinunciando parsimoniosi
ai sedili di zibellino o alle maniglie d'oro, si sono accontentati
d'una flotta di auto superlusso che raggiungono i 300 chilometri
all'ora. L'ideale, per mettersi in coda negli ingorghi.
Eliminate le 15 «vecchie» Lancia Thesis 2400 turbodiesel,
versione executive da 185 cavalli (costo del noleggio complessivo
nel 2004 per 75.000 chilometri l'una: 424.800 euro) e scartate
come pidocchiose utilitarie tutte le auto dai 1800 ai 2500
centimetri cubici altrove utilizzate anche da re, regine e capi di
governo, i neodogi veneziani hanno puntato il dito su una precisa
categoria di vetture. Con una tale accuratezza nello specificare
i dettagli che nel bando della gara d 'appalto mancavano
soltanto i colori della tappezzeria, le preferenze sulle casse acustiche
o il tipo di musica da diffondere in viaggio. Interpretando a modo loro la legge europea, che non consente di pretendere questa o quella marca, gli amministratori veneti
spiegavano tutto ma proprio tutto. Volevano a noleggio per
24 mesi (stanziamento: 436.800 euro più Iva) 13 «grandi berline» che avessero come «cilindrata: 3000 c.c. circa» e «alimentazione diesel» e «trazione integrale» e «lunghezza non inferiore a 480 cm» e «larghezza non inferiore a 180 cm (riferita alla vettura senza retrovisori)», E poi, «a pena di esclusione dalla gara» , il navigatore satellitare e la «selleria in pelle» e il «climatizzatore automatico» e i «sensori di parcheggio» e la «presa accendisigari
posti posteriori» e i «cristalli laterali e lunotti scuri» e la «tendina
parasole lunotto posteriore» e via così. In pratica: come fare formalmente
una gara d 'appalto per un cantante rock chiedendo un artista romano nato in borgata che abbia vinto Sanremo, sia famoso in Sud America, abbia sposato una show-girl bionda di
nome Michelle, sia divorziato e abbia nel repertorio Una terra
promessa. E chi può essere, se non Eros Ramazzotti? Che senso
hanno, appalti così? Una presa per i fondelli. Conclusione: non c'era una sola auto italiana che rispondesse a quelle caratteris tiche. Di più: la scelta si restringeva a
una manciata di macchine di lusso dell'Audi, della Bmw, della Mercedes e della Volkswagen. Domanda: non potevano, il governatore e i suoi 12 apostoli, accontentarsi di ciò che altrove
soddisfa pienamente i loro pari grado? No, rispondeva la delibera.
La trazione integrale, per esempio, doveva servire a «migliorare
in modo significativo la sicurezza attiva» e assicurare non solo «un migliore comfort» grazie al «controllo del beccheggio e del rollio» ma «una miglior conduzione e controllo
del veicolo anche in condizioni di strada con scarsa aderenza». Che se ne facevano, di macchine che corrono a 300 l'ora, se il Veneto è da anni una immensa area urbana coi limiti di velocità a 50 all'ora e se da Padova a Bassano i navigatori prevedono una media di 41 chilometri all'ora perché ogni giorno è intasata da 65.000 auto e tir e se la tangenziale di Mestre è invasa quotidianamente da 140.000 veicoli con punte di 180.000 e
se insomma le strade sono spesso un gigantesco ingorgo? Boh...Questione di status, probabilmente. Certo è che il capriccio motoristico della giunta, oltre che alle opposizioni e a larga parte dell'opinione pubblica, non piacque a un po' di vescovi veneti, che già avevano arricciato il naso quando i consiglieri regionali, pochi giorni prima, si erano messi al sicuro la vecchiaia autoaumentandosi le pensioni. I giudizi pubblicati dal «Corriere del Veneto» erano pesanti. li padovano monsignor Antonio Mattiazzo, dopo aver invitato i politici a «uno stile di vita ispirato a sobrietà e solidarietà», insisteva che «non va seguito il profitto individualistico fine a se stesso ma la promozione del bene comune». il rodigino
monsignor Lucio Soravito De Franceschi bacchettava: I compensi eccessivamente alti dei politici sono una vera e propria ingiustizia nei confronti dei tanti che non sanno come arrivare
a fine mese». E il vescovo di Vittorio Veneto, monsignor Giuseppe Zenti, ammoniva: «La Chiesa non è indifferente a questa corsa a chi arraffa di più. Chi amministra ha il dovere
di farsi un forte esame di coscienza: cosa li ha indotti a scegliere la politica? In funzione di che cosa sono lì? Solo per mantenere un posto di lavoro ad alto livello? E se fare politica dev'essere finalizzato al bene della società, perché aumentarsi stipendi e pensioni o utilizzare auto di rappresentanza più costose? Bisogna intervenire per calmierare questa tendenza. Parlo da vescovo, ma anche da cittadino: chi governa deve riflettere. Pensioni e stipendi che lievitano , autoblu e altri privilegi... Se fossi un politico mi vergognerei». E allora? «Cittadini svegliatevi. Dovete far sentire la vostra voce, ribellarvi. E se gli amministratori si comportano in questo modo , lo strumento della gente per cambiare le cose è di non votarli più.»
Letta la cosa, il «Galan Grande» , come viene chiamato il voluminoso governatore veneto, diede in escandescenze: come si permettevano di toccargli i giocattoli? E sparate un paio di
bordate contro il «Corriere» e i suoi cronisti (uffa, i moralisti ! ), sganciò un siluro dritto dritto contro i vescovi. Titolo dell'iroso comunicato: «La befana delle autoblu, il cronista fifty-fifty del giornale fù prodiano e quei tre vescovi dediti al peccato dell'ira e dell'arroganza». Dove diceva tre cose. 1) Che la vecchia autoblu lui l'aveva spremuta «fino a quando il mezzo ha raggiunto i 300.000 chilometri». 2) Che quella delle macchine esageratamente lussuose era «una storiella». 3) Che dietro le denunce c'era (e ti pareva) un «burattinaio» impegnato in una «campagna d'inverno, probabilmente organizzata per anticipare le prossime scadenze elettorali in Veneto». La parte più interessante dello sfogo galaniano, però, era quella in cui il governatore azzurro, verso la fine, attaccava i vescovi.
Chiudendo con parole che, se fosse trapanese e non padovano, gli avrebbero guadagnato una vignetta con la coppola. Testuale, su carta intestata: «Ai tre vescovi che il quotidiano filoprodiano presenta e fa parlare come persone in preda all'ira e al più savonaroliano livore, farò pervenire nei prossimi giorni una proposta di rigoroso e severo risparmio, da attuarsi a spese del sociale e di tutte quelle altre emergenze, urgenze e necessità
di tipo solidaristico che la Regione del Veneto meglio e più di
altre Regioni finanzia da anni». Cosa cosa? Voleva forse dire che per mettere in riga chi criticava il rifiuto di normali, belle e dignitose berline nel nome delle auto più costose sul mercato dopo le Bentley e le RollsRoyce, lui avrebbe risparmiato per dispetto sui fondi alle organizzazioni no-profit , ai centri che aiutano i disabili, all e associazioni che assistono gli anziani o i ragazzi alla deriva? Proprio così. Chiosa finale: «Sono certo che dal restante mondo cattolico del Veneto verrà data a quei tre vescovi la risposta che si meritano».
«Una risposta intimidatoria e indecente» disse subito don Albino Bizzotto, il prete padovano alla testa dei «Beati i costruttori di pace». I tre vescovi, invece, si divisero. Il padovano
Mattiazzo spiegò che sì, aveva detto quelle cose ma in un diverso contesto. Il rodigino De Franceschi confermò tutto. Il vittoriose Zenti innestò la retromarcia: per carità, mai detto niente di simile, ci mancherebbe, tutto inventato. Quanto bastava perché, ripresa la palla (mentre alcuni sindaci veneti menavan vanto di esser passati da auto più grosse ad auto più piccole e qualche assessore regionale si chiamava fuori) Giancarlo Galan ringhiasse contro l'«oceano di malafede» e facesse un sorrisone alla Chiesa. Tagli? Quando mai! L'«accenno polemico al sociale» era stato fatto solo «per ricordare a tutti il grande impegno della
Regione del Veneto a sostegno della galassia del sociale. Figurarsi se la Regione cambia la propria politica in un settore da noi ritenuto fondamentale a seguito di assurdità giornalistiche
assolutamente strumentali. Così colgo l'occasione per ribadire che poche altre Regioni offrono altrettanta qualità nei servizi territoriali di quella garantita dalla nostra Regione. Tra volontariato, disabilità, dipendenze, case di riposo, minori, immigrati e
vari sostegni alla scuola, non escluse le scuole paritarie, la Regione
del Veneto investe oltre 740 milioni di euro. Ripeto: 740
milioni di euro». E che saranno mai, 436.000 euro per affittare
un paio di anni 13 belle macchine? Ma sì, diamoci un taglio: Il
macchine invece di 13. Contenti, criticoni?
Pochi giorni prima, i commensali riuniti intorno alla tavola
imbandita di una casa veneziana, avevano ricevuto una telefonata:
«Scusate, sono Mario . Siamo in ritardo perché c'è un sacco
di traffico e siamo in coda per entrare al parcheggio di piazzale
Roma». «Ma no, Mario, sbagli. Togliti da là e fai così...»
Accolto il consiglio degli amici, «Mario» si era sfùato dalla
coda, era tornato indietro al Tronchetto, aveva lasciato la macchina
in parcheggio e da lì con la moglie e i cognati aveva preso
un taxi. Era Mario Draghi, il governatore della Banca d'Italia.
Successore di quell'Antonio Fazio che avrebbe usato l'aereoblu
anche per andare in tabaccheria. Ma come? E tutte le pensose
chiacchiere sull'autoblu e la scorta e il diritto di precedenza e il
lampeggiatore sulle macchine assolutamente in-dis-pen-sa-bi-li
per motivi di sicurezza? Giudicate voi...
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Seggi lasciati agli eredi come case o comò
La Loggia e Mancini, Craxi e Di Pietro, al potere per dinastia
«Parlamentari, cattedratici, fun zionari di banca! Ai vostri figli
non la zappa ma la penna, non la pala ma un quaderno, non
una battona periferica ma una supergirl !» La stralunata invettiva
dell'immenso avvocato Aldo Ceccarelli, «er principe der Foro
romano» che diventò famoso difendendo i coatti che avevano
rotto la fontana di piazza Navona «Preside': era fracica !») e
che aspetta i clienti accasciato su una panca del tribunale e si
catapulta nelle arringhe «ne l'aringa er rnejo, me l'ha 'mparato
un compaesano ciociaro, Cicerone») sventolando l'oceanica toga
nera su camicie a rigoni unte di dentifricio, acciughe e pommarola,
riassume un comune sentire. L'idea che i politici, più
ancora che gli avvocati, i farmacisti, i notai, i medici e i giornalisti
avanzino nella società per discendenza dinastica.
Ed è proprio così. A volte sembrano marciare battendo il
passo con le strofe di Vecchia pelle, una canzone del Ventennio:
«Per i figli, pei nipoti ci battiam su tutti i fronti...». Da sempre.
Basti ricordare Antonio Gava, che ereditò seggio, clientes, potere
e poltrona ministeriale dal padre Silvio . Massimo D'Alema,
avviato fin da giovine pioniere alla carriera parlamentare da
pa pà Giuseppe il quale, dopo aver inneggiato in gioventù agli
italiani «ferocemente desiderosi di dittatura», era diventato deputato
comunista. Antonio Martino, figlio di quel Gaetano che
fu ministro degli Esteri negli anni Cinquanta (nonché cugino di
Franco, già presidente della Regione Sicilia e nipote dell'onorevole
Carlo Stagno d'Alcontres e cugino di suo figlio l'onorevole
Francesco). Giorgio La Malfa, rampollo del vecchio Ugo, uno
dei pochi che tentò a suo tempo di mettere un freno a certi sprechi
ma non riuscì a metterlo alle ambizioni del figliolo.
E che dire di Enrico La Loggia «il Minore»? Si lagna da anni
dell'Italia «che abbiamo ereditato» come se lui si fosse improvvisamente
affacciato alla politica dopo essere sceso da Marte.
E dimentica che il fratello del bisnonno, Gaetano, fu ministro
sotto i Borbone. Che il nonno Enrico «il Maggiore», liberale
socialisteggiante alla Nitti, fu sottosegretario nel gabinetto di
Luigi Facta e dopo il fascismo padre dello statuto di autonomia
siciliano. Che il papà Giuseppe fu due volte presidente della Regione
e quattro volte deputato a Montecitorio. Tutti «al servizio
della collettività». Di generazione in generazione.
È qui una delle prove inconfutabili di come la politica italiana,
al di là dei distinguo, sia diventata una Casta: nella trasmissione
del potere. A prescindere dall'appartenenza alla destra o alla sinistra. E figlia d'arte Maura Cossutta, a lungo in Parlamento accanto al vecchio Armando, per questo liquidato
da Marco Rizzo con una battuta sp rezzante: «Quando Ingrao
vide che la figlia stava per entrare alla Camera, lasciò. li comunismo
non può fare rima con nepotismo». Lo è Eva Klotz, da
decenni consigliera provinciale (e regionale, ovvio) altoatesina
ed erede di Georg «il Martellatore della Val Passiria». Lo è Rosetta
Russo Jervolino, che come abbiamo visto è stata al governo
nella scia non solo del papà Raffaele, più volte ministro, ma
pure della mamma Maria de Unterrichter, già sottosegretaria.
E ci sono stati i nipoti d'arte come Luca Danese, eletto col
Polo in omaggio a zio Andreotti. Pronipoti d'arte come le due
cugine omonime Anita Garibald i, candidate per l'una o l'altra
sponda. Cognati d'arte come Paolo Pillitteri, che avendo sposato
la sorella di Craxi fu promosso sindaco di Milano prima di
schiantarsi su Tangentopoli o, sul fronte opposto, Gabriele Cimadoro,
che ai tempi del mito di Di Pietro veniva invitato ai
convegni con tanto di maiuscole: «Suo Cognato». Vedove d'arte
come Vincenza Bono Parrino, la mitica ministra dei Beni culturali
che aveva ereditato il seggio senatoriale dal marito Ciccio
come fosse un comò. E perfino generi d 'arte, come Marco Ravaglioli,
candidato senza fortuna nel '94 contro Francesco Storace
quale marito di una figlia di Zio Giulio. Un ruolo con un
precedente famoso e tragico: quello di Galeazzo Ciano. Che
avendo sposato Edda Mussolini si beccò per l'eternità un nomignolo
portentoso: «Generissimo». il più volte ministro Sergio Mattarella è figlio di Bernardo,
presidente regionale e ministro pure lui. Carlo Vizzini, ministro
e segretario del Psdi travolto da Mani Pulite prima di riciclarsi
come parlamentare di Forza Italia, è figlio di Casimiro, senatore
di largo seguito elettorale. Francesco Musotto, presidente
della Provincia di Palermo, è figlio di Giovanni, ex deputato
Psi. Claudio Scajola, ministro degli Interni berlusconiano dopo
essere stato sindaco di Imperia, è figlio di Ferdinando (sindaco
prima di lui) e fratello di Alessandro, lui pure sindaco e poi deputato
democristiano.Mauro Pili, voluto dal Cavaliere alla presidenza
della Sardegna, è figlio di Domenico, un feudatario delle
tessere Psi abbattuto da una condanna per tangenti. Raffaele
Fitto, imposto giovinetto alla guida della Puglia, è figlio di
Totò, a sua volta presidente della Regione. Giuseppe Cossiga,
deputato azzurro, è figlio di Francesco, già presidente della Repubblica,
il quale a Montecitorio ha pure il nipote prediletto
Piero Testoni. Come di un altro presidente, Antonio Segni, è figlio
Mariotto, deputato alla Camera e a Strasburgo e storico
leader referendario. Per non dire di Alessandra Mussolini, che
ha fa tto del cognome la sua ragione sociale e politica.
Gli storici di domani registreranno che alle elezioni del
2006, tra tanti figli e cugini e nipoti, entrarono in Parlamento
due coppie addirittura della stessa famiglia. Una composta dal
segretario diessino Piero Fassino e dalla moglie Anna Serafini,
l'altra dai fratelli Alfonso e Marco Pecoraro Scanio. In entrambi
i casi, guai ad ammiccare alle parentele. Da una parte, si ribella
Anna, giurando di averci rimesso: «Ci siamo incontrati
che io facevo politica già da vent'anni. Ero deputata, ero presidente
delle cinquanta parlamentari del Pci-Pds, ero nel direttivo
quando ancora Piero non aveva gli in carichi che ha ora».
Dall'altra, all'accusa di «fratellismo» si ribella Alfonso, che ricorda
come Marco, che faceva il calciatore e arrivò a giocare
anche in serie A, fosse un tempo molto più famoso: «Lui era
sulle figurine Panini quando io non ero neppure consigliere regionale
in Campania». A candidare il fratello (stoppato allora da Ciriaco De Mita:
«Se lo facevamo noi nella Dc succedeva un putiferio») ci aveva
già provato alle elezioni del 2001. Fallito il primo blitz, gli riuscì
il secondo nel 2006, blindando il caro congiunto in due circoscrizioni
sicurissime per il Senato. Una vergogna, dissero alcuni
verdi dissidenti e schifati. Lui, il leader, non fece una piega.
Men che meno Marco, che disse a Fran cesco Battistini del
«Corriere»: «Sono contento d'avere un fratello che sa farsi rispettare.
Non vedo dov'è lo scandalo. Io nasco calciatore. Da
qualche anno, c'è un leader del centrosinistra che mi stima e mi –
vuole candidare». «E normale che la stimi: siete fratelli!» «Non
è normale. Lo sa che certi fratelli si odiano? Io quasi non sapevo
d 'averlo, un fratello. E adesso stanno tutti qui a criticare,
quando invece è Alfonso ad averne un vantaggio.» «Alfonso»
«Sì. Riceve il sostegno di una persona che in fondo ha lasciato
qualcosa, nello sport e nelle città in cui ha giocato. Sono io che
lo sostengo nelle battaglie, non è lui che appoggia me.»
Che certi fratelli non si stimino, per usare un eufemismo, è
vero. Si pensi ai due figli di Bettino, partendo da un'intervista
di Stefania contro i «giustizialisti rossi»: «Non posso negare che
mi fa una cena impressione vedere mio fratello, un Craxi, che
si allea con tutti i nemici che gli hanno massacrato il padre».
Una tesi che Bobo potrebbe rovesciare pari pari. Ricordando
come Silvio Berlusconi sia lo stesso che, dopo essere stato benificiato
in tutti i modi dal «Cinghialone», non lo andò a trovare
neppure una volta ad Hammamet e ai tempi in cui Antonio Di
Pietro era sugli scudi come «giustiziere» dei corrotti (e dei socialisti)
gli mise «a disposizione» i suoi giornali e le sue televisioni
e gli offrì il Viminale. Per non dire di Gianfranco Fini che
bollava l'ultimo governo della Prima Repubblica come un «governissimo
dei ladroni». O di Umberto Bossi che chiamava il segretario socialista «Bottino Crassi».
Fatto sta che i due, dopo aver premesso in una sfilza di in terviste
«non parlo di mio fratello» e «non parlo di mia sorella », hanno finito per ritrovarsi, nella XV legislatura, dentro la stessa aula di Montecitorio. Lei sui banchi di Forza Italia, lui su
quelli del governo nel ruolo di sottosegretario agli Esteri, avuto
come risarcimento dopo aver rotto con Gianni De Michelis ed
essere stato trombato alle elezioni. Che sarebbe finita così potevate scommetterei. E da quando era un ragazzone lungo lungo e rivendicava lo stesso sangue di quel padre così ingombrante ma facendosi insieme piccin piccino «Se non altro abbiamo lo stesso numero di scarpe») che Bobo, il quale porta all'anagrafe il nome del nonno, Vittorio,
è stato spinto alla politica. AI punto che papà lo fece segretario
del Psi milanese quando ancora aveva i brufoli. E lo coinvolse
in tutta una serie di società che via via gli sono rimaste
per anni (ora è tutto in liquidazione) appiccicate addosso. E
Bobo era azionista con 1'84% dell'azienda agricola Campiglia
Srl col cugino Stefano Pillitteri, figlio dell'ex sindaco di Milano
Paolo, e poi col 25% dell'immobiliare Villaeuropa Srl, proprieta
ria della villa di Hammamet e poi a150% dell'immobiliare
Dafin Srl col segretario particolare di papà Cornelio Brandini e
via così, di società in società. Ed è da quando era una bella ragazza bionda e grintosa che
Stefania, a sua volta detentrice di azioni in altre società della
galassia craxiana, ha avuto la strada in discesa: dalla segrete ria
di produzione della Fininvest alla creazione di una «sua» casa
(Italiana Produzioni) fondata col marito Marco Bassetti grazie
a un fido dell'Istituto bancario italiano, guidato allora da Giampiero
Cantoni, prima socialista e poi senatore di Forza Italia.
Partito che, per diretta intercessione del Cavaliere, ha innovato
la storia patria portando in Parlamento, dopo figli e nipoti e
cugini, anche una moglie separata che aveva del tempo libero:
perché dovrebbe pagare gli alimenti il marito se ci può pensare
lo Stato? E così, sugli scranni di Montecitorio, è finita Mariella Bocciardo,
la prima moglie di Paolo Berlusconi. Così fortissimamente
voluta che, per fa rle posto tra gli eletti della «Lombardia
1», si sono fatti cavallerescamente da parte, optando per altre
circoscrizioni, tutti quelli più votati di lei, dall'ex cognato Silvio
a Giulio Tremonti a Sandro Bondi. Dopo il divorzio e prima
di intraprendere la professione di «funzionario di partito»
(così ha scritto nella scheda parlamentare), la piacente Mariella
si era cimentata in varie attività. All'inizio un negozio di estetista.
Poi una società di gestione di centri benessere. Poi un ristorante,
il Mangia e Ridi di Milano. Venduto nel 2001 a una
società (oggi in liquidazione) con dentro l'ex marito, l'amministratore
delegato del Milan Adriano Galliani e il parlamentare
di Forza Italia P aolo Romani, già sottosegretario alle Comunicazioni
nel governo Berlusconi. Un piacere in famiglia. Il ristorante
perdeva un sacco di soldi: 180.000 euro l'anno. Molto
meglio che l'ex cognata si dedicasse ad altro. La politica, magari?
A Roma! A Roma! Anche Giacomo Mancini fu Pietro fu Giacomo aveva quel
sogno: vedere il nipote Giacomo, figlio di Pietro, diventare deputato.
Il giorno in cui compì i suoi 85 anni, nella primavera
del nuovo secolo, comprò perciò una pagina di giorn ale, rivendicò
che con lui ai Lavori pubblici la Salerno-Reggio era stata
fatta in un pugno d'anni, ricordò che con lui alla Sanità era arrivato in Calabria il vaccino Sab in, sottolineò che lui mai s'era infognato nelle risse tra i ruderi del Psi. E chiuse: «Auguri a me per il mio compleanno e a tutte le vostre famiglie». Seguiva il
facsimile: «Vota alla Camera, scheda proporzionale, Marco
Minniti e Giacomo Mancini» «Oibò: a Giacomino manca il "jr" ! » Si diedero di gomito i
calabresi. In effetti Giacomo «il Giovane», un avvocatino non ancora trentenne, consigliere provinciale, s'era tirato dietro per anni il «junior». L'aveva perfino sul campanello e nella firma: «Giacomo Mancini jr». Che il nonno glielo avesse tolto fu perciò,
per lui, come ricevere le chiavi di casa: vai! Eletto alla Camera, cosa che non era riuscita al papà Pietro nel '94, il giovanotto ha da allora tappato un buco. Di Giacomo
in Pietro e di Pietro in Giacomo, quella dei Mancini è infatti la
dinastia politica, Savoia a parte, più longeva d'Italia.
Giacomo I , un bersagliere «biondo e bellissimo», portò i
Mancini dentro la storia patria quando varcò nel 1870 la breccia
di Porta Pia. Era un contadino di Malito, un paese calabrese,
diventò socialista convincendo i suoi a pagare le raccoglitrici
di castagne con la metà e non più un terzo del raccolto, fece
13 figli e quello che gli riuscì meglio fu Pietro. Il quale, laurea-to
in Legge, e anche in Filosofia con Antonio Labriola, diventò
il primo deputato socialista calabrese.
Era il 1921. Giusto il tempo di pronunciare una durissima
requisitoria sui torti romani verso la Calab ria e, chiuso il Parlamento,
venne mandato al confino. Due decenni di vuoto. E poi
rieccoli, i Mancini. Raddoppiati: il figlio Giacomo, futuro ministro
e segretario socialista alla Camera per la prima delle sue 10
legislature, il vecchio Pietro al Senato. Ancora più forte e valente
che pria. Al punto che, alla vigilia del 18 aprile, morì, fu
pianto e risorse. Direte: possibile? Possibile. Stava facendo a
Vibo Valentia un comizio torrenziale quando passò un frate
con processione salmodiante di disturbo. Cosa disse Pietro non
si sa. Ma il giornale diocesano «Parola di Vita» scrisse che il
vecchio socialista , alla vista del pio corteo, aveva smoccolato
contro il papa e i preti al punto che il buon Dio, di lassù, l'aveva
fatto secco. Una balla. Ma sancita il giorno dopo dal vescovo
di Crotone, che commemorò il morto additando la sua fine come
esempio per tutti i rossi. Finché da Reggio Calabria, dove
erano apparsi manifesti che ridimensionavano la cosa dicendo
che comunque il peccatore era stato colpito da paralisi perpetu
a e perdita della parola, partì un telegramma che diceva:
«Compagno Mancini, venga senza meno. Stop. Urgentissimo
smentire punizione celeste».
Mezzo secolo dopo, nell'autoaugurio di buon compleanno
in cui si appellava ai «suoi» calabresi perché eleggessero il nipote,
Giacomo «il Vecchio» benediva i parroci: «Il loro aiuto è
stato di grande importanza, soprattutto nei quartieri popolari» .
Il mondo è cambiato, intorno. È cambiata la Calabria rossa che
vide occupare le terre e nascere e morire in tre giorni la Repubblica
popolare di Castrovillari. La Calabria fidelis secolarizzata
da troppa assistenza, troppa tivù, troppe clientele. La Calabria
dalle coste vergini sventrate dall'abusivismo. Solo i Mancini sono
rimasti al loro posto. Saldi e immutabili attraverso trionfi,
processi, riabilitazioni , declini e nuove resurrezioni. Senza imbarazzi,
come spiegava prima di morire il vecchio Giacomo ,
che già aveva installato al Comune il figlio Pietro, «il migliore
di tutti noi Mancini, costretto ad andarsene perché aveva
tenta-to di portare pulizia. Di che mi dovrei imbarazzare: che siamo
una famiglia che s'impegna per la Calabria? Hai voglia di fare il
nonno, se il nipote non vale!».
Capiamoci: niente di nuovo sotto il sole. Lo ricordava già,
ai suoi tempi, il cardinale Enea Silvio Piccolomini diventato papa
col nome di Pio II: «Quand'ero solo Enea nessun mi conoscea
ora che sono Pio tutti mi chiaman zio». Perfino l'uomo
che era venuto fuori di prepotenza per rovesciare il mondo della
politica e «fare piazza p ulita di tutti i magna magna», cioè
l'Umberto Bossi, non ha poi resistito alla tentazione di ipotizzare
una successione «in famiglia» con la pubblica investitura
del figlio, portato al balcone in pubblica ostensione per la folla
in delirio e benedetto con un'intervista al «Corriere»: «Dopo
di me verrà mio figlio Renzo», Idea che la corte leghist a, vergine di servo encomio, applaudì calorosamente: «E la cosa più naturale del mondo» disse Roberto Calderoli, «Renzo è la fotocopia del papà, se lo facciamo crescere, avremo un ottimo cavallo da corsa». «La Lega prima che un partito è un modo di essere, quindi è naturale che un
padre voglia trasmettere i propri valori ai figli» confermò fervente
Roberto Castelli, «conosco bene i figli di Bossi, Renzo è
un ragazzo eccezionale e noi abbiamo bisogno di giovani in
gamba.» Al che saltò su Riccardo Bossi: «E io?».
C'è da capirlo. Lui, il primogenito che il Senatùr aveva avuto
dal primo matrimonio si era dovuto accontentare di molto
meno: un posto da «assistente accreditato» al Parlamento europeo,
al seguito di uno dei più fedeli collaboratori del papà,
Francesco Speroni, il controllore di volo promosso ministro per
le Riforme istituzionali nel Berlusconi I e reso indimenticabile
dalle cravattine texane e dalle giacche fucsia. Un posticino piuttosto
buono: per gli attaché (possono essere uno o due) ogni deputato
della Ue riceve infatti 12.750 euro. Pari a 24.687.000 di
vecchie lire. Al mese. Ma vuoi mettere il ruolo di delfrno designato a raccogliere
l'eredità politica? Tanto più che un regalo uguale identico (questa
volta come assistente di Matteo Salvini) il babbo non l'aveva
fatto solo a lui ma anche allo zio, Franco Bossi, fratello del
leader leghista che un tempo tuonava contro «ogni forma di
clientelismo» e di «favoritismi clientelari». Invidioso, Riccardo
contattò dunque il «Corriere» per proclamare che lui, alto,
grosso, mascellone, sopracciglia folte, vestito blu, occhiali neri,
un impasto tra il Senatùr e il Dan Aykroyd dei Blues Brotbers,
era il vero erede: «Sa» spiegava Maruska, la sua vistosa fidanzata
bionda, «hanno scritto che non è stato preso in considerazione
per la successione... Era , necessario che dicesse qualcosa di
inerente. E un equivoco. E poi, diciamo che più ancora che il
segretario è il popolo leghista che vorrebbe vedere nel successore
di Bossi un altro Bossi». Lui sbuffò seccato che gli era veramente dispiaciuto l'essersi
ritrovato sul «Corriere» per quell'assunzione alla Ue:
«Con tutte le clientele che ci sono in giro ...». E precisò comunque
che era proprio una bella esperienza, per un ragazzo deciso
a fare politica: «Il mio lavoro è andare in aula, ascoltare, segnarmi
quello che dicono... Ovviamente agli Affari esteri. Si
può parlare del Kossovo piuttosto che della Turchia. Si preparano
gli emendamenti, si organizzano delle cose... Un discorso
importante sono i dazi. Anche perché qui, ragazzi, le aziende
fanno fatica. Fatiiiica... D'altronde... La Cina... Si parla della
nazione più popolosa al mondo... Eh, insomma... Qualche
grosso problema lo sta creando...».
Raccontò infine, per darsi un tono da giovine statista, che
il suo mito era Napoleone: «A casa ho anche i busti. Insomma,
qualcuna ne ha combinata. Grande condottiero. Grande. Sono
andato anche a vedere il campo di battaglia dove perse».
Dove? «A. .. dài che non mi viene... o Signùr, come si chiama?»
Waterloo? «Ecco. Waterloo. Grande, Napoleone. Morto in
esilio col suo uomo fedele al fianco che ha bloccato l'ora dell'orologio.
Diciassette e 48 minuti. Mi pare.» Oltre a Napoleone?
«Marco Aurelio» suggerì Maruska. Lui: «No, no. L'Impero
romano non lo considero. Non sopporto 'sta Roma de noantri..
L'Impero romano, per carità! Non lo considero. Gusti
personali. Carlo Cattaneo, ecco». Fedeli seguaci del Capo, si accodarono nella scelta della
successione domestica anche il sottosegretario agli Interni
Mau-rizio Balocchi e il questore della Camera Edouard Ballaman. I
quali, al nascere della luminosa Era Berlusconiana, fecero sbarcare
in Parlamento la moda degli scambisti. Certo, mica gli
scambisti a luci rosse dei club priv é. Ci mancherebbe. I due,
però, si scambiarono davvero le mogli: ognuno assunse in uffì cio,
a spese dello Stato e quindi di noi cittadini, la moglie dell'altro.
Balocchi prese come collaboratrice Tiziana Vivian, sposata
Ballaman. E contemporaneamente, la stessa settimana, Ballaman
arruolò nel suo ufficio a Montecitorio la signora Laura Pace,
cioè la nuova compagna che a Balocchi, separato dalla prima
moglie, avrebbe di lì a poco dato un figlio. Un a bella pensata
che, aggirando gli stucchevoli paletti di una legge bigotta contro
il familismo, apriva nuovi orizzonti al mantenimento di figli e
cugini, generi e cognati, zie e concubine. Senza più il fastidioso
ingomb ro di provvedere al vitto e alloggio dei propri cari, comodamente
collocati a carico delle pubbliche casse.
«Quanta ipocrisia!» pensò Egidio Masella, assessore al
Lavoro della Regione Calabria per Rifondazione comunist a.
Basta coi sotterfugi, tutto alla luce del sole! E come primo atto
pensò al lavoro della moglie Lucia. Assunta come responsabile
amministrativo d el suo assessorato. Apriti cielo! Neanche il
tempo di leggere dello scandalo sui giornali e Agazio Loiero,
da poco governatore, tagliò di netto: licenziati tutti e due. Lui,
cod a tra le gambe, diede ad Angela Frenda del «Corriere»
un'intervista accorata: «Giunta e consiglio regionale sono pie.
ni di p arenti ! Ma no, eh , si sono accorti solo di quelli di Egidio!», E piangeva: «Mi hanno trattato come un delinquente qualunque e, invece, ho sempre risp ettato tutti. Mi dispiace
solo che per una mia ingenuità sia stata coinvolta Lucia in questa
roba orrenda. Ma lei, voglio che lo si ricordi ancora una
volta, in Regione non ha mai avuto un contratto, non ha mai
percepito un centesimo. Perché l'ho proposta? Perché non sapevo di chi fidarmi»,
Esattamente le stesse parole dette pochi mesi prima da una che ai comunisti pianterebbe le unghie negli occhi, la senatrice azzurra Elisabetta A1berti Casellati. La quale, insediata come
sottosegretaria alla Salute, si era guardata intorno con affanno.
Di chi avrebbe potuto fidarsi davvero, in quel luogo così delicato?
Finché, esaminati tutti i curriculum, scatenati nella ricerca
i migliori cacciatori di teste, riuscì a individuare finalmente
la persona giusta: sua figlia Ludovica. La quale, in una indimenticabile
intervista al «Corriere del Veneto», respinse con
sdegno l'ipotesi di essere raccomandata: «Ci ho messo dieci anni
perché non mi chiamassero "figlia di" e adesso non vorrei
passare per quella aiutata da mammina». Ma si figuri, signorina,
si figuri. Cose che capitano nelle migliori famiglie. Lo confermava
un 'agenzia del marzo del 2007 dando notizia di Cristiano
Di Pietro, consigliere provinciale di Campobasso, che
«su delega del presidente della Provincia era stato incaricato di
partecipare al tavolo che si è tenuto al ministero delle Infrastrutture
con il ministro Di Pietro». Summit mondiale: «Caro
papà Ministro...» «Caro figlio Consigliere...», «E poi dicono che nelle famiglie italiane non c'è dialogo» ironizzò su «La Stampa» Massimo Gramellini. Parole sante.
Tanto più che il leggendario «eroe di Mani Pulite» era quello che aveva gettato la toga per «cambiare una certa politica», che tuonava «basta coi candidati che se non è zuppa è pan bagnato, Nicola o Francesco !», che diceva: «Le mie priorità sono l' abbattimento dei costi della politica e l'eliminazione di ogni nepotismo». Ricordate la celeberrima sfuriata nei giorni in cui pareva l'Angelo Vendicatore? Scrisse che non ne poteva più
di fasc-ismo, neopostfasc-ismo, fondamental-ismo, papal-ismo,
centr-ismo, plescibitar-ismo, trasform-ismo, clerical-ismo, autoritar-
ismo, giacobin-ismo e insomma di quella «sfilza di ismi
che dicono tutto e nulla». E chiudeva: «C'è qualcuno in questo
Paese che, con parole semplici e chiare, ci spieghi bene le cose
come stanno e senza "ismi?»? Bravo Tonino: ci spiega con parole semplici e chiare, cos'è
il nepot-ismo?
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Perso il Rolex d'oro? Paga la Camera
I privilegi: dalle scorte ai ristoranti meno cari delle mense operaie
Agli spazzini di Marghera piacerebbe molto mangiare al ristorante
di Palazzo Madama. Non tanto per l'ambiente elegante,
gli impeccabili camerieri in livrea che ti servono o le giornate di
degustazione offerte dalle varie regioni come quella sudtirolese
con speck, kaminwurzen, prosciutto di cervo e leccornie d'ogni
genere bagnati da calici di Legrein o di Gewiirztraminer. Quanto
alla compagnia, meglio mangiare coi Bepi e i Toni che con
certi senatori. Ma i prezzi? Vuoi mettere i prezzi?
Un primo alla mensa dei netrurbini costa 3 euro, al Senato
la «lasagnetta al ragù bianco e scamorza affumicata» 1 euro e 59
centesimi. Un secondo di carne alla mensa dei netturbini costa 4
euro e mezzo, al Senato la «cernia fritta dorata» 3 euro e 53 ceno
tesimi. Un «contorno cotto» alla mensa dei netturbini costa 2
euro, al Senato le «cipolline glassate» o i «broccoli calabresi all'agro» 1 euro e 42. Una macedonia alla mensa dei netturbini costa 1 euro e mezzo, al Senato 75 centesimi. E perfino il pane alla mensa dei netturbini costa 60 centesimi e al Senato 52.
Un confronto imbarazzante. Tanto più che un netturbino prende un decimo di un senatore. Eppure il confronto si ripropone pari pari col ristorante della Camera: 8 euro e mezzo
spende mediamente per mangiare uno spazzino veneziano, 9 euro e 16 centesimi un deputato. Ovvio, il prezzo si alza grazie alle bottiglie di vino: rosso comune delle cantine sociali nella
mensa degli spazzini, Brunelli e Falanghine a Montecitorio. O
a Palazzo Madama. Dove, democraticamente, sono trattati coi
fiocchi non solo i parlamentari ma anche la loro corte e i dipendenti:
1 euro e 59 una zuppa di verdura, 84 centesimi i ravioli
al ragù, 1 euro e 70 una b raciola, 5 euro e 20 un dentice al vapore,
1 euro e 42 le verdure al vapore, 26 centesimi un'insalata
di carote e 42 centesimi un ananas... Mica male, per un dipendente
che guadagna in media 115.419 euro l'anno.
Quanto costano quei pasti al cittadino italiano? Infinitamente
di più. Non tanto per il costo vivo dei prodotti alimentari,
più o meno lo stesso, ma per quello del personale. Al ristorame
della Camera sono 80 in organico: un cuoco o un cameriere
ogni 8 deputati. Una media che metterebbe sul lastrico
qualunque ristorante del pianera, anche se adoperasse manovaIanza
tagika o burkinanese. Figuratevi a Montecitorio, dove un
dipendente costa mediamente 112.071 euro l'anno. In realtà i
posti non sono tutti coperti e gli addetti ai banchetti dei depurati
sono una cinquantina. Di questi, quelli che lavorano effettivamente
scendono ancora fino a una quarantina, Colpa della
salute: ci sono camerieri che, certificati medici alla mano, non
possono servire al tavolo perché faticano a camminare, cuochi
che non possono cucinare.. . Facciamo due comi? Solo in stipendi al personale il «Montecitorio's restaurant» costa circa 5 milioni di euro l'anno.
Quanto basterebbe per pagare, sul mercato, 200 cuochi e camerieri
e lavapiatti. O per imbandire qualche tavolata sul modello
del pranzo di nozze offerto da Galeazzo II nel Palazzo
dell'Arengo, alla presenza di Francesco Petrarca, per il matrimonio
della figlia Violante Visconti col duca Lionello d'Inghilterra.
Una mangiata con 18 «imbandigioni». La prima: porcelli
dorati e pesci dorati. La seconda: lepri dorate. La terza: vitello
dorato. E così via: quaglie, pernici, aironi, anitre, trote, cigni,
pavoni. Tutto ricoperto d'una patina d'oro.
Guai a dirlo, però. Ché subito si alzano solenni indici ammonitori:
attenzione a non cadere nella demagogia! Vale tuttavia
la pena di ricordare che fino al 1974 (non nel Parlamento
ottocentesco del barone Petruccelli della Gattina: fino al 1974)
il ristorante al Senato non c'era e i senatori, senza per questo
fare segnare indici più alti di mortalità, si arrangiavano coi panini
e i piatti freddi alla buvette. Come fino a pochi anni prima
avevano fatto anche i deputati.
«Eravamo stufi di mangiare come i cavalli» disse il sociali-sta
Bruno Lep re a Guido Quaranta. li quale nel 1977, in Tutti
gli uomini del Parlamento, descriveva la «trattoria» camerale così:
«Chi non salta il pasto, o non è costretto all'uovo sodo della
buvette da impegni improvvisi e urgenti, scende in un ristorante
self-service ricavato nel 1968 in un sotterraneo di Montecitorio) formato da 4 sale comunicanti: 130 posti tra poltroncine e divani in similpelle, rossa come la spessa moquette, lampade in cristallo e ottone perennemente accese. Gli avventori, sfilando
davanti a un lungo bancone, possono scegliere tra alcuni antipasti, 4 diversi primi piatti, 5 tipi di secondi e altrettanti piatti espressi (carne alla griglia e uova al tegame), 4 contorni,
formaggi, frutta fresca e cotta, 6 marche di acque minerali e 16
qualità di vino ) Un pasto costa in media 1300 lire, niente mance per il personale (16 commessi e 4 cuochi). Durante le sedute più importanti, l'affluenza massima è di 400 persone a pranzo, 300 a cena; in un mese la media è di 4000 pasti». Riassumendo: il numero dei deputati da allora a oggi è rimasto lo stesso, il prezzo pagato a pasto col passaggio dal self-service al servizio à-la-carte è salito in valuta attuale d a 4 euro e 22
centesimi a 9 euro e 16 centesimi e l'organico del personale, anche
se poi molte caselle non sono state riempite, è quadruplicato.
Così come sono aumentati i barbieri a disposizione dei parlamentari.
Al Senato erano 4 e sono diventati 8, alla Camera erano
8 e sono diventati 12. E meno male che non è passata, nel
settemb re del 2006, la richiesta avanzata a nome di alt ri dal deputato
leghista Giacomo Stucchi: «li potenziamento del servizio
di barberia che, secondo me, funziona bene, ma che, secondo
altri colleghi, necessita di qualche unità in più». li giorno dopo,
lo sventurato si lagnava: «Questa mattina ho letto vari giornali
e ho visto vari articoli riferiti alla discussione che abbiamo
svolto ieri in quest'aula sul nostro bilancio. Erano, in prevalenza,
articoli di colore. Si sono toccate tematiche, come la barberia
gratuita o tante altre, che tendono forse, lo dico tra virgolette,
a denigrare e screditare l'immagine del Parlamento» .
«Denigra re» l'immagine del Parlamento? Solo perché qualche
cronista aveva osato ironizzare sul fatto che l 'onorevole
Emerenzio Barbieri aveva ricordato che alla Camera qualcosa si
pagava ma a Palazzo Madama «i senatori in carica, gli ex senatori,
i deputati in carica, gli ex deputati e i parlamentari europei
vanno dal barbiere gratis» e aveva chiesto che anche alle deputate
venisse esteso il benefit dato alle senatrici che ricevono per
il parrucchiere un bonus di 150 euro al mese?
Poche settimane dopo, l'ineffabile Stucchi, smessi i panni
dell'addolorato custode della sacralità del Parlamento e rimessi
quelli del leghista incazzato, scriveva sul suo blog in internet
che «nei palazzi della politica romana si sente aria di vecchio» e
se la p rendeva con «lorsignori» eccitando i suoi elettori: «Sapete
qual è la differenza t ra i partiti, di dest ra o di sinistra poco
importa, e la Lega Nord? Che i primi stanno a cincischiare sul
nulla, mentre il Carroccio va dritto al sodo». Bravo onorevole,
al sodo: insaponatura, barba, basette, sfo rbiciatina sop ra le
orecchie, asciugamano caldo e un bel dopobarba rinfrescante,
magari firmato da Salvatore Ferragamo o jean-Paul Gaultier.
Al sodo, al sodo! Buon per lui che nelle valli bergamasche, dove
l'hanno eletto, non leggono i resoconti stenografici della Camera.
Sennò gli chiederebbero come mai, se l'Associazione artigiani
dice che un barbiere può vivere dignitosamente se nel
suo bacino ci sono almeno mille uomini (o , «nel caso sia unisex», almeno 800 abitanti maschi e femmine) a Montecitorio c'è un barbiere ogni 52 deputati e a Palazzo Madama uno ogni 40 senatori maschi.Eppure il ristorante deluxe a p rezzi popolari e la barberia
non sono che due dei privilegi di chi ha la fortuna di finire in
Parlamento. All'arrivo, ti danno un elenco dei benefit cui hai diritto:
dai viaggi gratuiti in business class sui voli Alitalia a quelli
sui treni e i traghetti, dai tassi favorevolissimi nella banca interna
alla tessera Agis per andare gratis al cinema, dal Telepass gratuito
a mille altre cose più o meno note (con 100 euro in più al
mese, per esempio, si può estendere la generosissima mutua anche
ai suoceri) che non vale neanche la pena di elencare.
Da annotare i regalini . Come i computer portatili dati nella
XIV legislatura a ogni deputato. Decisione sacrosanta e ineccepibile.
Ma non nella sua coda: la scelta di consentire a ogni parlamentare
di riscattare le macchine al p rezzo simbolico d i un euro. Offerta
della quale approfittò subito il decano del collegio
dei questori, Francesco Colucci, che di computer ne rastrellò
21, alcuni praticamente mai usati, «costringendo il funzionario
preposto a farsi firm are una specifica autorizzazione dal segre
tario generale della Camera». Anche Gesù Bambino vuole bene ai senatori. Attraverso la
presidenza e i questori di Palazzo Madama, per esempio, a Natale del 2006 ha regalato a tutti una sontuosa valigia a rotelle di pelle chiara, marca Bric's, modello Yalta linea Life Pelle. Prezzo di listino, stando alle offerte sui siti internet: 719 euro. Più la spesa supplementare dovuta all'incisione su ogni trolley, in bella grafia, delle iniziali del parlamentare a cui era destinato. Per carità, è più che probabile che l'acquisto di 325 valigie sia stato
agevolato da un forte sconto. Però.. . Eppure, perfino chi bacchetta da anni sui lussi che via via si sono concessi i nostri rappresentanti in Parlamento, ne scopre sempre uno nuovo. Per esempio il risarcimento dei furti. Sei un deputato e ti fregano il soprabito che avevi appoggiato all'attaccapanni? Mai paura: «Desideriamo segnalarTi che in
casi di danneggiamento o sottrazione di beni mobili o denaro avvenuti in locali della cui custodia la Camera sia responsabile» scrivono i questori ai deputati in una lettera del 7 febbraio del 2007 «potrai comunque richiedere, previa denuncia, all'ispettorato
di polizia, il risarcimento del danno subito a cui provvederà la compagnia assicuratrice». Immaginatevi la scena: «Scusate, mi hanno rubato un cappotto di cachemire da 1000 euro». «Prego onorevole, vada a comprarne un altro e ci porti lo scontrino.» Va da sé che qualche furbino potrebbe avvertire la tentazione di rifarsi il guardaroba: «Avevo appeso una giacca...
Avevo posato una pashmina...» . E le scarpe? Basta un po' di
fantasia: «Mi ero steso a dormicchiare sul divano dopo essermi
sfilato un paio di mocassini fatti a mano da mille euro...» ,
Il massimo dello status, però, è la scorta. Intendiamoci: in
un Paese come il nostro che negli anni di piombo ha visto uccidere
dai terroristi rossi e neri 430 persone e ha vissuto stagioni di
spaventosa violenza mafiosa con vere e proprie mattanze, sarebbe
stupido non riconoscere che il passaggio a una democrazia «protetta»
dopo gli anni Cinquanta di pressoché totale mancano
za di guardie del corpo dei Fanfani e dei Romita fu obbligato.
Come in tutte le cose, però, c'è modo e modo. E da noi, soprattutto
nel Mezzogiorno dove certi dettagli valgono il doppio,
la scorta può titillare le vanità di uomini affetti da «importanzite
acuta» più di una Maserati biturbo o di una pelliccia di zibellino
sulle spalle dell'amante. Lo sanno tutti. E tutti, da anni, promettono
tagli, tagli, tagli. il leghista Roberto Maroni, il ptimo ministro
degli Interni non dicì, si mostrava, nel '94, scandalizzato:
«Ho scoperto che aveva la scorta perfino Clelia Darida. E chi
era? L'avevano lasciata anche a Paolo Emilio Taviani. Ho chiesto:
perché? Mi hanno risposto: "Perché è stato ministro, al Viminale". Sì, ho detto, ma quanto tempo fa? Io non lo so, quasi non lo ricordo... Uno che ha fatto cose importanti può avere una
gratitudine dallo Stato. Capisco. Capisco pure che gli si paghi il
taxi. Ma perché deve portarsi dietro quelli col mitra e sottrarli
ad altri servizi?». Basta, diceva. Basta con episodi leggendari come quello di
Riccardo Misasi che «faceva il bagno su una spiaggia calab rese
con lo status symbol di una folla d'uomini armati». D'ora in
avanti, giurò, fine della fiera: «Ne tagliamo il 70%. Prima le avevano
circa 160 politici. Adesso, a parte i ministri in carica, rimarranno
a 6 o 7. Non ce l'hanno più Bettino Craxi, Vincenzo
Scotti, Antonio Gava. E basta con il periodo di cinque armi per
l'uso personale di aerei militari da parte di un ex presidente del
Consiglio. Roba che va eliminata. Pensi che Craxi, a Milano,
aveva ancora la scorta in attesa che tornasse dalla Tunisia».
Cinque anni dopo «l'Unità» plaudiva al governo di Massimo
D'Alema con un titolone: Dimezzate in tre anni le scorte ai
politici. Ma come: non le aveva già ridotte del 70% Maroni?
Macché. Nell'articolo si spiegava che dal giugno del '96 al maggio
del '99 i servizi di scorta erano stati ridotti da 417 a 282, dei
quali 48 a «personalità con incarichi politico-istituzionali o amminist
rativi». Nel Duemila, la relazione annuale al Parlamento
parlava di 3798 agenti imp egnati in 77 1 scorte. Quasi il triplo
di quelle vantate l'anno p rima. Chi mentiva? Bah... Un altro
anno di attesa e il 25 ottob re del 2001, un mese e mezzo dopo
1'11 settembre e il divampare della paura degli attentati islamici,
il nuovo capo del Viminale Claudio Scajola accusava: «In
questo Paese sono impegnati per servizio di scorta più di 6000
uomini. li costo del servizio di scorta supera i 1100 miliardi di
lire. In Paesi ove si registra un fenomeno terroristico e di criminalità
forte, p aragonabile e certamente superiore al nostro
(Spagna, con il problema dei Paesi Baschi, Inghilterra con il
problema dell 'Irlanda del Nord), il costo e il numero di uomini
impegnati nella protezione delle persone a rischio è pari al 30%
di quello che sopporta l'Italia».
Chiaro? Stando ai dati ufficiali, in Spagna (dove l'Euskadi
Ta Askatasuna ha ucciso oltre 800 persone) e in Gran Bretagna
(dove la guerra tra l'Irish Republican Army e le truppe inglesi
ha contato dal 1969 a oggi 3300 morti e 38.000 feriti) gli scortati
erano, a stare larghi, meno di 250, gli uomini impegnati 2000,
il costo in valuta attuale 190 milioni di euro. Da noi il t riplo:
568 milioni di euro. Perché? Troppo spesso per pura vanità.
«Non possiamo infatti nasconderci» spiegava Scajola «che
vi sono state e vi sono alcune esagerazioni, con persone che ritengono
che il servizio di scorta sia uno status symbol per affermare
la propria importanza nella classifica sociale.x Per questo,
spiegò, aveva deciso di togliere la protezione a un sacco di gente,
compresi (e qui si tirò addosso le critiche perfino di Giuliano
Ferrara) alcuni magistrati come Ilda Boccassini che aveva
fatto arrestare gli autori della strage di Capaci in cui la mafia
aveva assassinato Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini che
li proteggevano. Basta, disse: «Questo servizio ha un costo
enorme, spropositato e come ho già affermato e ripeto in quest'aula
agli occhi dei cittadini è stato ed è considerato una vergogna
nazionale». Risultato: stando alla relazione al Parlamento
di Giuseppe Pisanu, nel 2005 le scorte erano ancora 732
(delle quali 95 per i politici) e gli uomini utilizzati 2828. Cioè 6
scorte in più rispetto a quelle denunciate da Scajola come «spropositate».
E così, mentre venivano versate lacrime di coccodrillo sulla
morte di Marco Biagi, che secondo l'allora ministro degli Interni
«era un rompicoglioni» e fu ucciso proprio perché gli era stata
negata la protezione inutilmente chiesta «
Cinzia Banelli), fino al maggio del 2006 e alla caduta del governo
Berlusconi, aveva ancora la scorta la presentatrice televisiva
Irene Pivetti. Motivazione: prima di scoprire l'ebbrezza dei
succinti completi sexy tutti cuoio e borchie, era stata l'inamidata
presidentessa della Camera. E come tale collocata per l'eternità
nell'Olimpo degli Dei. Giuliano Amato, stando ai numeri aggiornati alla fine di
gennaio del 2007, un taglio l'ha dato. E non solo all'ex presidente
di Montecitorio, che peraltro ha ancora di ritto a un ufficio tutto
suo vita natural durante anche se è passata dai tailleur della signorina
Rottermaier ai costumini da cat-woman. Da 727 scortati
che aveva trovato il giorno dell'insediamento, ha portato il numero
a 654: una riduzione del 10%. E del 13% è stata la sforbiciata
agli uomini di scorta, col recupero di 424 poliziotti, carabinieri
e finanzieri da destinare ad altri compiti. Per non dire dell'amputazione
sul fronte dei politici: da 112 a 84. Direte: ma non
si erano già vantati di averli ridotti a 48 nel 2000? Misteri.
Chi certo non è rimasto senza un battaglione personale di
angeli custodi è Silvio Berlusconi. Il quale, ai tempi in cui era
premier, si era dotato di 81 body-guardo Cioè poco meno di
quanti bastarono ai servizi segreti israeliani per il più spettacolare
raid militare di tutti i tempi, quello che nel 1976 portò alla
liberazione di tutti gli ostaggi di un aereo dirottato da un commando
di terroristi all'aeroporto di Entebbe, sotto il naso delle
forze armate del dittatore ugandese Idi Amin. Abituato così, è logico che il Cavaliere non si fidasse del suo successore. Quindi, mentre ancora stava a Palazzo Chigi in attesa
di lasciare il posto a Romano Prodi, decise di darsela da solo,
la scorta per il futuro: 31 uomini. Più la massima tutela a Roma,
Milano e Porto Rotondo. Più 16 auto, di cui 13 blindate.
Il minimo indispensabile, secondo lui, di questi tempi. Un
po' troppo, secondo i nuovi inquilini subentrati alla presidenza
del Consiglio. Che sulla questione, a partire da Enrico Micheli,
avrebbero aperto un (discreto) braccio di ferro con l'ex premier.
Guadagnando solo una riduzione del manipolo: da 31 a 25 persone.
Quante ne aveva il «bersaglio Numero Uno» Yasser
Arafat, secondo Massimo Pini, il giorno che andò a visitare Bettino
Craxi. Eppure, ricordate cosa disse Berlusconi ai tempi in cui appoggiava
Scajola nella decisione di tagliare il numero degli scortati?
Disse che per molti la scorta era «solo uno status symbol»
usato «impropriamente, magari sgommando», E si vantò, giustamente,
di aver sottratto alla noia di certe inutili tutele «788 operatori di polizia dirottati così in altri settori per garantire una maggiore sicurezza dei cittadini». Ai tempi in cui le Br ammazzavano la gente per la strada e i politici erano esposti come mai
prima, del resto , il presidente del Consiglio Giulio Andreotti
viaggiava con scorte assai più contenute: «Mia moglie a Natale faceva un regalino a tutti, e certo non erano molti». . È vero: è cambiato tutto. E la scelta di ridurre drasticamente
le spese per proteggere gli ex capi del governo fatta da Giorgio Napolitano quando stava al Viminale, appare lontana anni luce. Berlusconi è stato il premier che ha appoggiato fino
in fondo Bush , ha schierato l'Italia nelle missioni in Afghanistan
e in Iraq, si è battuto in difesa della sua idea di Occidente
con una veemenza (si ricordi la polemica sul dovere di essere
«consapevoli di questa primazìa, di questa superiorità» sull'Islam)
che lo ha esposto non solo ai fanatici nostrani come
quel Roberto Dal Bosco che gli tirò in tes ta un treppiede in
piazza Navona, ma all'odio di tanti assassini legati ad al Qaeda.
Garantirgli la massima tutela è un dovere assoluto. Punto
e fine . Il modo in cui si sarebbe autoconfezionato questa tutela,
invece, qualche perplessità la solleva. Iln aprile del 2006, cioè
17 giorni dopo le elezioni perse e prima che Prodi si insediasse,
la presidenza del Consiglio stabilì che i capi del governo «cessati
dalle funzioni» avessero diritto a conservare la scorta su
tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento. Altri
dettagli? Zero: il decreto non fu pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale
» e non sarebbe stato neppure protocollato. Si sa solo che
gli uomini di fiducia «trattenuti» erano appunto 31. Quelli che
con un altro provvedimento il Cavaliere aveva già trasferito
dagli organici dei carabinieri o della polizia a quelli del Cesis, il
Comita to esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza.
Trasferimento che l'allora presidente del Comitato di controllo
sui «servizi» Enzo Bianco aveva bollato come «illegittimo».
Domanda: come mai su una cosa simile nessuno, a sinistra,
ha piantato una polemica di quelle che all'estero cavano la pelle
ai megalomani? Perché anche a sinistra sono in diversi, a
zoppicare da quella gamba. Valga per tutti l'esempio di Oliviero
Diliberto, il segretario dei Comunisti italiani, ai tempi in cui
era guardasigilli. Ricordate? La notizia, data per prima dai giornali
del gruppo Monti diretti allora da Vittorio Feltri, fu ripresa
da Giampaolo Pansa: «Si racconta come il ministro di Grazia e
Giustizia, Oliviero Diliberto, dei Comunisti italiani, per presentarsi
in forma al ritorno in patria di Silvia Baraldini, abbia
pensato di andarsene per 6 giorni alle Seychelles, nella splendida
isola di Mahé, la più grande di quell'arcipelago, nell'Oceano
Indiano. E fin qui nulla di male, perbacco! Con la moglie, il
ministro ha preso alloggio nell'Hotel Plantation Club, che non
dev'essere un centro sociale per pensionati , visto che ha persino
un casinò interno. E anche qui siamo nella normalità più assoluta,
dato che il ministro, come è ovvio, ha pagato di tasca
propria la vacanza sua e della signora».
Il fatto è che il compagno Oliver era accompagnato da
«due giovanottoni». I quali «non erano vacanzieri, bensì agenti
della polizia penitenziaria italiana, incaricati di fare da scorta al
minist ro. Erano partiti da Roma con lui e sono rimasti con lui
sino alla fine della vacanza. ..) Viaggio, hotel e servizio della
scorta non li ha pagati il ministro, bensì lo Stato . Me l'ha confermato,
lunedì 6 settembre, l'addetto stampa del guardasigilli,
Andrea Bianchi, già redattore del "Manifesto", un collega intelligente
e schietto. Domanda: ma era proprio necessario portarsi
la scorta fino alle Seychelles? Risposta: per Diliberto la
scorta è un obbligo, ventiquattr'ore su ventiquattro».
La cosa, però, non convinse affatto il grande giornalista:
«Che cosa pensa, l'autentico bacchettone rosso? Semplice: che
su certi terreni delicati, la sinistra abbia più obblighi della destra,
perché il pubblico che la osserva (e la vota) è fatto ancora oggi
di gente semplice, e con poche monete in tasca, che non
ha mai visto nemmeno in cartolina un casinò delle Seychelles.
Ma se è così, e non c'è dubbio che lo sia, è di un'evidenza lampante
ciò che avrebbe dovuto dire il compagno Diliberto a se
stesso. Doveva dirsi: sei a rischio di un agguato, sei scortato,
la scorta deve seguirti dovunque e in ogni luogo? Allora sii più
modesto. Vai in vacanza a Sabaudia o torna alle dune sarde di
Piscinas, e lascia perdere l'Oceano Indiano».
E meno male che oltre alla scorta non si portano dietro il
medico. Quelli parlamentari , infatti , costano un occhio della
testa. Alla Camera fino all'autunno del 2006 ce n'erano tre fissi
che pesavano insieme sui bilanci per un totale di 750.000 euro.
Per capirci: quanto almeno dieci primari ospedalieri. Una enormità.
AI punto che Gabriele Albonetti e gli altri questori di
Montecitorio hanno deciso di sbarazzarsene per varare una
convenzione con i medici del Policlinico Gemelli. Decisione
forse saggia, sui tempi lunghi, ma pagata carissima nell'immediato.
Per lasciare il loro paradiso, infatti, due dei tre dottori
hanno ottenuto una buonuscita di cinque anni: 1.250.000 euro
a testa. Il terzo medico, nonostante l'offerta lussuosa, ha deciso
di restare: e dove lo trova un altro stipendio di 250.000 euro
l'anno con tutti i benefit parlamentari?
Baby pensionati di 42 anni
E c'è chi ha avuto il vitalizio senza mai sedere a PalazzoMadama
Nel calendario della show-girl televisiva lrene Pivetti, organismo
geneticamente modificato della badessa militare che fu
presidente della Camera, c'è una data cerchiata di rosso: 4 aprile
del 2013, festa del beato Francesco Marto, il terzo pastorello
di Fatima. Quel giorno, la bella e pimpante presentatrice celebrerà
non solo il compleanno ma la possibilità di diventare una
baby pensionata parlamentare. A 50 anni. Dopo aver fatto tre
legislature ma, grazie a due tornate di elezioni anticipate, solo 9
anni a Montecitorio. E farà «rnarameo», addirittura 18 anni dopo,
alla riforma Dini che avviò il progressivo innalzamento dell'età
inchiodando tutti gli altri italiani ad andare a riposo molo
to, molto, molto più tardi.
La buona madonnina di Fatima, però, non c'entra. Come
non c'entrano le favolose condizioni contrattuali che procura
alla sua preziosa puledra il padrone della scuderia cui appartiene,
l'impresario Lele Mora, scelto «perché non è Biancaneve»,
Il miracolo di salvare le loro baby pensioni, i deputati e i senatori
se lo sono fatti da soli. Qualche anno fa. Un bel giorno sospirarono
affranti: non potevano andare avanti così. Per quanto
abituati a trattarsi principescamente, non potevano proprio
predicare agli altri l'assoluta necessità di fare sacrifici e rimandare
il più possibile l'età del ritiro dal lavoro e nello stesso temo
po tenersi quelle regole lussuose grazie alle quali potevano andare
in pensione a 60 anni se avevano alla spalle una legislatura,
a 55 se ne avevano due, a 50 se ne avevano tre, a 45 se ne
avevano quattro e così via, a scalare. Il troppo è troppo.
Decisero così, nel 1997, tra tanti maldipancia, di cambiare.
Stabilendo che in futuro il parlamentare con una sola legislatura
nel carniere avrebbe potuto ricevere la pensione non prima
di aver compiuto i 65 anni. Ma che ogni anno in più sugli scranni
delle Camere avrebbe dato diritto a un accorciamento di un
anno. Dieci anni «onorevoli»? Pensione a 60 anni. Quindici anni
«onorevoli» ? Pensione a 55. Venti anni «onorevoli»? Pensione
a 50. Col risultato che se dovesse essere rieletta per altre due
volte, la deputata forzista Chiara Moroni potrà ricevere il suo
lussuoso vitalizio di 8455 euro il 23 ottobre del 2024. A 50 anni.
Diventando una b aby pensionata con due soli decenni di
contributi ben 29 anni dopo la riforma Dini. È qui la truffa. Nell'aver fatto credere agli italiani che quella riforma del '97 fosse dawero una svolta radicale dopo decenni
di privilegi. Falso. Primo: allungava solo di cinque anni, a scalare,
l'età pensionabile. Secondo: valeva solo per gli eletti futuri,
a partire dalle politiche del 2001. Tutti gli altri, già presenti nel
2000, hanno diritto per l'eternità al vecchio trattamento. Il napoletano
Giuseppe Gambale, entrato ragazzino nel '92 con
quella Rete di Leoluca Orlando che voleva scardinare la vecchia
politica, è andato in pensione nel 2006 (per essere subito riconvertito
come assessore alla cultura del Comune di Napoli: 4000
euro di stipendio) con 8455 euro lordi al mese. A 42 anni.
Ma come: non arrossisce all'idea di essere un baby pensionato
andato a riposo 23 anni prima di quella soglia dei 65 indicata
come minima per salvare il sistema? «E allora? Non ho tolto
niente a nessuno e non sono disposto a rinunciarvi - ha risposto
all'«Espresso» . «Il vitalizio è il frutto di quello che ho
versato negli anni di servizio parlamentare, è come se avessi stipulato
una polizza privata. Quanto alla mia giovane età, dov'è
lo scandalo? Vuoi dire che ho iniziato a lavorare presto.x
È quanto vorrebbero dire alcuni milioni di italiani, costretti
(loro) ad andare in pensione un paio di decenni più tardi. Ma
c'è di più: l'onorevole giovanotto, per avere quella pensione, ha
versato in quattro legislature 222.000 euro e spiccioli. Nel solo
primo anno da vecchietto quarantaduenne a riposo ne ha riavuti
101.460. Fate due conti: 26 mesi ed eccolo in pari con il
versato. Dopo di che, dai 44 anni in avanti, sarà mantenuto dai
cittadini. Se la vita gli sorriderà quanto sorride mediamente a
un maschio italiano d'inizio millennio (alè, Peppino! ) arriverà a
80 anni dopo avere incassato, in valuta attuale, 3.855.000 euro.
Cioè 17 volte più di quanto aveva versato. Se conosce una polizza
privata altrettanto magica, per favore, dia l'indirizzo anche
a noi. E il bello è che in realtà, di anni veri in Parlamento, Gambale
ne ha passati solo 14. Degli altri 6 per completare le legislature
interrotte da elezioni anticipate ha versato solo i contributi.
La precisazione non è secondaria. Se adesso per avere diritto
a riscattare tutta una legislatura è necessario averne fatta
almeno mezza e cioè 913 giorni (per questo Giulio Tremonti ha
detto più volte: «Non si voterà prima del 2009») una volta non
era così. Per incamerare i diritti d'una intera legislatura bastava
entrare in Parlamento, fosse pure per un battito di ciglia, e pagare
i contributi dovuti, cifre poco più che simboliche rispetto
al guadagno. Il banchiere varesino Giovanni Valcavi, per dire,
è rimasto a Palazzo Madama nove settimane e mezzo. Ma non
provateci neanche, a chiedergli se non si senta in imbarazzo a
portare a casa ogni mese, dal 23 aprile del 1992, una pensione
che all'inizio del 2007 era salita a 3108 euro : è convintissimo di
essersela guadagnata. «Oh, signùr! Ma lei ha idea di quanto ho lavorato, in quei
mesi? Ho fatto un sacco di disegni di legge, di interrogazioni
parlamentari, di riunioni, di viaggi all'estero... Non stavo mica a
guardar per aria, io.» Subentrò al defunto Antonio Natali il 27
marzo del 1991, il giorno dopo gli chiesero di dimettersi dalla
carica di presidente della Banca Popolare di Luino e Varese perché
le due poltrone erano incompatibili. Diede battaglia presentando
una modifica alla legge, gli andò male, fu costretto a scegliere,
scelse di continuare a fare il banchiere e i13 giugno lasciò
il posto a Bruno Pellegrino. Totale dei giorni da senatore: 68.
Non gli sarebbero bastati, ovvio, per avere il vitalizio. Ma
gli fu sufficiente coprire i contributi di tutta la legislatura. «Ho
versato 50 milioni! Di allora ! Cinquanta milioni erano dei bei
soldi, sa? Erano dei bei soldi,» In valuta attuale, meno di 39.000
euro. Recuperati in poco più di un anno. Da allora, i cittadini
italiani hanno regalato a Giovanni Valcavi, a integrazione di
al-t re pensioni deluxe, mezzo milione assai abbondante di euro.
Più di un miliardo di lire. Per 68 giorni da parlamentare e una
cinquantina di milioni di investimento . Un bel guadagno anche
per un banchiere: «Solo perché sono vissuto. Se crepavo subito
ci perdevo». Ma un po' di rossore «Mi facevano festa tutti...
Una marea di senatori, di abbracci Spadolini mi teneva delle
mezze ore a parlare...» Ma due mesi per una pensione! «Ho fato
to la Resistenza, io. Sono stato in carcere. Ho dato tanto, a questo
Paese. Tanto.» E poi, rassicura da anni chi gli fa le pulci,
tranquilli: «Sono scapolo. Non trasferirò la rendita a eredi».
Altra precisazione non secondaria, perché nel mondo fatato
dei parlamentari è successo anche questo: dall'autunno del
2000 incassa ogni mese il vitalizio senatoriale (sia pure ridotto)
la vedova di un uomo che non mise mai piede nell'aula di Palazzo
Madama. Mai, neppure per un minuto. Si chiamava Arturo Guatelli ed era un giornalista famoso. Trombato alle elezioni del 1979 nelle quali si era candidato con la Dc, non ne aveva
certo fatto un dramma. Da corrispondente da Parigi del «Corriere
della Sera» aveva già le sue soddisfazioni. Finché, il 29
aprile del 1983, dopo mesi di tira e molla, il quinto governo di
Amintore Fanfani si dimise. Quattro giorni dopo, il presidente
della Repubblica Sandro P ettini sciolse le Camere. Altri due
giorni e mentre giocava coi figli nel suo appartamento a Palazzo
Giustiniani, il presidente del Senato Tommaso Morlino
morì: infarto. Un paio di giorni dopo la Prefettura di Milano telefonava a
Guatelli, che anni dopo ne avrebbe parlato col collega Ivo Caizzi,
del «Corriere»: «Mi annunciarono che ero stato nominato senatore
al posto di Morlino in quanto primo dei non eletti Dc in Lombardia. Rimasi sorpreso perché sapevo che la legislatura era finita. Quando capii che era un fatto più formale che sostanziale,
evitai perfino di dirlo in giro. La cosa si seppe quando
il Senato, riunito in seduta straordinaria per insediare il nuovo
presidente, annunciò la mia nomina».Un «fatto più formale che sostanziale»? Per niente. Pochi giorni e al giornalista arrivarono un pezzetto dello stipendio e
della liquidazione. Ma più ancora l'avviso che aveva vinto alla
lotteria: «Con grande sorpresa scoprii che avevo anche maturato
un vitalizio da riscuotere dai 60 anni. Dovevo però pagare i
contributi dei 5 anni previsti come minimo. Versai una ventina
di milioni e da un paio d'anni riscuoto». Era, al momento della
chiacchierata, la primavera del 1997. «Hai mai pensato a rinunciare?» gli chiese Caizzi. No, rispose. Certo il suo caso dimostrava «al meglio l'assurdità del sistema pensionistico dei parlamentari ». Ma spiegò: «Non sono abituato a buttare i soldi dalla
finestra. Capisco che si tratti di un privilegio, ma la legge non
l'ho inventata io». «Repellente .» Ecco come Toni Negri, il pessimo maestro
d'una generazione, marchiò la sua esperienza alla Camera:
«Terribile e repellente». Tirato fuori grazie all'elezione nelle file
radicali dal carcere in cui era rinchiuso dal 7 aprile del '79
sotto una montagna di accuse legate al terrorismo rosso, il professore
padovano entrò a Montecitorio, tra le urla dei missini e
il disprezzo di quasi tutti gli altri, il 12 luglio del 1983. Da quel
momento restò n,prima che i colleghi ne autorizzassero l'arresto
reso impossibile dalla fuga a Parigi, per un totale di 64 giorni.
Durante i quali, a causa delle ferie estive, vennero convocate
9 sedute. Della sua «sveltina» parlamentare, al di là delle polemiche
sulla sua elezione, restano agli atti due cose. Una proposta di
legge «pro domo sua» intitolata «Norme per la riduzione della
durata della custodia preventiva e per la concedibilità della libertà
provvisoria» e una lettera alla presidente Nilde lotti in
cui, ferito nella sua permalosa onorabilità accademica come il
più stizzito dei vecchi baroni, chiese un giurì d'onore contro il
deputato democristiano Angelo Bonfiglio che durante una riunione
della giunta per le autorizzazioni a procedere (dove lui
era accusato di reati come «insurrezione armata contro i poteri
dello Stato» o «concorso in sequestro di più persone a scopo
di terrorismo») aveva osato dire che bisognava indagare «su
come e da chi sia stata conferita a Negri la cattedra universitaria». Fine.Non bastasse, rilasciò una serie di interviste. In una disse: «Mi hanno accusato di aver vissuto in cento bande clandestine, ma l'unico corpo separato in cui mi è toccato di vivere è proprio
questo Parlamento». In un'alt ra, parlando di sé in terza
persona come i terzini e le soubrette, spiegò: «Il Negri rivoluzionario
non si è rinnegato né convertito al parlamentarismo» .
Finché lanciò dalla Francia, via radio, un appello alla sua plebe
ribelle nella scia dell'adagio «armiamoci e partite»: «Ci rivedremo.
Ma per ora dobbiamo riuscire ad alzare ancora quello che
è il piano dello scontro» . Forza ragazzi, che lui si era un po' stufato
e adesso aveva altro da fare con gli accademici parisiens.
Bene: per quelle 9 «repellenti» sedute in cui c'era e non c'era,
Toni Negri prende ogni mese, dal 1993 quando compì i 60
anni, 3108 euro. Cinque volte di più, stando alle tabelle Inps,
della pensione media di vecchiaia di un operaio. Un dettaglio
che, a lui che divenne noto per avere scritto «sento il calore delia
comunità operaia e proletaria tutte le volte che mi calo il passamontagna» , dovrebbe far venir voglia di rimetterlo, il passamontagna. Per l'imbarazzo. Niente da fare: nella sua testa il vitalizio è un risarcimento per la galera fatta. Non ce n'è uno, tra i baciati dal privilegio, che un po' se ne vergogni. Valga come esempio un'intervista a Marco Formentini,
che dovrebbe oggi assommare varie pensioni dovute ai ruoli
di funzionario europeo e poi dipendente della Regione Lombardia
(di cui è stato segretario della giunta) e poi deputato nazionale
e poi sindaco di Milano e poi ancora per due volte parlamentare
europeo. Sempre per la Lega (fu lui a celebrare, con
le lacrime agli occhi, il matrimonio bis dell'Umberto Bossi con
la Manuela) e poi per la Margherita. Alla domanda se non mettesse a disagio uno come lui (che come sindaco leghista salutava «la Milano che si alza alle cinque
» e attaccava «Roma ladrona») incassare la pensione di deputato
dopo essere stato a Montecitorio poco più di un anno, rispose:
«Ah, sì, certo. Sono sicuro che la Lega si batterà per ridurlo.
E io non mi tirerò indietro». Dopo di che, zero. Anzi, davanti
all'insistenza del cronista, sbottò: «Non si può pensare che
ci siano rinunce personali. Vorrei vedere... E voi giornalisti? Anche
le vostre pensioni non sono mica da buttar via. O sbaglio?
Rompete i coglioni agli altri, ma pensate a voi stessi! Non è
che voi siete poveri pensionati dell'Inps! Non fate un cazzo e alla fine
vi trovate una bella pensione anche voi. Che fate tanto i moralisti!». E chiuse: «Basta. Mi ha rotto i coglioni». Clic. Che certi giornalisti battano la fiacca è vero. Ma certo nessuno
al mondo si è mai guadagnato una pensione da giornalista
lavorando poco come un altro politico, Clemente Mastella. Veniva
da Ceppaloni, faceva il «promoter» elettorale per l'allora
potentissimo Ciriaco De Mira e venne da lui piazzato alla sede
Rai di Napoli verso la metà degli anni Settanta. Malignità? No,
l'ha raccontato lui: «A farmi entrare alla Rai fu De Mita. Tre
giorni di sciopero contro la mia assunzione. Ai colleghi replicai
soltanto: e voi invece siete entrati per concorso!», Era sveglio, lavorava per la radio, cercava di battere soprattutto il Sannio dove aveva in mente di candidarsi. E costruiva il
suo futuro ventiquattr'ore su ventiquattro, puntando dritto alle
elezioni del 20 giugno del 1976: «Il miracolo lo realizzai così.
Aspettavo che tutti i dipendenti andassero a mensa. Poi chiedevo
ai centralinisti di telefonare nei comuni del mio collegio
elettorale. Mi facevo introdurre come direttore della Rai e segnalavo
questo nostro bravo giovane da votare: Clemente Mastella.
Funzionò». Diventato professionista il 19 maggio del 1975, un anno e
32 giorni dopo entrava alla Camera. Da quel momento cominciò
a succhiare da un'altra delle generose mammelle della politica:
la possibilità, per chi era eletto, di mettersi in aspettativa
nel posto di lavoro «provvisoriamente» lasciato. E di restarci
per anni e anni. In certi casi, come quello dei magistrati, continuando
a prendere, fino a poco tempo fa, sia la busta paga da
parlamentare sia da magistrato. Ma in ogni caso tenendo ben
agganciata la propria pensione professionale grazie al versamento
dei contributi «figurativi». Cosa sono? Sono i versamenti che questo o quell'ente previdenziale è obbligato ad accreditare sul «conto» pensionistico
di ogni deputato e ogni senatore anche se i soldi non li riceve
né dall'interessato né dal suo datore di lavoro, pubblico o privato
che sia. Insomma: contributi fantasma. Che però danno
diritto alla pensione fin ale, da giudice o da professore, da
impiegato regionale o da dirigente industriale, anche se per decenni non e stato versato un centesimo. In questo modo andò in pensione come docente universitario,
a 47 anni, l'ex ministro socialdemocratico Carlo Vizzini.
Erede del seggio alla Camera del padre Casimiro, era andato in
cattedra a Palermo, come ordinario di Storia delle Dottrine
economiche, nel 1973, a 26 anni. Per meriti scientifici o politici?
Scientifici , ci mancherebbe. Lo dichiara lui stesso nel suo
sito dicendosi «autore di numerose pubblicazioni» . Quali? La
risposta è nel motore di ricerca dell'Istituto Centrale per il catalogo
unico. Dove risulta che in tutte le biblioteche pubbliche
italiane, tra milioni e milioni di volumi, esistono del prestigioso
economista 5 libri. Due copie di Contributo ad un dibattito su
economia e società / Sezione economica del Psdi diretta da Carlo
Vizzini, altre due di Le regioni italiane nella Comunità europea
e una di Finanza locale e riforma tributaria, relazione a un convegno
palermitano del 1975. Depositate alla Biblioteca nazionale
centrale di Firenze, che come è noto conserva tutto ciò che
viene pubblicato. Compreso, per capirci, Sola come un gambo
di sedano, di Luciana Littizzetto. Presente peraltro 74 volte.
Fare un elenco di tutti quelli andati in pensione coi contributi
figurativi è impossibile. Troppo lungo. Clemente Mastella,
come dicevamo, dall'alba del terzo millennio è un pensionato
dell'Inpgi, l'Istituto di previdenza giornalisti, dopo aver fatto il
cronista per un totale di 397 giorni. Il democristiano Vincenzo
Scotti, che già incassa 10.000 euro di vitalizio, è in pensione anche
come dirigente industriale, mestiere cui non può aver dedicato
molto tempo avendo fatto il parlamentare per 7 legislature,
dai 35 anni in avanti. Il comunista Armando Cossutta è in
pensione quale «dirigente politico» da quando aveva 54 anni
ed era già alla Camera da 8.
Conosciamo l'obiezione: roba vecchia, adesso le regole sono
cambiate. Giusto. Ma si è trattato d'un ritocco. Da qualche
anno i parlamentari, di quei contrib uti figurativi che virtualmente
pesavano per il 33% sull'altrettanto virtuale stipendio,
devono versare una parte in soldi veri, reali, sonanti. Quanto?
1'8%. Un obolo. Il resto, cioè il 25% di quanto finirà nella pen-sione
mai guadagnata, continua a pesare sugli enti di previdenza
costretti al pedaggio.
Il privilegio centrale, quello di poter avere contemporaneamente
due o tre o quattro pensioni o stipendi, è rimasto intatto.
Certo, i nostri bramini dicono che non si tratta di pensione:
è un vitalizio! Ma la Corte costituzionale l'ha già chiarito nel
'94: possono chiamarla come gli pare, però è una pensione. C'era
in ballo la pretesa di un pensionato statale, Giovanni Samory
il quale, sostenendo che non c'erano motivi per concedere ai
parlamentari lo sgravio del 40% sul reddito imponibile dei vitalizi
(sgravio poi abolito) chiedeva che quello sconto fosse
concesso a tutti i dipendenti pubblici. I giudici gli diedero torto,
ma non mancarono di rilevare l'ambiguità del trattamento
previdenziale dei deputati che aveva «trovato origine in una
forma di rnutualità che si è gradualmente trasformata in una
forma di previdenza obbligatoria di carattere pubblico». Quella
che in italiano si chiama, appunto, pensione.
Perché siano così fis sati sull'uso delle parole è ovvio, Con
le regole che loro stessi hanno stabilito, il vitalizio si può sommare
a qualunque altro reddito da lavoro e anche ad altre pensioni,
senza alcun tetto. Fatta salva, s'intende, la normale riduzione
sulle pensioni di anzianità. E la lista di chi accumula entrate
diverse è lunghissima. Rosa Russo Jervolino incassa lo stipendio
di sindaco di Napoli, il vitalizio di 10.000 euro e una
pensioncina che riscuote da olt re 20 anni per aver lavorato un
periodo al Cnel e al ministero del Bilancio. Antonio Di Pietro
lo stipendio da ministro più l'indennità parlamentare più la
pensione da magistrato di cui gode da quando (mettendo insieme
il riscatto della laurea, i contributi da poliziotto e quelli da
pm) gettò la toga alla verde età di 46 anni. Publio Fiori, nato
nel 1938, il vitalizio massimo (9947 euro ) da parlamentare più
una pensione da avvocato dello Stato (già nel 1994 oltre 6000
euro al mese) guadagnata per almeno 15 anni grazie ai contributi
figurativi. Walter Veltroni lo stipendio di sindaco di Roma
e dal 2005 un vitalizio di 9000 euro. Che gli pesa al punto, ha
spiegato a Primo De Nicola dell'cEspresso», di «avere provato
a rifiutarlo cercando di farlo congelare» dopo di che «non
es-sendoci riuscito perché l'eventualità non è prevista dai regolamenti,
ha deciso di distribuirlo in beneficenza alle popolazioni
africane».
Andiamo avanti? Ad Antonio Gava, che fu per anni il monarca
della Dc napoletana e porta in groppa un paio di condanne
per corruzione, arrivano ogni mese un vitalizio di quasi
10.000 euro e altre due pensioni. A Vito Lattanzio, il monarca
di Bari, lo stesso vitalizio e tre pensioni. Per non di re di certi
accumuli celeberrimi come quello di Giuliano Amato, che nel
'98 andò in pensione a 59 anni, dopo essere stato docente universitario,
parlamentare, capo del governo e presidente dell'Antitrust,
con una somma così stratosferica (pari a 20.000 euro
di oggi) che, tornato al governo, si sentì in dovere di rinunciare
allo stipendio di ministro. O di Danilo Poggiolini, che al
vitalizio più modesto (6600 euro) somma ancora oggi una pensione
da segretario dell'Ordine dei Medici che intasca dal 1966.
L'anno in cui la tivù americana trasmetteva il primo episodio di
Star Treck, Indira Gandhi veniva eletta primo ministro e Celentano
cantava a Sanremo Il ragazzo della via Gluck.
Residui di un passato indecente riscattato da virtuose coro
rezioni? Falso. Il peso dei vitalizi agli ex deputati grava «oggi»
su Montecitorio (bilancio 2005 ) per 127 milioni di euro, 35 più
delle indennità dei parlamentari in carica. Una cifra immensa, 8
volte più alta dei 19.700.000 euro, in valori attuali, di tre decenni
fa, nel 1978. Ed è ancora destinata a salire e pesare sul futuro.
E anche i privilegi più insopportabili, quelli che fanno ribollire
il sang ue, non appartengono affa tto al passato . Lo dimostra
platealmente la presenza nel Parlamento italiano, nella
legislatura iniziata nel 2006, di 6 siciliani che ogni mese portano
a casa non solo lo stipendio da deputato ma anche, come ex
consiglieri regionali, un sontuoso vitalizio dell'Ars, l'Assemblea
regionale siciliana, dai 3 agli 8000 euro e mezzo. Sono il margheritino
Franco Piro, i forzisti Giovanni Ricevuto e Giuseppe
Firrarello, il nazional-alleato Nino Strano e i diessini Vladimiro
Crisafulli e Angelo Capodicasa, che incassa anche lo stipendio
da viceministro alle Infrastrutture e passa quindi in carrozza i
25.000 euro. Al mese. Tutta colpa, dicono, di un buco nei
regolamenti parlamentari siciliani. Ma come, direte voi, vogliono
farci credere di non essersene accorti? Esatto. Al punto che la
loro reazione, alla domanda sul perché non avessero segnalato
l'ingiustizia di questo privilegio, somiglia alla risposta che diede
un architetto palermitano quando gli chiesero perché diavolo
avesse costruito la grande piscina olimpionica, rimasta chiusa
per anni, senza l'impianto di riscaldamento. Si batté una mano
sulla fronte e disse: «Minchia: m'u scurdai!» .
9
Politica & Affari: Onorevoli SpA
Dalle casalinghe ai tunnel, dalle cliniche alle banche padane
Federica Rossi Gasparrini con certi uomini è proprio una farfallona.
Mica con tutti, si capisce. E non eroticamente. Non
c'entra niente con quelle cortigiane veneziane che secondo il
viaggiato re inglese Thomas Coryat avevan fama d 'aprir «la faretra
a ogni dardo». Quando s'innamora di un leader politico,
però, perde la testa. E lei la perde spesso. Ma se Zsa-Zsa Gabor
disse che una donna può avere un colpo di fulmine per un conto
in banca, lei ce l'ha per la poltrona. Che da b rava massaia
vuole con fodera double-face: versione governativa e versione
business. O se volete versione «idealx e versione «dollar».
Cominciò giovinetta, dedicando il tempo libero «alla Dc e
alle donne impegnate nell'agricoltura» legate a quei tempi alla
mitica figura di Paolo Bonomi. Un amore quieto: «Per 25 anni
restai fedele alla Dc». In particolare a Giulio Andreorti, ospite
d'onore a tutti i congressi della prima stagione di Federica e della
Federcasalinghe, da lei fondata nel 1982. Perché le piaceva? «Era
rassicurante.» Ma questo, dice sempre, «succedeva un secolo fa».
Nel «passato del trapassato remoto» . Rimasta vedova di Zio Giulio,
la Gasparrini aveva come tutte le vedove due alternative:mettersi
il lutto stretto o farsi dei nuovi amici. Scelse la seconda. E si
sa come vanno queste cose: mai una volta che una donna sola non
prenda delle sbandate. Uscì (politicamente) una sera con Bettino
Craxi, si buttò (politicamente) in un tango con Umberto Bossi
(erni piaceva, ora però semb ra animato da uno spirito di rottura e
ciò alle donne non piace») e si fece baciare (politicamente) da
Ferdinando Adornato, che voleva metter su casa con Alleanza
democratica. Finché credette di aver trovato l'amore cui anelava:
Mariotto Segni. «Ecco l'uomo che aspettavamo.»
Ma, ahinoi, anche quella passione sfiorì. E Federica, dopo
aver fatto un pensierino su Giuliano Amato (che presentandosi
in pubblico fasciato come Muzio Scevola per un'ustione subita
aggiustando il frigo sembrò l'eroe dei mariti casalinghi), incontrò
Silvio Berlusconi. Il Cavaliere sì, sapeva parlare alle massaie:
«Anch'io sono stato un po' donnina di casa, perché quando
studiavo ero io che toglievo la polvere e facevo la spesa» .
Un trionfo. «E un uomo raffinato, disponibile, sorridente»
sancì Federica: «Piace alle donne perché è concreto». Macché.
Pochi mesi e il sogno si spezzò: «Lui e il Polo ci hanno trattato
come servette», Basta, via, meglio l'Ulivo. D'ora in avanti, dichiarò ai giornali,
«niente matrimoni, solo amanti passeggeri». E grazie all'amicizia
di Donatella Zingone in Dini, padrona di mezzo Costarica
ma casalinga ad honorem, cercò consolazione sulla spalla
del suo Lamberto, col quale tentò la sorte alle elezioni del '96:
«Ho scelto Rinnovamento per rassicurare l'ala moderata dell'associazione
». Trombata. E fu così che finì, trottolino amoroso,
fra le braccia di D'Alema, che lei confidenzialmente chiamava
solo «Massimo» e di Romano Prodi. Ricompensata con la
nomina a viceministro e accantonato il progetto di una catena
tipo McDonald's «con torte della nonna e frittatine», ritrovò
infine una vecchia fiamma: Tonino Di Pietro. Incoronato come
«il migliore dei migliori» perché «Egli non è di destra, né di sinistra:
è Uomo». Un amore durato fino al settembre del 2006 quando lei,
finalmente portata dall'Italia dei Valori alla Camera, sbatté la
porta senza manco chiudere il gas come Carmencita, e scappò
nel gruppo misto col nuovo boy-friend (politico) , l'epicureo
Sergio De Gregorio del movimento Italiani nel Mondo. Ma
era solo una fuitina. Poche settimane e già stava con Clemente
Mastella. Pronta a lanciarsi, fresca di bigodini e armata di
mattarello e cellulare, in nuovi cimenti. E nuovi business, si
capisce. Donna di spirito assai pratico, la Regina Zenobia delle
massaie organizzate ha infatti, come dicevamo, una doppia vita.
Nella prima amoreggia col fidanzato politico di turno. Nella seconda,
da brava casalinga, tiene i conti della casa. Conti che,
bene o male, le tornano sempre. Basti dire che anche quando le
andò proprio a rovescio, nel disastroso 2001 delle sinistre alle
quali si era aggregata, riuscì comunque a farsi dare, agli sgoccioli
della stagione ulivista, la presidenza del comitato dell 'Inail
(l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro) che amministra il fondo autonomo per le casalinghe.
Incarico man tenuto anche dopo essere diventata onorevole.
Senza fa re una piega.
Perché le massaie non sono solo la sua ragione di vita: sono
la sua ragione sociale. Intorno alla Federcasalinghe, Federica
Gasparrini ha costruito un gruppo imprenditoriale, controllato
dalla Holding Famiglia (e ti pareva...) che lei stessa presiede.
C'è un fondo pensioni complementare che ha come direttore
generale il figlio Lorenzo. Poi una società turistica (Global
Tourist Services Srl) fondata per aprire alle casalinghe le porte
del business dei Bed and Breakfast e controllata al 70% da Federcasalinghe
e al 30% dal solito Lorenzo. Poi la società editoriale
Media Services Srl (30% Federcasalinghe, 50% Lorenzo
Gasparrini) che a sua volta controllava il 20% della Europoloquatt
ro, la concessionaria pubblicitaria (fallita) del circuito televisivo
Cinquestelle e possiede il 20% dell'impresa informatica
Servizi Tecnologici Aziendali e il 40% di un consorzio per la
formazione professionale, il Consorzio Outline, che fa parte anch'esso della Holding Famiglia grazie a un complicato intreccio societario. Una girandola di «Srl- da perdere la testa. Alla quale vanno aggiunti ancora un sindacato (Domina: organizzazione dei
datori di lavoro domestico), un patronato (Inforrnafamiglia),
una società (Rete-Rete) per vendite porta a porta. Una Associazione
utenti radiotelevisivi. Una Ong (Donneuropee), E per finire
la grande scommessa sul futuro. I giovani? Ma va là: l'Associazione
delle pensionate e dei pensionati. Dopo di che impelle
una piccola curiosità: ma tra tante società da seguire, il
tempo per fare politica dove lo trova?
Una domanda che andrebbe girata anche ad altri, dei nostri
bramini. Primo fra tutti , ovvio, Silvio Berlusconi. Che proprio
a una faccenda di società e di bilanci deve il suo ingresso
in politica. Una volgare insinuazione comunista? No, lo dice
Marcello Dell'Utri in un'intervista del 2003 per il libro Saranno
potenti? ad Antonio Galdo: «Eravamo nel settembre del 1993 ,
Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse:
"Marcello, dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo
alle prossime elezioni...". Lui aveva provato in tutti i modi a
convincere Segni e Martinazzoli per costruire la nuova casa dei
moderati (. ..) "Vi metto a disposizione le mie televisioni" aveva
detto. Tutto inutile, e allora decise che il partito dovevamo farlo
noi. Poi c'era l'aggressione delle procure e la situazione della
Fininvest con 5000 miliardi di debiti. Franco Tatò, che all'epoca
era l'amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie
d'uscita: "Cavaliere, dobbiamo portare i libri in tribunale" (...)
I fatti poi, per fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire
che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito,
Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come
Angelo Rizzoli che, con l'inchiesta della P2, andò in carcere e
perse l'azienda». L'azienda, com'è noto, non l'ha persa. Anzi. I beni di famiglia
che nel 1994 erano valutati in 3,1 miliardi di euro ne valevano
nel 2005 ben 9,6. Merito anche di alcune accorte leggi
confezionate su misura. Fin dall'inizio. Da quel '94 in cui, entrato
a Palazzo Chigi, varò un decreto che stabiliva come non si
potessero mai più aprire nuovi cinema a meno di due chilometri
in linea d'aria «dalla più vicina sala operante». E chi ci guadagnava
di più, dal nuovo divieto che segava le gambe a eventuali
concorrenti? Lui. Lo diceva un'indagine dell'Antitrust,
secondo cui, attraverso le società Cinema 5, Cinema 5 Gestione
e Delta, la Fininvest aveva in pugno il 34% delle sale di Roma e
il 31% di quelle di Milano.
Fare la lista delle leggi e leggine varate con soddisfazione
personale dal Cavaliere sarebbe solo la ripetizione di mille inchieste
giornalistiche. Si va dagli incentivi sui decoder per il digitale
terrestre (poi censurati dalla Ue) propagandati davanti
agli stadi con migliaia di volantini, all 'accoglimento da parte
dell'Agenzia per le Entrate di un ricorso del Milan secondo cui
l'Iva sui diritti tivù va pagata dalle squadre in Coppa Uefa ma
non da quelle in Champions League. Dallo stop al decreto di
Bobo Maroni sulla riforma del Tfr che non piaceva a Mediolanum,
all'inasprimento delle pene per chi clona cassette e dvd
dei film , prodotti anche dalla berlusconiana Medusa.
Dall'accordo tra il ministero dell 'Istruzione e le Poste per
consegnare nelle case i libri scolastici comprati attraverso una
società della Mondadori alla legge Gasparri sulle emittenze che
secondo Fedele Confalonieri «regala a Mediaset un bacino di
crescita potenziale di 1-2 miliardi di euro» e che secondo Francesco
Storace, Maurizio «non solo non ha scritto ma non ha
manco letto». Eppure, guai a parlare di leggi ad personam. «La Gasparri?
E io che c'entro?» s'indignò in un'intervista al «Messaggero». Niente, a sentirlo allora. Ma appena il nuovo ministro ulivista per le Telecomunicazioni Paolo Gentiloni presentò il suo
progetto di revisione della legge sulle emittenze, alla fine di
gennaio del 2007 , la reazione del Cavaliere fu però quella di
Padron 'Ntoni pronto ad azzannare tutti nei Malavoglia in difesa
della «sua» roba: «Quello non è un disegno di legge ma un
piano criminale verso il capo dell'opposizione e verso le sue
proprietà private». Tombola. Chissà se un giorno dirà la stessa frase anche Pietro Lunardi.
Le orbite del sistema planetario che ruota intorno a
«Pier Veloce», nomignolo guadagnato per la lingua troppo
spesso più svelta del pensiero (come quando disse che «con la
mafia e la camorra dobbiamo convivere» o confidò gagliardo
che proprio lui, che aveva introdotto la patente a punti, amava
«correre di notte a 150 all'ora e anche di pi ù») non sono infatti
per niente chiare. Fin dall'inizio. Basti ricordare che, giurato
come ministro il martedì, cinque giorni dopo (e di domenical)
già aboliva la legge con cui il suo predecessore Nerio Nesi
aveva finalmente imposto in Italia il divieto europeo di costruire
ancora gallerie a doppio senso di marcia. E dov'era in
ballo un tunnel a doppio senso di marcia? Sull'autostrada della
Val Trompia. Progettato da lui e dalla sua Rocksoil. Una
schifezza tale da spingere perfino il «Giornale di Brescia», che
certo comunista non è, a censurarlo: «Quell 'autostrada nascerà
già vecchia».Certo, a sentire lui non c'era problema. Lo disse due settimane
prima che Berlusconi lo scegliesse, in un momento in cui
pareva che sulla sua nomina qualche alleato avesse dei d ubbi:
«Cambio mestiere, vendo». Tornò a giurarlo di lì a una settimana
in un'intervista a «Libero»: «L'ho già detto in tutte le salse.
Tre fra i migliori avvocati italiani hanno già pronti due progetti
per liquidare in un giorno, in sole ventiquattr'ore, il mio teorico
conflitto di interessi. O cedo tutto o concentro l'attività esclusivamente
all'estero, punto e basta». Ci tornò sopra dopo il giuramento
in Quirinale: «Molto probabilmente cedo alle b anche
». E infine, preso possesso della scrivania, mandò tutti i moralisti
a quel paese: «La mia società ha lavorato in passato e lavorerà
in futuro . E entrata nei più grossi lavori d'Italia sempre
per motivi di professionalità e non per appoggi politici né di favore
da nessuno. Continuerà a lavorare e non si capisce perché
cento famiglie dovrebbero esser buttate sulla strada». E il conflitto?
«Non sono mica Rothschild !»Come andò a finire lo sappiamo: con la cessione della
Rocksoil (attraverso l'immobiliare San Marco, che ha sede legale
in piazza San Marco l a Milano dove stanno anche la stessa
Rocksoil e la Società Italiana Gallerie) ai figli Martina, Giovan na
e Giuseppe. Così da consentire all'ineffabile Carlo Giovanardi
di andare in Parlamento e controbattere alle critiche dell'opposizione,
come scrisse l'Ansa, precisando «che la proprietà della
società Rocksoil non sarebbe di Lunardi, ma dei suoi familiari
». Ma come, signor ministro, gli avrebbe chiesto Giorgio Santi11i
del «Sole 24 Ore»: non era deciso a vendere? «Era l'orientamento
che sembrava maturare allora, poi il testo della legge è
cambiato. Ripeto: mi adeguerò alle regole, senza penalizzarmi
sul piano economico più di quanto sia necessario.»
Sapete come funziona all'estero? La moglie del principe
Edoardo, Sophie Rhys-Jones, venne costretta da Elisabetta II a
lasciare il suo posto di responsabile di un'agenzia di pubbliche
relazioni perché la regina non voleva che qualcuno pensasse che
la ragazza potesse sfruttare la sua posizione nella famiglia reale
per fare affari. E Paul O'Neill, il segretario al Tesoro statunitense
voluto da Bush nel 200l , per 13 anni alla guida del colosso
dell'alluminio Alcoa, fu obbligato a vendere le azioni e le opzioni
che lo legavano ancora alla società e a diverse holding.
Due esempi fra mille. Dalle altre parti certi giochetti, se stai
al governo, non si possono fare. Anche da noi, una volta. Appena
fatto ministro, Sidney Sonnino si affrettò a vendere tutte le
azioni lasciategli dal padre riconvertendole in buoni del tesoro e
Quintino Sella si liberò dell' industria tessile familiare. E merita
di essere riletta una lettera del 1954 di Biancarosa Fanfani alla
sorella: «Amintore è contento di essere diventato presidente del
Consiglio ma io ho pianto tutta la notte. Mi ha imposto di vendere
i miei buoni del Tesoro, non vorrebbe si pensasse che possa
avete un interesse nella politica del governo sul risparmio».
Immaginiamo le risate di Lunardi: uffa, 'sti moralisti!
Il senatore diessino Paolo Brutti, la sua bestia nera, si prese
nel 2005 la briga di andare a riepilogare in un'interrogazione
parlamentare un po' di appalti inseriti nella lunardiana Legge
Obiettivo e dati a società «riconducibili al ministro Lunardi».
Si andava dalla variante di valico sulla Bologna-Firenze alla Firenze
nord, dalle gallerie sull'autostrada Adriatica a quelle sulla
Parma-La Spezia, dai maxilotti sulla Salerno-Reggio Calabria
al gran raccordo anula re, dall'alta velocità ferroviaria dei tratti
Torino-Lione, Torino-Milano, Milano-Genova e Milano-Venezia
fino alle metropolitane di Milano e di Napoli.
Le società nel mirino etano sei. La prima, ovvio, è la Rocksoil,
il colosso del settore che rastrellava da anni commesse milionarie.
La seconda e la terza erano la Rockdata e la Rockdesign
(possedute da Martina Lunardi e dalla Rocksoil), la quarta la
Ergotecna, la quinta era il Consorzio 3S (costituito da varie società
tra cui la Stone) e la sesta era appunto la Stone.
Lasciamo stare i dettagli societari e mettiamone a fuoco
due. Una è la Ergotecna, costituita un attimo prima di avere
l'incarico di progettare e dirigere i lavori del passante di Mestre.
Un passo indietro: come si finì per puntare su questo passante?
Ci si finì scartando la proposta di un doppio tunnel presentata
dalla Norconsult-Nocon, una società norvegese che aveva bucato
Oslo portando sottoterra tutto il traffico non locale,
deteneva il record mondiale della galleria più profonda a
240 metri sotto il mare e aveva all'attivo 4000 chilometri di gallerie
costruiti nel mondo, cioè il quadruplo di tutti i tunnel stradali
italiani messi insieme. Sarebbe costata, la tangenziale sotterranea,
400 milioni, prezzo bloccato, tempi di costruzione tre
anni. Possibile? Ne erano così sicuri, i norvegesi, che erano
pronti a firmare la penale: un tot al giorno di ritardo.
No grazie, avevano risposto il ministero e la Regione: ci
vorrebbero due tunnel più grandi, da scavare costruendo apposta
la più grande «talpa» del pianeta, una pala di 16 metri e
90 centimetri. Un progetto temerario. E come tale presto ab bandonato:
meglio il passante largo. Chi era il promotore del
tunnel enorme che aveva fatto bocciare la più economica proposta
norvegese facendo optare per il passante? Pietro Lunardi.
E chi possiede il 65% della Ergotecna incaricata di occuparsi
del passante? Sorpresa: Giacomo Cesare Rozzi, nipote
della mamma di Pietro Lunardi! Quanto alla Sto ne, società di monitoraggio per le opere
sotterranee, le coincidenze non sono meno curiose. Fatto ministro,
«P ier Veloce» la cede a una strana coppia. Uno è P aolo
Francesco Lazzati, il fidatissimo amministratore unico dell'azienda
lunardiana che resta al suo posto con la nuova gestione
anche se detiene solo il 5%, una quota di infima minoranza ma
che gli consente (sorpresa!) di avere un diritto di prelazione su
tutto il pacchetto azionario. Il secondo è Ettore Giugovaz. E
chi è? Un grande progettista internazionale in grado di dare lustro
a un'impresa cui Lunardi è affezionato come fosse una figlia?
Un gigante della finanza seduto su un patrimonio di miliardi
di euro? Un garante di specchiata virtù suggerito dagli amici premurosi? No. E un signore dal profilo incerto che va e viene dal Sud America, che è finito sui giornali per i suoi contatti
con il bancarottiere Florio Fiorini e che tornerà di lì a poco
agli onori della cronaca per la sua presenza al fianco di Calisto
Tanzi nei giorni della misteriosa latitanza in Ecuador dopo
l'esplosione dello scandalo: lui prenota per Tanzi l'Hotel Akros
a Quito, lui lo raggiunge in Sud America, lui torna con l'uomo
allora più ricercato d 'Italia. Fino a essere rinviato a giudizio per
concorso in bancarotta e associazione a delinquere, con richiesta
di patteggiamento, nel processo Parmalat.
Eppure (sorpresa! ) la Stone va a gonfie vele. E col suo fondatore
imbullonato alla scrivania ministeriale vede prodigiosamente
levitare le commesse e il giro d'affari. E in cinque anni
moltiplica per 6 il fatturato. Passando da 2 milioni e mezzo di
euro nel 2001 a quasi 15 milioni nel 2005. Una performance alla
quale il ministro non può non aver assistito con gli occhi umidi
di orgoglio. Tanto più che gran patte di questo exploit è dovuto
alla scelta di affidarsi ad altre società esperte del settore. Tipo?
Indovinato: la Rocksoil. Con la quale sarebbe avvenuto, stando
alle denunce, uno «scambio di personale e contra tti attivi».
E la promessa «i miei figli lavoreranno solo all'estero»? Sì,
ciao. Basterebbe citare l'appalto per «la progettazione esecutiva
e costruttiva regist rate nel bilancio 2004 di una galleria del
collegamento ferroviario Milano-Malpensa», collegamento gestito
dalle Ferrovie Nord, controllate dalla Regione Lombardia.
O la partecipazìone come protagonista principale del nostro
«Pier Veloce», poche settimane prima di lasciare la poltrona
ad Antonio Di Pietro, a una riunione del Cipe, il Comitato
interministeriale per la programmazione economica, che deliberò
lo stanziamento di una somma enorme per i lavori nella
metropolitana di Napoli nei quali, guarda coincidenza, c'entrava
anche la sua Rocksoil e sui quali lui stesso, in quanto ministro,
era delegato a vigilare. O ancora la commessa ottenuta
sempre dalla Rocksoil (attraverso una cascata di subincarichi
e consulenze» spiegava un'interrogazione dei senatori verdi
Anna Donati e Giampaolo Zancan) per una galleria destinata a
saggia re le condizioni di scavo sul versante francese della Tav
Torino-Lione. Lavori «all'estero» sì, ma commissionati dalla
società francese Ltf, controllata alla pari dalla francese Rff e
dall'italiana Rfi, che gestiscono le reti ferroviarie francese e italiana.
Col risultato che a pagare una parte dei lavori, stando al
cartello del cantiere fùmato per Le Iene da Alessandro Sortino,
c'erano il governo italiano e le nostre Ferrovie dello Stato. Il
tutto a prescindere dalla questione principale: se voi foste i
padroni di una grande multinazionale straniera non offrireste sontuose
commesse in giro per il mondo alla ditta familiare del ministro
delle Infrastrutture italiano che poi decide sulle sontuose
commesse in Italia? Bene: un po' di queste cose finirono all'Antitrust.
Sentenza: tutto okay. Ovvio: sennò che senso avrebbe
avuto cambiare la legge?
Che fortuna. essere figli di Pietro Lunardi! Anche esserlo
di Enrico Ferri, però, non è da butta r via. Chiedete a Jacopo
Maria, figlio del mitico ministro socialdemocratico dei Lavori
pubblici. Ricordate? Era quello con la barbetta mazziniana che
diventò famoso perché si piccò di obbligare gli italiani a non
superare i 110 all'ora. Una fama meritata per la cocciutaggine
un po' vanesia che ci mise. Ma che oscurò un'altra storia che
forse illuminava meglio il personaggio.
Dovete sapere che fino a qualche tempo fa , grazie ai regolamenti
fatti in casa, i giudici eletti al Parlamento andavano in
aspettativa ma continuavano a ricevere lo stipendio e ad avanzare
di grado. Ma guai a offenderli dicendo che avanzavano per
anzianità: formalmente, come i magistrati ordinari (via via promossi
dopo una pronuncia del Csm su parere del Consiglio giudiziario)
facevano carriera «per meriti professionali». E chi poteva
dire se un uditore giudiziario in aspettativa aveva fatto così
bene il suo lavoro di uditore giudiziario da meritare una promozione?
Ovvio: il Consiglio di presidenza della Camera.
Ma se il ministro non era parlamentare come nel caso di
Enrico Ferri? Bel problema. Ma lui non si perse d'animo: si
diede il parere da sé. «Era consigliere di Corte d'Appello e aveva
maturato l'anzianità per diventare consigliere di Cassazione»
racconta Mauro Mellini, a lungo deputato radicale e nemico sto rico
dei privilegi togati. «Faceva il ministro dei Lavori pubblici
e stese una relazione, esilarante, dicendo di aver diritto a essere
promosso in quanto non aveva solo fi rmato atti amministrativi
ma anche promosso decreti legge, come quello sui 110 all'ora o
sulle cinture di sicurezza. Auto-promozione, auto-elogio, autoaumento
di stipendio. Va da sé che con un padre così, Jacopo Mattia Ferri succhia
politica da quando gli diedero il primo biberon. E ha continuato
a succhiare. Eletto due volte consigliere regionale toscano
per Forza Italia, il giorno in cui il babbo (due volte eurodeputato
berlusconiano) decise di lasciare gli azzurri alla vigilia delle
elezioni del 9 aprile del 2006 per passare all'Udeur, si trovò
davanti a un dilemma: scegliere il papà o il Cavaliere? Scelse
papà. E restò imbullonato non solo al seggio regionale ma ano
che a un paio di altre poltrone. Come quella di azionista della
tivù locale, Tele Apuana, di cui il babbo è il prop rietario
(all'80%) e la sorella Camilla presidente, dopo essere subentrata
all'altro fratello Cosimo Maria. O quella di consigliere del
Consorzio per lo sviluppo della ricerca geofisica mineraria applicata
e ambientale. Chi presiede il Consorzio? Pap à Enrico.
Chi sono i soci? Uno è il Centro lunigianese di studi giuridici,
guidato da sempre da papà Enrico. L'altro il Comune di Pontremoli,
del quale (dopo una complicata vicenda di ineleggibilità,
ricorsi, sospensive del Tar che non staremo a riassumere)
fa oggi le funzioni di sindaco dopo essere stato podestà quattro
volte dal proterozoico al giurassico, semp re lui: papà Enrico.
Che essendosi nel frattempo «mastellizzato» ha realizzato il miracolo
di una giunta di destra guidata da un sindaco di sinistra.
Un buon cognome aiuta. Non solo nel caso dei figli. Lo dicono,
per esempio, le intercettazioni telefoniche che nell'estate
del 2006 fece ro scoprire relazioni ambigue nel mondo di Alleanza
nazionale, il partito che con Francesco Storace aveva
avuto in mano per cinque anni la Regione Lazio e poi il ministero
della Salute. E dove la moglie di Gianfranco Fini, Daniela
Di Sotto, risultava socia in affari con la famiglia di Francesco
Proietti Cosimi (deputato di An e braccio destro di suo marito)
in due strutture sanitarie romane, l'Emmeerre 3000 e la Panigea
Poliambulatorio Cave, convenzionata col Servizio sanitario
nazionale. Una partita in cui giocava, sia pure con una piccola
quota, anche la Tosinvest degli Angelucci, potentissima dinastia
della sanità privata capitolina che offre generosi contributi
sia alla sinistra sia alla destra e altrettanto ecumenicamente finanzia
sia «Libero» (a destra) sia «il Riformista» (a sinistra). E
giocava anche un'altra parente, Patrizia Pescatori, che del presidente
di An è cognata in quanto moglie di Massimo Fini e nel gruppo
Angelucci, per cui lavora come medico, aveva investito
circa mezzo milione di euro.
C'è chi dirà: non vorrete sostenere che i parenti dei politici
non hanno il diritto di avere una loro libertà imprenditoriale!
Giusto. Ma indovinate quanto ci mise la Panigea, in un Paese
come il nostro in cui si impiegano mesi o anni per una pratica,
a ottenere una convenzione per le risonanze magnetiche, cioè
uno degli esami più costosi e a più alto margine di guadagno?
Una settimana. Sia chiaro: perfino il giudice precisa che «Fini
appare del tutto estraneo alla fitta rete di affari, a tratti poco
chiari, gestiti in comune dai due», cioè la moglie e Proietti Cosimi.
Lo dice lei stessa, la pasianaria nera, in una delle sue sfuriate
registrate con il socio: «L'ho detto a Gianfranco... Ho fat to
vedere il foglio a Gianfranco, che ha fatto, dico: "lo ho tirato
fuori 'sti soldi, gli ho tirato... E a te non t'ho chiesto'a' perché
tu mi hai detto: non mi mettete più in mezzo". Okay. Però
tu sappi che se tiri fuori mille lire per tuo fratello, andiamo a litigare
io e te. Primo. Secondo: mi sono rotta il cazzo che la gente
c'ha le cose quando pagano gli altri.. .».
TI solo «essere moglie di» , per capirci, pesa. E pesa molto,
nei rapporti a cavallo tra la politica e gli affari. Lo confermano
un po' tutte le intemerate della signora Daniela. Sulle quali
spicca, per l'impronta lessicale estranea alle dame inglesi, l'elegante
buffetto all' ex segreta rio del marito: «Tu vai a rubare a
casa dei ladri, ricordati questo... ricordati questo, che l'unica
università che ho conosciuto io a differenza di te, è quella della
strada, hai capito? Quella del marciapiede. lo ho conosciuto
quella... E con quella io ti spacco il culo!».
Ah, le mogli ! Ah, la Sanità ! Anche la consorte di Cuffaro,
Giacoma Chiarelli è stata al centro di rapporti non limpidissimi.
Prima di possedere, fino al 2003, il 25% del poliarnbulatorio
La Grande Mela, tra i più grossi di Palermo e ricco grazie
alla convenzione con la Regione di cui Totò era presidente, la
donna era stata socia nel Centro di medicina nucleare San Gaetano
di un uomo di non specchiate virtù. Quel Michele Aiello
che prima di finire ammanettato con l'accusa di avere rapporti
stretti con la mafia di Bernardo Provenzano, era l'imprenditore
più ricco e influente della Sicilia grazie soprattutto a Villa Santa
Teresa, la clinica di Bagheria dotata delle più moderne tecnologie
che ricevette dal 2001 al 2003 oltre 100 milioni di euro di
rimborsi regionali.
Una somma enorme. Cinquanta volte più alta, secondo il
procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, di quanto le cosche
incassano in un anno dal taglieggiamento di un intero quartiere
come il Brancaccio. Un affarone. Che aveva bisogno di amicizie
politiche se è vero che, come spiegò all'Ansa Francesco Forgione,
dal 2006 presidente della Commissione Antimafia, «l'accordo,
siglato dall'amministratore giudiziario della clinica, nominato
dal tribunale dopo il sequestro, e dai vertici dell'assessorato
regionale alla Sanità» garantì la prosecuzione dell'attività del
centro consentendo «al Servizio sanitario nazionale un risparmio
del 45-70% sulle prestazioni specialistiche».
Ed è questo il tema della sanità privata in Sicilia: se i margini
di guadagno possono essere così alti , perché mai i politici siciliani
dovrebbero dannarsi l'anima per far funzionare la sanità
pubblica? Se ai privati arrivano i soldi e ai «pubblici» le rogne,
perché loro dovrebbero trasformare certi nosocomi sgarrupati
in cliniche linde ed efficienti? Domande niente affatto retoriche:
buona parte delle case di cura private dell 'isola sono in
mano (direttamente o attraverso mogli, figli, parenti) agli esponenti
dei partiti che governano la Regione e le città. I quali da
una resurrezione virtuosa del comparto pubblico sarebbero direttamente
danneggiati nel portafoglio.
Se l'economia siciliana è malata, il business della malattia
scoppia infatti di salute. Nel solo 2006 ha mosso 7.729.922.709
euro. Oltre 15.000 miliardi di lire. Troppi, per un'assistenza come
quella offerta. Dove capita di morire perché le ambulanze
non arrivano in tempo ma per tirar su voti, stando al rapporto
già citato della Ragioneria dello Stato, sono stati assunti al
118» addirittura 3070 autisti e portantini per 221 autolettighe:
quasi 14 per ogni mezzo. Dove le convenzioni pubblicoprivato
sono più numerose che in tutto il resto d'Italia messo
insieme. Dove le strutture private che si spartiscono i soldi non
sono spesso neppure accreditate: dopo anni di rinvii, le regole
per l'accreditamento decise nel 1999 non sono mai state applicate.
Risultato: tutte quelle che succhiano alle mammelle di Stato
e Regione sono, formula magica, «pre-accreditate», E non
hanno sovente alcuna fretta d'uscire dalla precarietà: il rispetto
di norme certe potrebbe metterie fuori dal giro.
Quali siano le priorità, in Sicilia, lo dice il confron to sulla
civiltà con cui vengono accolti gli anziani nelle case di riposo:
un ospite ogni 146 abitanti in Lombardia, uno ogni 5359 nell'isola. Pochi soldi, tante grane: non interessano. In altri campi, invece, è un affollarsi di mosconi sul miele.
Basti dire che in Lombardia ci sono 6,6 cent ri convenzionati
ogni 100.000 abitanti, in Veneto 3, in Sicilia 26,6.
Ovvio, la sanità è la prima «industria» isolana. Ma un'industria,
spiega il procuratore aggiunto Roberto Scarpinato , coi
difetti dei carrozzoni pubblici. Dove «si assiste a una sinergia
tra i vizi della nuova cultura neoliberista del profitto a tutti i
costi e i vizi della vecchia cultura tribale premoderna della roba
». Dove le 55 cliniche private, delegate a fare quello che in
un Paese normale fanno gli ospedali pubblici, vanno a incassare
in modo spesso immotivato. I meccanismi di questi pagamenti
sono complicatissimi. Il succo è che, dài e dài, i soldi
pubblici arrivano ormai a coprire il 92,5% delle rette.
Va da sé che con una Regione così generosa, possedere le
cliniche è un affare. E chi trovi, tra i soci o negli immediati dintorni?
Il forzista Guglielmo Scammacca della Bruca, già assessore
regionale ai Lavori pubblici, che ha quote nella Casa di cura
Musumeci e nell'Istituto oncologico del Mediterraneo di Catania.
E l'autonomista Antonio Scavone, ex deputato dici e cognato
di Salvato re Zappalà titolare della metà dello studio di
diagnostica X-Ray di Paternò. E Salvatore Misuraca, assessore
al Turismo di Forza Italia e marito di Barbara Cittadini, socia
maggioritaria della Casa di cura Candela di Palermo e del laboratorio
ViIIareale nonché figlia dell'ex assesso re regionale alla
Sanità Ettore Cittadini. E ancora l'azzurro Francesco Cascio,
già vicegovernatore e poi capogruppo azzurro, che ha una quota
forte nella Sicilcosmo (costruzioni case di cura).
E poi ancora il medico Giovanni Mercadante, già deputato
regionale forzista, p rop rietario col figlio Tommaso del gruppo
M&F (gestione di case di riposo e centri diagnostici) e padrone
della metà dell'Istituto meridionale Angiò-Tac, arrestato nel luglio
del 2006 con l'accusa di essere stato «un punto di riferimento
per la cura degli interessi di Bernardo Provenzano, nel periodo
della sua latitanza». E il Ccd Pierfausto Orestano titolare con
la famiglia della Casa di cura Orestano di Palermo. E Carmelo
Drago, assessore al bilancio di Modica, socio del Centro di riabilitazione
Europa di Ragusa e fratello dell'ex presidente regionale
dell'Udc Giuseppe. E poi l'azzurro Alessandro Pagano, ex assessore
regionale ai beni culturali e cognato di Angela Maria Torregrossa,
padrona della clinica nissena Regina Pacis. E Ferdinando
Latteri, sconfitto da Rita Borsellino alle primarie dell'Unione, la
cui famiglia è titolare dell'omonima clinica. E suo cugino Filadelfio
Basile, già senatore di Forza Italia ora alla Margherita, la cui
famiglia possiede la clinica Basile di Catania.
P er non dire del «caso Siracusa». Dove sono padroni del
tutto o in parte di questa o quella clinica, questo o quellaboratorio
il potentissimo cuffariano Nunzio Cappadona (che guida
un piccolo impero di una quindicina di società) e Bruna Cassola,
compagna del presidente dell'Antimafia della stagione berlusconiana
Roberto Centaro (che nel mondo delle case di cura
ha anche il cugino Aldo Centaro) e il deputato forzista regionale
Giancarlo Confalone e l'ex assessore comunale azzurro all'ambiente
Antonello Liuzzo e altri ancora, ché a far l'elenco
non si finirebbe più.
Tutto lecito, per carità. Magari cristallino. Ma resta il tema:
questa rete di affari può o no seminare il d ubbio che non tutti
gli interessati abbiano voglia di battersi come leoni per dare la
p recedenza al pubblico sul privato? Tanto più che, a Siracusa, si
è assistito a fatti curiosi. Come la scelta di non comprare una risonanza
magnetica (prezzo: meno di un milione di euro) ma di
prendere in affitto senza gara d 'appalto una Rmn mobile costata
750.000 euro nei soli sei mesi iniziali. Data della delibera: lO
febb raio 2003 . Tre giorni dopo alla Asl avevano già sul tavolo
(protocollata ! ) la lettera d'offerta della società che l'affittava. E
il giorno dopo, 14 febbraio, l'affare era già fatto. Miracolo: 4
giorni! Compreso il viaggio della lettera! E poi dicono che è
sempre colpa della burocrazia lenta...
È terra di miracoli, la Sicilia. Ricordate la storia degli autobus
che, come sant'Antonio, avevano il dono dell'ubiquità?
Mentre portavano comitive a Segesta o ad Agrigento figuravano
in fatti contemporaneamente in servizio nelle valli trentine.
Decine e decine. Basti dire che soltanto a Giardini Naxos ce
n'erano almeno 14 che lavoravano con le carte avute dai generosi
compaesani di Cesare Battisti. O che il solo Comune di
Trento aveva emesso 241 licenze: 40 usate su e giù pei monti
provinciali e 201 finite coi rispettivi autobus in giro per l 'Italia,
in larga parte nell'amata Trinacria.
Ogni pullman aveva allo ra diritto di girare solo se dotato
di una propria licenza, data dai Comuni in base a una serie di
requisiti. Risultato: quel pezzo di carta, in Sicilia, era diventato
una merce preziosissima. E accanitamente difesa cittadella per
cittadella. Finché qualcuno aveva scoperto che la Provincia di
Trento, unica in Italia, non aveva un tetto alla concessione delle
licenze. Certo : occorreva dimostrare d 'avere lassù, nella Val
d'Adige o in quelle vicine, un rimessaggio o una sede o una parte
del lavoro. Ma perché scoraggiarsi?
E fu così che agli albori del nuovo secolo presero a circolare
in Sicilia almeno un centinaio di bus a noleggio forn iti di una
licenza per operare in Trentino e smistati laggiù grazie a un aiutino.
La messinese Mediterranea Bus, per dire, risultava avere a
Cinte Tesino la sede e una rimessa a casa di \'V'alter Perotto, il
messo municipale. A Storo, un paese di 4411 abitanti, risultavano
35 licenze di cui 28 finite in Sicilia. Fino al record di Ruffré,
un borgo vicino alla Mendola: un campanile, un albergo,
un salumiere, un paio di bar, un ciuffo di case, 436 ab itanti e 17
licenze. Una ogni 24 anime.
Finché finalmente, alla fine del 2003, adeguandosi alla legge
nazionale appena approvata, la Sicilia non varò le nuove norme.
Che fotografavano l'esistente: da quel momento la licenza è
aziendale e ogni azienda ha il diritto di avere al massimo il numero
di autobus che aveva al momento dell'entrata in vigore del
nuovo sistema. Morale: la fotografia premiava, di fatto, quanti
avevano fatto i furbi con gli autobus trentini. Tra i quali c'era,
pura coincidenza, la Cuffaro Group, l'azienda di famiglia del governatore.
Il quale respira cherosene da quando era picciriddu.
Meglio: cherosene e turismo. E proprio nel settore del turismo
Totò è andato incontro a un'altra coincidenza. Era il 2000,
lui era assessore all'Agricoltura e coi fratelli Giuseppe (che
manda avanti la società di pullman) e Silvio Marcello Maria (dipendente
regionale) avvi ò un bell'affare con la Raphael Srl: la
ristrutturazione di un antico palazzo appartenuto al principe di
Granatelli per farne un albergo a cinque stelle, il Grand Hotel
Federico II. Loro misero poco più di un quarto , gli amici Fabio
e Giacomo Hopps (eredi di ]oseph Hopps, pioniere degli importatori
del Marsala a Londra alla fine del Settecento) un altro
quarto e il resto lo mise Sviluppo Italia, società controllata al
100% dal Tesoro, che nell'albergo investì un paio di milioni di
euro.
Immaginatevi le accuse della sinistra alla scoperta del caso:
vergogna! Lui fece spallucce: «Chiarisco che l'intervento di Sviluppo
risale all'aprile del 2000. A quel tempo non ero presidente
della Regione e l'ipotesi di una mia candidatura era ancora
molto lontana». Vero. Come è vero che l'amministratore delegato
di Sviluppo Italia nel 2000 era Dario Cossutta, il figlio dell'Armando.
Ma che Cuffaro fosse il nuovo uomo forte dell'isola,
l'unico a restare incollato alla poltrona per tutta la legislatura
nonostante i rovesci di maggioranza, era già evidente a tutti. E
fu da govern atore che assistette sia all'inchiesta sugli Hopps per
una truffa. a,llo Stato sia al versamento dei soldi pubblici alla
«sua» Società.
Che Sviluppo Italia abbia avuto sempre un occhio di riguardo
per chi comanda in Sicilia, del resto, è difficile da contestare.
Dei cinque poli turistici che Italia Turismo, una bran ca
della casa madre, ha deciso di promuovere e finanziare nel Sud,
quello nell'isola è il più impegnativo. Obiettivo: la costruzione
sulla costa vicino a Sciacca, che già era stata al centro di faraonici
progetti compreso l'acquisto di due enormi orche marine per
il parco acquatico Sciacca-Splash (bestiole poi tenute a pensione
a 10.000 euro al mese prima di essere rivendute), di una fantastica
struttura: il Golf Resort Rocco Forte. Descritto come «il
più grande "luxury resort" del Mediterraneo»: un albergo a cinque
stelle superior, 200 camere, piccoli pati interni e terrazze
private, arena all'aperto di 500 posti, campi da golf, centro benessere,
centro congressi con salone per le feste. li tutto su 236
ettari di terreno.
Insomma: un progetto strabiliante, di quelli che fanno
sempre luccicare gli occhi dei politici siciliani. Tanto da spingere
Cuffaro , alle prime lungaggini burocratiche, a scrivere all'Assemblea
regionale per sollecitare la massima «urgenza» . E
l'uomo forte di Forza Italia in Sicilia, Gianfranco Micciché, a
benedire entusiasta l'apertura dei cantieri e successivamente
torn are sul posto per vedere come andavano i lavori.
La strada all'autista , probabilmente, la indicò lui stesso .
Una parte dei terreni scelti per l'ambizioso progetto di Sviluppo
Italia era stata comprata infatti dalla famiglia di Roberto ed
Elena Merra: il suocero e la moglie dello stesso Miccich é. Il
quale, al momento in cui era stata istruita la pratica, era sottosegretario
con delega allo Sviluppo economico del Mezzogiorno
al ministero dell'Economia. Che di Sviluppo Italia possiede
il cento per cento. “I soliti terroni!” dirà qualche razzista. È però probabile
che alcune migliaia di leghisti si asterranno dal giudizio. Come
la signora Estella Gabello che a un'assemblea dei soci della
Credieuronord sbottò schifata: “I nostri manifesti dicevano
"Roma ladrona"! Con che coraggio.. .”, Difficile darle torto: di
tutti i pasticci fatti in tempi recenti a cavallo tra la politica e gli
affari, infatti, il crac della Credieuronord è stato sicuramente
uno dei più scandalosi. Ricordate come cominciò? Con una pubblicità in cui Umberto
Bossi sorrideva rassicurante: «Anch'io sono socio fondatore
della Credieuronord. E tu?», «Finalmente una banca nostra!
» magnificava il leader del Carroccio. «Una banca padana
e dei padani.» Lui stesso si faceva carico di illustrare lo sforzo
chiesto: «Ogni azione vale 50.000 lire e il minimo d'acquisto è
di 20 azioni, un milione, per studenti, casalinghe e pensionati».
E tuonava: «Avanti, non perdiamo la grande occasione!», E
nacque la banca padana. Era il gennaio del 200 l , aveva
2615 soci, poco più di 17 miliardi di capitale e Gian Maria Galimberti,
allora vicepresidente, gongolava sul quotidiano leghista: «Abbiamo dato concretezza agli ideali del Carroccio». Un anno dopo, «la Padania» pubblicava un pezzo esultante: Credieuronord, una sfida vinta. Diventato presidente, Galimberti
spiegava stavolta che il pareggio era li lì: «Anzi, l'abbiamo già
raggiunto con il primo trimestre 2002» . Un trionfo: «Le cifre
parlano chiaro: 54 miliardi di lire di raccolta e 20 miliardi di
prestiti erogati nei 6 mesi del 2001» . Di più: «O ra il capitale è
di 13 milioni di euro, circa 26 miliardi di lire». E il futuro era
ancora più roseo: «Abbiamo presentato un piano di apertura
per 15 sportelli in cinque anni, 4 solo nel 2002 a Bergamo, Brescia,
Treviso e Milano. Parallelamente sorgeranno sportelli a
Vicenza, Fossano, Cuneo, Busto Arsizio, Como...» . Insistere,
insistere, insistere, raccomandavano le segreterie provinciali
come quella di Bergamo controllata da Roberto Calderoli:
«Occorre che i nost ri risparmi fmiscano sui conti della Banca
Popolare Credieuronord»,
Come andassero le cose, nella realtà, l'avrebbero ricostruito
nel marzo del 2003 gli ispettori di Bankitalia: «Incoerenze nella
politica creditizia nonché labilità dei crediti» ; «scarni resoconti
delle riunioni consiliari» talvolta «redatti a distanza di mesi» ; «ridotta
cultura dei controlli» ; «scarsa cura prestata alle evidenze
sui "grandi rischi"»; «ripetuti sconfinamenti autorizzati dal capo
dell'esecutivo» e «acriticamente ratificati dall'organo collegiale».
Insomma: un colabrodo. Al punto che, a meno di due anni dalla
nascita, il buco era già di 8 milioni e mezzo di euro in crediti difficilmente
esigibili di cui oltre la metà già dati per persi.
Cos'era successo? Lasciamo rispondere alla Relazione sul
Bilancio 2003, firmata Stefano Stefani, per molti anni presidente
della Lega, che denunciava affranta crediti concessi «in assenza
di garanzie reali e/o personali, qualitativamente valide»,
garanzie «apocrife o rilasciate da soggetti incapienti» o «responsabilità
personali riconducibili a una conduzione oltre i limiti
della prudente gestione» . Traduzione di Bruno Tabacci, all'epoca
presidente della Commissione Attività produttive della Camera:
«Con quattro o cinque affidamenti si sono mangiati
tutto il capitale» .
Soldi dati «senza preventiva individuazione di fonti e temo
pi di rimborso» scrissero gli ispettori, ad amici. Come la moglie
di Franco Baresi, Maura Lari. O il leader dei Cobas leghisti e
poi senatore bossiano (destinato a essere processato anche per
la truffa sulle quote-latte), Giovanni Robusti. O la società (fallita)
Bingo.Net che aveva come soci leghisti di spicco quali Enrico
Cavaliere (già presidente del consiglio del Veneto) e Maurizio
Balocchi, tesoriere della Lega, sottosegretario e addirittura
(sic! ) membro del CdA della banca. Peggio: stando alle inchieste,
la banca era servita a far girare (senza una segnalazione all'Uffi
cio italiano cambi) un fiume di soldi fatti sparire al tribunale
fallimentare da Carmen Gocini per conto di Angiolino
Borra, il padrone di Radio 101 che la Lega aveva a suo tempo
suggerito per il CdA della Rai.
Risultato: i poveretti che avevano messo i risparmi nella
banca della Lega si sono ritrovati con un pugno di mosche:
neanche 3 euro ad azione contro i 28 investiti. E sulle teste dei
leader coinvolti ai massimi vertici del moribondo istituto bancario
(Stefano Stefani, Maurizio Balocchi, Giancarlo Giorgetti...)
si addensavano nubi foschissime.
Poi, miracolo, si affacciò un uomo: Gianpiero Fiorani. Che
si fece carico, con la sua Popolare di Lodi, dell'ormai defunta
banca leghista. Spazzando via gli incubi, anche penali, dei protagonisti
della catastrofica impresa. Era il 5 ottobre del 2004.
Come sia finita, si sa. Col banchiere lodigiano in galera, il governatore
Antonio Fazio messo alla porta, il salvataggio stoppato
dai nuovi gestori della Bpi. E «La Padania» che dopo avere
strillato titoloni ringhiosissimi (Roma padrina. / Chi c'è dietro l'attacco a Fiorani e alla nuova finanza padana?) annaspava davanti alla rivolta dei militanti truffati, scrivendo di Credieuronord negli editoriali del direttore Gianluigi Paragone come
di una «banca considerata della Lega».
TI bello è che alcuni dei protagonisti del buco bancario erano
recidivi. Una manciata di anni prima, come gli ambiziosi
amministratori di Sciacca, avevano coltivato anche loro un
grande sogno turistico. Avevano infatti rilevato una società, la
Ceit, che doveva costruire un villaggio vacanze a Umago, in
Istria. C'erano la moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone,
l'ex ministro del Bilancio Giancarlo Pagliarini e i parlamentari
Edouard Ballaman, Stefano Stefani e Maurizio Balocchi. Commisero
un errore: chiesero un finanziamento alla Hypo Alpe
Adria Bank, che ha come primo azionista il Land della Carinzia,
all'epoca guidato dallo xenofobo Jorg Haider.
Un'operazione disastrosa, finita con la sparizione di 2 miliardi
di lire, il fallimento e la decisione del pm Paolo Luca di
contestare all'intero consiglio di amministrazione la bancarotta
fraudolenta e il falso . La Hypo chiese il rientro dei finanziamenti,
poi pretese la confisca della proprietà. Finì a colpi di
carte bollate. Il ricchissimo Stefano Stefani, industriale orafo, si
chiamò fu ori risarcendo di tasca propria la banca carinziana
con 500.000 euro. Maurizio Balocchi e altri 7 furono rinviati a
giudizio. E del «villaggio padano» in Istria non si è parlato più.
Eppure, per quanto ripetutamente scottati, agli uomini del
Carroccio la fissa del business non è passata del tutto. Prendete
Roberto Calderoli. Pochi mesi dopo aver smesso gli abiti da ministro
delle Riforme, il senatore dentista di Bergamo ha aperto
una ditta di import-export. Si chiama Mibel intemational. L'ex
ministro ha messo un terzo del capitale, il resto è suddiviso fra
il suo ex capo di gabinetto Claudio D'Amico e la di lui consorte
Svetlana Konovalova, una bielorussa di Minsk che fa da interprete
a Bossi. E che probabilmente ispirò al senatore leghista
, dopo le Politiche del 2006, il suo estroso commento: «Queste
elezioni sarebbero state invalidate perfino in Bielorussia!».
10
Come puntare un euro e vincerne 180
Ma il referendum non aveva abolito ilf inanziamento pubblico?
Il radiotelegrafista Giancarlo Fatuzzo, giunto alla veneranda
età di 43 anni, intercettò sulle onde elettromagnetiche un'ispirazione:
molla tutto e datti alla politica. Detto fatto, fondò il
Partito dei pensionati. Il più redditizio del mondo. Basti dire
che nella campagna per le Europee del 2004 il nostro investì
16.435 euro ottenendo un rimborso 180 volte più alto: quasi 3
milioni. Un affare mai visto. Neanche nella corsa all'oro di Fairbanks
alla fine dell'Ottocento.
Eletto dal suo popolo grigio al Parlamento comunitario sia
nel '99 sia nella legislatura successiva, ciabatta da allora sfaccendatamente
per i corridoi di Strasburgo (dove è stato inserito nella
delegazione per i rapporti col Giappone: sayonara!) scodellando
di tanto in tanto interventi che scuotono l'aula per il formidabile
impatto planetario. Ora chiede cosa vuoI fare l'Europa
per le vie di accesso a Vivaro, «comune situato nella parte meridionale
del conoide alluvionale dei torrenti Cellina e Meduna,
in provincia di Pordenone». O ra dichiara, «sia personalmente
sia come responsabile del Partito pensionati in Italia», che «l'allargamento
dell'Europa deve arrivare a tutto il mondo» , comprese
quindi l'Europa australe e l'Europa patagonica. Ora si
congratula per la fama «dell'onorevole John Bowis sparsa in tutta
Europa» al punto che è venuta «dall'Italia, precisamente dalla
città di Salsomaggiore (la città dove viene eletta miss Italia),
una sua ammiratrice di nome Moggi Silvana che è qui presente
in tribuna». Ora chiede notizie sulle protesi dentarie mutuabili
sottolineando, con malferma ironia, la necessità «che gli anziani
abbiano la possibilità di masticare il cibo prima di deglurirlo».
Lui no, non ha bisogno della dentiera. Anzi, sorride sern-pre.
Ha ragione: meglio di così non gli poteva andare. Perito
commerciale, genovese trapiantato a Bergamo, trovò la prima
pepita del giacimento quando ancora non aveva quarant'anni,
fondando una microscopica casa editrice: Sportello Pensioni. il
19 ottobre dell'87 , santa Cleopatra, la folgorazione: perché, in
un Paese con almeno 15 milioni di pensionati non fare un partito
per loro? Nessuno ci aveva ancora pensato e davanti a Fatuzzo
si spalancò un'autostrada. Consigliere comunale e provinciale a Bergamo, poi consigliere
regionale della Lombardia, poi il salto a Strasburgo. Salutato
con un b rindisi e un'impennata finanziaria. In campagna
elettorale aveva speso 16 milioni di lire: grazie al meccanismo
dei rimborsi elettorali lo Stato gli versò 1.276.000.000. Tombola!
Ripetuta, come si è detto, alle Europee successive. Segnate
da un guadagno, rispetto all'investimento, del 18.000% .
Va da sé che, in un mercato fluttuante come quello politico,
dove le azioni di questo o quello schieramento sono continuamente
esposte a balzi e inabissamenti improvvisi, occorre
avvertire i segnali più ancora che a Wall Street sui futures coreani.
Convinto che nei momenti di passaggio va diversificato
l'investimento, per esempio, il «promoterx del partito grigio,
pur non avendo mai nascosto le p roprie tendenze moderate
iscrivendosi a Strasburgo al gruppo dei Popolari europei come
i destrorsi della Csu bavarese o i forzisti, alle Regionali del 2005
scelse la tecnica delle geometrie variabili: un po' col centrodestra,
un po' col centrosinistra. E alle elezioni politiche successive,
dicendosi ingannato da Berlusconi, scelse Prodi che in quel
momento volava nei sondaggi. «Se il mio partito supererà lo
sb arramento del 2% , chiederò un ministero per i pensionati»
tuonava bellicoso.
Ma il mercato, dicevamo, è instabile. Appena sei mesi più
tardi, già si sentiva «ingannato» da Prodi (ma come: neanche uno
straccio di posto di sottogoverno dopo aver portato 340.000 voti?)
e passava di nuovo, armi e bagagli, con la Casa delle Libertà.
Nei cui dintorni stava già la sua erede, carnale e politica: Elisabetta.
Una ragazza con la testa sul collo, che fin dalla tenera età medi
tava su quella poesia di Guido Gozzano: «Venticinqu'annil.
.. Sono vecchio, sono vecchio !... Venticinqu'anni!... ed ecco la
trentina inquietante, torbida d'istinti moribondi... ecco poi la
quarantina spaventosa, l'età cupa dei vinti, poi la vecchiezza,
l'orrida vecchiezza dai denti finti e dai capelli tinti». Quando
pensa alla vecchiaia cui ha dedicato la gioventù, però, lei è serena.
Mal che vada avrà un vitalizio consolante: è consigliere regionale
della Lombardia fin da quando giocava con le Barbie e
papà, guardando i vecchietti al giardinetto, le diceva: «Amore,
un giorno tutto questo sarà tuo...».
Ma senza quei fmanziamenti elettorali così generosi la premiata
ditta familiare Fatuzzo sarebbe arrivata lo stesso lassù,
nella casta dei bramini? Domanda più che legittima, perché quei
rimborsi sono sempre spropositati, rispetto alle somme realmente
sborsate. Due numeri: per le elezioni Europee del 2004 i
partiti spesero in tutto 87.988.791 euro, ma quando passarono
alla cassa ne ritirarono quasi il triplo e cioè 248.956.810. Con un
utile netto di quasi 161 milioni. Frutto di un'anomalia ipocrita e
arrogante, introdotta da una legge approvata senza un battito di
ciglio nel 1993 e criticata anche dalla Corte dei Conti. La quale
nel suo rapporto sui rendiconti delle spese elettorali per le Europee
del 1999 sottolineò l'assoluta mancanza di una «correlazione
fra entità delle spese sostenute ed ent ità del contributo
spettante agli aventi diritto». Non l'avesse mai detto!
Letto il rapporto sul «Corriere», il diessino Angelo Soda
saltò su come un tarantolato, convocando all'istante una conferenza
stampa. Come si permettevano, quei giudici? «La Corte
doveva limitarsi a verificare i conti in base alla conformità, alla
legge e alla regolarità d ella documentazione prodotta. Qui si
doveva fermare. Invece si è inventata un parametro di valutazione:
la rilevazione del rapporto tra le spese rendicontate e i
rimborsi, criterio che serve solo a creare elementi di delegittimazione
dei partiti.» Traduzione dal burocratese: ogni appunto
critico genera qualunquismo. Ciò detto, il ring hioso guardiano
dell'intoccabilità delle scelte dei partiti arrivò a chiamare in
causa il presidente della Camera, Luciano Violante : «Dovrà dire
qualcosa sui limiti di esercizio del potere della Corte dei
Conti, altrimenti si crea una continua invasione di potere».
Non ce ne fu bisogno: l'osservazione dei giudici contabili,
tanto lapalissiana quanto potenzialmente devastante, fu lasciata
cadere nel vuoto. Per la fortuna della ditta politica dei Fatuzzo e
di tutti i partiti. Esclusi i radicali, gli unici che hanno speso sempre
più di quanto poi incassavano: l'eccezione per una regola
che dimostra in modo abbagliante come le forze politiche, negli
ultimi anni, abbiano davvero esagerato . C'è una tabella più
esauriente di mille saggi sociologici. Quella pubblicata nel libro
di Salvi e Villone: «Nel 2005 sono stati pagati ai partiti, a titolo
di rimborso per le spese elettorali, oltre 196 milioni di euro che
sono stati suddivisi tra ben 81 partiti o liste». Ottantuno liste! Il
generale De Gaulle, nella sua più celebre battuta, si chiedeva
come si potesse governare un Paese come la Francia con 258 tipi
di formaggi? Beato lui, che non provò mai il brivido di governarne
uno con 81 partiti. Uno più vorace dell'altro.
Il referendum del 18 aprile del '93 era stato chiarissimo: il
90,3% delle persone voleva abolire il finanziamento pubblico.
Giuliano Amato, a capo del governo, ne aveva preso atto con
parole nette: «Cerchiamo di esserne consapevoli: l'abolizione
del finanziamento statale non è fine a se stessa, esprime qualcosa
di più, il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e
collocato tra essi». Certo, il voto era stato influenzato dal vento
impetuoso della rivolta morale contro gli abusi della Prima Repubblica,
travolta da mille scandali. E magari è vero che conteneva
una certa dose di antiparlarnentarismo, trascinato da mugghianti
mandrie di torelli giustizialisti che presto si sarebbero
trasformati in pensos i bovi garantisti. Di più: forse era solo
un'illusione velleitaria l'idea che una democrazia complessa potesse
reggersi su partiti dalle opinioni forti e dai corpi leggeri
come piume. Ma anche chi da anni teorizza la necessità che la società si
faccia carico di mantenere i partiti quali strumenti di democrazia,
dovrà ammettere che la deriva fa spavento. Ve li ricordate
perché nacquero, i rimborsi elettorali? Per aggirare dopo pochi
mesi, senza dare nell'occhio, quel referendum-capestro della primavera
del '93. Era il dicembre, al governo c'era Carlo Azeglio
Ciampi e sulle prime l'obolo imposto era contenuto: 800 lire per
ogni cittadino residente e per ognuna delle due Camere. Totale:
1600 lire. Pari, fatta la tara all'inflazione, a l euro e lO centesimi
di oggi. Pochi? Può darsi. Certo è che, via via che l'ondata referendaria,
leghista e giudiziaria del biennio '92 -93 si quietava nella
risacca (Fare demagogia sulla politica perché sia più spartana
vuoi dire prepara re il terreno a un ritorno della corruzione»
spiegò il «retine» Giuseppe Gambale) i partiti si sono ripresi
tutto. Diventando sempre più ingordi. Fino a divorare oggi, nelle
sole elezioni politiche, dieci volte più di dieci anni fa.
Eppure, già la prima sterzata sembrò eccessiva. Era il 1999.
L'idea transitoria del 4 per mille (volontario) sul quale i partiti
prendevano degli anticipi, si era rivelata un fallimento. A marzo,
con un pezzo della destra che denunciava l'ingordigia dei
«rossi», passarono l'abolizione delle agevolazioni postali in
campagna elettorale e l'eliminazione dell 'anticipo: i part iti
avrebbero dovuto restituire in cinque anni, nella misura del
20% annuo del totale, le somme «eventualmente» ricevute in
più. Macché. Non solo la restituzione fu svuotata dalla scelta di
non varare mai (mai) il decreto di conguaglio, col risultato che
nessuno ha mai (mai) potuto sapere quanti soldi con quel 4 per
mille i cittadini avevano davvero dato alla politica. Ma due mesi
dopo, col voto favorevole d'una maggioranza larghissima e il
plauso anche della Lega «Q uesta legge ci avvicina all'Europa»
disse Maurizio Balocchi, coordinatore dei tesorieri dei partiti),
passò un ritocco assai vistoso: da 800 a 4000 lire per ogni elettore
e per ogni Camera alle Politiche. Più rimborsi analoghi per
le Europee e le Regionali. Più un forfait , volta per volta, per le
Amministrative. Una grandinata di soldi mai vista prima. Che nel 2001
avrebbe portato le forze politiche a incassare in rimborsi olt re
92.814.915 euro. Una somma enorme. Eppure l'anno dopo, a
maggioranza parlamentare ribaltata,mentre invitavano gli italiani
a stringere la cinghia perché dopo l'll settembre i cieli erano
foschi, i partiti erano ancora lì, più affamati di prima. Ricordate
le risse di quel2002? La destra irrideva agli anni del consociativismo
cantando le virtù della «nuova era» dove mai i suoi voti
sarebbero stati mischiati a quelli «comunisti» . La sinistra
barriva nelle piazze che mai si sarebbe lasciata infettare da un accordo
con l'orrida destra. Finché presentarono insieme una leggina,
firmata praticamente da un rappresentante di ciascun partito
perché nessuno gridasse allo scandalo (Deodato, Ballaman,
Giovanni Bianchi, Biondi, Buontempo, Colucci, Alberta De Simone,
Dussin , Fiori, Manzini , Mastella, Mazzocchi, Mussi, Pistone,
Rotondi, Tarditi, Trupia, Valpiana) che portava i rimborsi
addirittura a 5 euro per ogni iscritto alle liste elettorali e per ciascuna
delle due Camere. Una scelta discutibile con l'aggiunta di
un'indecente furberia: anche il calcolo dei rimborsi per il Senato
andava fa tto sulla base degli elettori della Camera. I quali sono,
senza calcolare gli italiani all 'estero, 47.1 60.244. Contro i
43.062 .020 degli aventi diritto a votare per Palazzo Madama:
4.098.224 in meno. Risultato: si sono accaparrati nel solo 2006,
con queltrucchetto, 20 milioni e mezzo di euro in più. Il triplo,
per dare un'idea, di quanto è costata a Padova la Città della speranza
che, grazie alla generosità dei privati, riesce a svolgere il
ruolo di Centro diagnostico nazionale a disposizione di lUtti gli
ospedali italiani per l'individuazione e la cura delle leucemie infantili.
O, se volete, quanto è stato investito in dieci anni nella
ricerca scientifica dal centro patavino. Totale dei rimborsi elettorali
per il 2006: 200.819.044 euro. Una montagna di denaro
destinata nel 2007 a crescere ancora di altri 3 milioni e mezzo. E
l'anno seguente ancora un po', e via così. Risultato: i partiti assorbono
olt re il doppio di quanto assorbivano nel 2001. Il balzello
è passato dal 1993 a oggi, con l'appoggio, la complicità o il
tacito consenso di tutti (salvo qualche eccezione e un po' di distinguo)
da l euro e l Ocentesimi a lO euro per ogni cittadino. E
ogni ciclo elettorale (Politiche, Regionali, Europee, Amministrative...)
ci costa ormai l miliardo di euro a lustro. Per limitarsi
soltanto al famoso «rimborso». E smettiamola, di chiamarlo così. E vero che il nostro è un
Paese dove, nel peloso rincorrere del «politicamente corretto»,
è stato sancito che i poveri sono «non abbienti», i disoccupati
«incollocati» e gli epilettici persone affette da «crisi comiziali».
Ma la parola «rimborso» è pura ipocrisia: i tesorieri dei partiti
non la usano quasi mai. Continuano a parlare, tra di loro , di
«fi-nanziamento pubblico», come se quel referendum del 1993 non
ci fosse mai stato. E così è: il finan ziamento pubblico dei partiti,
sopravvissuto anche ai passaggi più tumultuosi, non è mai morto.
Ha soltanto, di volta in volta, cambiato nome.
E il conto è carissimo. Dal 1976 al 2006 i cittadini hanno
versato nelle casse dei partiri l'equivalente, in valuta 2006, di 3
miliardi e mezzo di euro. Per l'esattezza: 3.419.584.022. Una
somma enorme, che sarebbe stata più che sufficiente a realizzare
la variante di valico tra Firenze e Bologna, considerata l'autostrada
più cara della storia con i suoi 55 chilomerri di gallerie.
O a finanziare la costruzione del canale progettato per riportare
l'acqua dal Mar Rosso nel Mar Morto. Per non parlare dei soldi sporchi. Quelli che un po' tutti i partiti della Prima Repubblica (con rare eccezioni come i radicali)
incassarono per anni e anni dalle bustarelle su ogni lavoro
pubblico ai tempi in cui, secondo Silvio Berlusconi, dovevi «fare
lunghe file per seguire una pratica e poi passare da un ufficio
all'altro con l' assegno in bocca, perché così si usava nella pubblica
amministrazione». Quanto avesse pesato sulle tasche dei
contribuenti quel sistema di tangenti lo calcolò nel febbraio del
1993 il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi diretto
da Mario Deaglio.
Conclusione: il «presumibile ammontare dei maggiori costi
sostenuti dallo Stato per effetto della discrezionalità della
decisione politica» era stato, nel solo 1991, tra i 3,3 e i 4,9 miliardi.
Anche se, precisava lo studio, era probabile che la verità
non stesse «nel mezzo, bensì in prossimità del limite massimo».
Per capirci: almeno 4 miliardi di euro l'anno in valuta di oggi.
E non era finita: «Queste somme sono state pagate dallo Stato
in eccesso a quanto sarebbe sta to dovuto e possibile. Hanno
quindi aumentato il deficit pubblico. Al fine di finanziare il deficit,
lo Stato ha fatto ricorso ai prestiti pubblici. Non potendo
restituire i prestiti a fine anno, li ha rinnovati». Una spirale abnorme.
Che negli anni Ottanta , quelli in cui il nostro «b uco»
sprofondò, sempre in moneta attuale, da 137 a 772 miliardi, fu
responsabile secondo il Centro Einaudi di almeno un decimo
dell'inabissamento debitorio. Con un danno alle pubbliche
casse che, nel solo ultimo decennio prima dell'esplosione di Tangentopoli,
potrebbe essere calcolato, secondo le stime prudenti
del centro studi torinese, in quasi 75 miliardi di euro.
Onestamente: c'è qualche Candido nostrano disposto a
immaginare che una classe dirigente così ingorda e rimasta in
gran parte la stessa sia diventata virtuosa nonostante diversi ladroni
se la siano cavata senza un buffetto? Piercamillo Davigo
sorride amaro: «Siccome non è cambiato nulla nei meccanismi
che avevano prodotto la degenerazione di Tangentopoli non
c'è ragione d'immaginare un miglioramento. Anzi, semmai si
sono abbassate le soglie di difesa. E c'è un'idea più diffusa di
impunità. Quindi... Insomma, non solo non mi stupirei a scoprire
che l'andazzo è quello di prima, ma mi stupirei nello scoprire
il contrario» .
Ma torniamo ai finanziamenti pubblici. Le cifre vi sembrano
enormi? Eppure si tratta solo di una fetta della torta divorata
dagli apparati. Sostenuti in larghissima parte dalle pubbliche
casse sotto forma di migliaia di posti nei consigli di amministrazione
di società ed enti vari e municipalizzate, autoblu, incarichi,
prebende, consulenze spesso insensate e altro ancora. Si
pensi, per esempio, ai 60 milioni di euro l' anno di finanziamenti
ai «giornali di partito». Virgolette obbligatorie: non tutti lo
sono davvero, Anzi, quelli che si definiscono tali e hanno buone
ragioni di lamentarsi della concorrenza sleale (come fecero
tempo fa i direttori di «Europa» Stefano Menichini, di «Liberazione
» Piero Sansonetti, della «Padania» Gianluigi Paragone,
del «Secolo d 'Italia» Flavia Perina e dell'«Unità» Antonio
Padellaro con una lettera aperta che denunciava le «forti difficoltà
economiche» dovute ai tagli della pubblicità e chiedeva
«un finanziamento pubblico sicuro, puntuale e riservato solo a
loro» sono solo una minoranza.
Tutto nasce da un «ritocco» alle norme sulla stampa di partito
approvato anni fa per accontentare l'ex sindaco di Torino
Diego Novelli, che all'epoca faceva parte del comitato editoriale
del settimanale «Avvenimenti», organo dell'associazione Altritalia.
Si sa come vanno le cose in Parlamento: un piacere al
«nemico», se pensi possa essere utile anche a te, non si nega mai.
Tanto più che paga lo Stato. Ma come darla, una mano a
Novelli? Fu stabilito che per avere i contrib uti bastava che un
giornale si facesse sponsorizzare da due parlamentari pronti a
dichiarare di essere i titolari di un movimento politico, a prescindere
dal partito di appartenenza, e che quello era il loro organo
ufficiale.
La corsa a mettere un timbro di partito sul proprio giornale
per passare alla cassa fu frenetica. E non cessò certo quando
la Finanziaria del 2001 di Amato mise ordine (formalmente) offrendo
però a tutti una via d'uscita: per rimanere attaccati alla
mammella statale b astava trasformarsi in una cooperativa. E così fecero quasi tutti. E oggi una cooperativa «il Foglio» (3 .511.000 euro di cont ributi pubblici nel 2003) fondato da
Giuliano Ferrara con l'apporto azionario di Veronica Lario in
Berlusconi e la qualifica di «organo della Convenzione per la
Giustizia», movimento a due piazze fondato dall'azzurro Marcello
Pera e dal verde Marco Boato, che fu così duramente contestato
dai suoi da dover lasciare la sua piazza al socialista Sergio
Fumagalli. Lo è la «Gazzetta politica» dell'ex leader della
«sinistra ferroviaria» Claudio Signorile, più difficile da trovare
in edicola che un orso polare nel Gabon ma benedetta da oltre
mezzo milione di euro l'anno. Lo è il quotidiano cremonese
«La Cronaca», che appartiene a un piccolo imprenditore, Massimo
Boselli Botturi, il quale ha candidamente ammesso come
la politica, agganciata grazie a un deputato diessino e a un senatore
popolare, fosse solo una gabola: «L'appoggio di due parlamentari
amici ci ha consentito di superare un momento difficile ». Tema: se è così, perché i cittadini dovrebbero versare alla «Cronaca» 1.874.000 euro l'anno?
Una domanda obbligata. Tanto più che qualcuno non si è
accontentato di inzuppare il biscotto. Massimo Bassoli, con l'editrice
Esedra incassava soldi pubblici per 2 milioni e mezzo di
euro grazie al «Giornale d'Italia», organo dei «Pensionati uomini
vivi» dell'ex parlamentare radicale Luigi D'Amato. Finito
in manette, è stato accusato d'aver inventato false collaborazioni
giornalistiche per gonfiare i contributi. Fregando, secondo la
Finanza, 14 milioni di euro. In piccola parte (197 .000), girati
alla Lega Nord. «Perché?» gli chiesero i cronisti di Report.
«Abbiamo fatto un'operazione politica» rispose l'uomo prima
dell'arresto. «Hanno fatto un bonifico e possono farlo. l o ho
regolarizzato e ho fatto quello che per legge dev'essere fat to,
punto e basta» ringhiò il tesoriere del Carroccio Maurizio Balocchi:
“I motivi politici che stanno dietro non sono tenuto a
dirli a lei”. Ma sempre la stessa domanda vale anche per altri. Per «il
Denaro», un periodico napoletano tenuto a galla da quasi 3 milioni
di fondi statali l'anno come organo di Europa Mediterranea,
un movimento dei forzisti Antonio Marzano, Salvatore
Lauro e Claudio Azzolini. Spiegazione fornita al «Mondo» dal
fondatore, Alfonso Ruffo: «In questo Paese i giornali o sono di
proprietà dei potentati economici o sono di proprietà dei politici,
e allora vivono con i cont ributi dello Stato. Schiacciati in
questa morsa i piccoli giornali indipendenti sono costretti a
morire. Se mi si offre di recuperare questo svantaggio competitivo
con una legge che non ho certamente sollecitato io, ne approfitto».
Come ne approfitta l'ex deputato missino Massimo Massano,
titolare di «Torino cronaca» e dello storico «Borghese», già
in società nella Edibeta con Vittorio Feltri. Il quale, raggiunto
nel 2000 un accordo con il Movimento monarchico iraliano (un
manipolo di nostalgici che vende on-line gadget come «semisfera
commemorativa in cristallo diametro 90 millimetri con inciso
il busto di Umberto II» e si definisce come una cosa che
«non proviene dall'alto, ma gua rda in alto») ha incassato
5.371.000 euro di soldi pubblici nel solo 2003. Integrazioni alle
entrate dovute alle vendite, da anni in ascesa.
Guai a ricordarlo, però. Milena Gabanelli, che osò farlo
in una puntata di Report della primavera del 2006, venne azzannara:
«Piantala di fare coccodè». Su un canale della Rai che
fa pagare il canone, poi ! «Siamo allo zoppo che prerende di
insegnare allo storpio a camminare. La verità è un'altra, cara la
mia bella gioia: tutti i quotidiani e i periodici hanno degli aiuti
in denaro o so tto forma di sconti.» Verissimo. Per esempio i
contributi sulla «carta agevolabile» in proporzione alle copie e le
tariffe postali tagliate per favorire la lettura e mettere una
pezza alle distorsioni di un mercato pubblicitario dominato da
Rai e Mediaset. Tagli che, ricordava giustamente Feltri, «compensano
il fatto che le Poste funzionano male e i quotidiani
(agli abbonati) sono recapitati in ritardo». Un esempio? Nel
2003 la Rcs con tutte le sue testate ebbe per la carta 8,6 milioni
di euro, «Libero» 463 .000. Conclusione: «Mi dici per favore
perché noi dovremmo essere i soli in Italia a non percepire
un euro?». Non proprio i «soli», via...
Fatto sta che da quel burrascoso '93 dell'ondata anomala
che pareva aver travolto gran parte dei vecchi partiti sembra
passato un secolo. Ricordate? Mentre infu riava l'offen siva di
Mani P ulite il panico si era impadronito delle segreterie politiche.
Chiusi i rubinetti delle tangenti, abolito per referendum il
finanziamento pubblico, erano tutti sull'orlo della bancarotta.
Il Psi di Bettino Craxi aveva debiti, in valuta attuale, per 54 milioni
di euro. Le banche, fino ad allora indulgenti coi debitori
politici ben oltre ogni ragionevole limite, si facevano sempre
più minacciose. Al punto che il nuovo segretario Giorgio Benvenuto,
in una drammatica assemblea assai diversa da quelle di
«nani e ballerine», gelò la platea: «Compagni, non c'è più una
lira. Dobbiamo vendere il cinema Belsito». Il fiore all'occhiello.
Condannato a tornare, da teatro di tanti trionfi socialisti, alla
normale programmazione. Aperta con una sceneggiata che pareva
la beffa finale: Isso, Issa e '0 Malamente.
E la Democrazia cristiana? Quando cominciò a scricchiolare,
nel '92, il partito costava l'equivalente di 75 milioni di euro
l'anno, Naturalmente, a dar retta ai bilanci, che come è noto non
dicevano proprio tutto. Anche lo scudocrociato era indebitatissimo:
circa 60 milioni di euro di oggi. Ma le proprietà immobiliari
parevano dare sicurezza: nei forzieri del partito c'erano i
documenti di proprietà di 508 immobili , dai magazzini in periferia
agli appartamenti nei paesi, fino alla villa della Camilluccia
dove lo stato maggiore del partito si riuniva intorno al caminetto
per le decisioni più importanti, per arrivare al grande palazzo
di piazza Sturzo, a Roma: 15.000 metri quadrati all'Euro
Un patrimonio immenso che secondo i periti valeva già al-lora,
coi prezzi di mercato infinitamente inferiori a quelli di oggi,
almeno 65 milioni di euro. Un patrimonio svanito fra scissioni,
vendite con plusvalenze miliardarie annegate misteriosamente
nelle pieghe dei bilanci, appropriazioni indebite, furbizie
di ogni genere. Case messe a bilancio con valori 197 volte
più bassi di quelli reali. Appartamenti storici svenduti a prezzi
di saldo «in famiglia», come una stupenda residenza a pochi
metri da piazza del Campo portata via con meno di 300.000 euro
dalla compagna del democristiano più in vista di Siena, Alberto
Monaci. Fino all'ultimo atto: la vendita in blocco di ciò
che restava, 131 proprietà immobiliari, al prezzo forfettario di
1.557.000 euro, al faccendiere Angiolino Zandomeneghi, che
aveva piazzato la sede della società nel gabbiotto all'ingresso di
un parco acquatico abbandonato nel Veronese e saldò il conto
con un assegno scoperto. Edifici spariti in scatole cinesi incastonate
l'una nell'altra fino a portare a una misteriosa finanziaria
con sede in un pollaio nelle campagne istriane di Babici e
intestata a un croato che scaricava cassette al porto di Trieste.
Sterminato era anche l'«impero» dell 'ex Partito comunista,
come del resto i suoi debiti: 237 milioni di euro in valuta
attuale. Ma contrariamente alla Dc e al Psi, il vecchio Pci continuò
a sopravvivere. E i debiti, del partito e dell'«Unità», ad aumentare.
Nel 2001, dopo cinque anni al governo, la Quercia
era «sotto» di 584 milioni di euro; Piero Fassino era stato già
costretto a vendere, tra i sospiri dei militanti, la sede storica di
via delle Botteghe Oscure e ritirarsi con la direzione nella ridotta
di via Nazionale. Ma non bastava.
L'ancora di salvezza arrivò dalla Tosinvest della famiglia
Angelucci che rilevò attività e passività della Beta Immobiliare,
nella quale era concentrato l'indebitamento delle società editrici
dell'«Unità», insieme alle ipoteche su 261 immobili sparsi
per l'Italia. Grazie anche a questa operazione, in quattro anni i
debiti dei Democratici della sinistra si sono ridotti magicamente
da 584 a 139 milioni di euro, tutti a medio e lungo termine.
Un caso da manuale di risanamento di cui il tesoriere diessino
Ugo Sposetti mena vanto, ma che lascia aperte due curiosità.
La prima: chi glielo ha fatto fare, agli Angelucci? La seconda:
anche a vendere tutto, sarebbero andati a posto i conti, senza i
famosi rimborsi elettorali?
Va da sé che, quando i diessini Cesare Salvi e Massimo VilIone
e la tesoriera dell'Italia dei Valori Silvana Mura hanno proposto
nella Finanziaria 2007 non di abolire quel meccanismo,
ma di dargli almeno una limatina, i Democratici di sinistra hanno
fatto orecchie da mercante. Come tutti gli altri. Ovvio: pochi
mesi prima della fme della legislatura berlusconiana avevano
approvato una leggina che consente ai partiti di continuare
a incassare i rimborsi p ure in caso di scioglimento anticipato
delle Camere. Anche allora tutti insieme. Come sempre, su
questi temi.
Anzi, sventato il taglietto al finanziamento pubblico, i partiti
hanno deciso di allargare ancora di più la manica. Pretesto: un
disegno di legge presentato nel settembre del200G per risolvere
un problemino della Svp, I responsabili del partito altoatesino
alleato dell'Unione si erano dimenticati di presentare nei tempi
stabiliti la domanda per avere i rimborsi elettorali. Col risultato
di veder distribuire i loro soldi agli altri partiti. Seccante.
C'era solo un mezzo per rimediare al guaio: una sanatoria
retroattiva. Spudorata. Com'è evidente dalla disarmante relazione
al provvedimento, dov'era scritto che poiché la legge in
vigore «stabilisce che le richieste di rimborso debbano essere
presentate, a pena di decadenza, entro dieci giorni dalla data
di scadenza del termine per la presentazione delle liste per il
rinnovo dei due rami del Parlamento» la nuova norma prevedeva
«il differimento dell 'anzidetto termine in modo da consentire
anche ai partiti e ai movimenti politici dichiarati decaduti
dai rimborsi di beneficiare dei medesimi». Tutti d'accordo,
o quasi, a sinist ra. Bastava leggere le firme sotto la proposta:
da Siegfried Brugger della Svp a Dario Franceschini dell'Ulivo,
dal rifondarolo Gennaro Migliore al dilibertiano Pino
Sgobio. Ma...
Ma l'incredibile sanatoria «ad partitum» è diventata il vagone
su cui caricare, trasversalmente, una merce più pesante:
un emendamento, firmato dal relatore Marco Boato (non nuovo
a iniziative oleose che piacciono a certi pezzi sia della destra
sia della sinistra}per consentire ai partiti di costituire fondazioni
«politico-culturali». Per farne che? Tante cose. Parcheggiare
«cespiti e attività patrimoniali» dei partiti. Accogliere «eredità,
erogazioni liberali e donazioni». Ricevere «entrate derivanti da
prestazioni rese a terzi su base convenzionale», come fanno i
sindacati coi centri d'assistenza fiscale. Di più: queste «fondazioni
» potrebbero incassare «contributi pubblici eventualmente
previsti per il finanziamento di specifici programmi culturali
e di formazione». Chiaro? Chiarissimo: neppure l'aumento abnorme
dei «rimborsi elettorali» è più sufficiente alla mostruosa
dilatazione delle spese dei partiti. Alla perenne e spasmodica
ricerca di altre forme di introiti.
È qui che vedi come le lezioni del passato non siano servite
assolutamente a nulla. Che fossero soldi infetti della Cia, del
Kgb o delle bustarelle, i partiti italiani si sono ormai abituati a
darsi battaglia spendendo moltissimo e, con la nave alla deriva,
non cercano neppure più di aggiustare la rotta. Al punto che
perfino Cesare Salvi e Massimo Villone, ai quali va riconosciuto
il merito di avere tentato la prima analisi autocritica «dal di
dentro», hanno finito per dare alloro libro un titolo che in
qualche modo, al di là della sottilissima ironia, rischia di essere
indulgente: Il costo della democrazia. Perché «democrazia»?
Cosa c'entrano con la democrazia certe storture, certi privilegi,
certi lussi inaccettabili?
L'ultimo pezzo del disegno sulle fondazioni messo in calendario
nella primavera del 2007, per esempio, somiglia dannatamente
a un altro regalo che si erano fatti i partiti. E cioè alla
leggina del luglio del '93 che, firmata da Gino Giugni, donò
«il prepensionamento anticipato di anzianità» a più di 500 dipendenti
«in nero» delle forze politiche. La sola condizione era
appunto quella: che i datori di lavoro, dal Pci al Psi, dalla Dc al
Pri, dichiarassero in una lettera che i lavoratori Mario Rossi o
Dario Verdi avevano lavorato in nero (pensa tel) a partire da
una data precedente a quella di assunzione, così da andare in
pensione con 28 anni di servizio.
Una sanatoria indecente, messa a carico dello Stato. Ma
guai a polemizzare. il serafico-Enrico Ferri, leader del Psdi,
al-largò le braccia: «Dov'è lo scandalo? I dipendenti di partito sono
persone umane che tirano la cinghia». Grazie. Ma al di là
della formula che obbligò i giudici ad aprire un'inchiesta su decine
di attestazioni, perché mai la messa a riposo di tutti quei
funzionari, portieri, impiegati e centralinisti tirati dentro spesso
per motivi squisitamente clientelari doveva pesare sulle spalle
dei cittadini? Per non dire della ciliegina sulla torta: tra quanti
avevano «tirato la cinghia» c'erano persone già avviate ad
avere, come i socialisti Fabrizio Cicchitto, Biagio Marzo o Luigi
Covatta, il vitalizio parlamentare.
Bene: poco più di un decennio dopo, ecco il replay. Con la
proposta nel «progetto fondazioni», contestata frontalmente solo
da radicali e dipietristi, di poter impiegare personale in aspettativa
dipendente da aziende pubbliche o private. Cioè? Semplice:
ai partiti l'obbligo di pagare lo stipendio, allo Stato (cioè a
rutti noi) l'obbligo di pagare il resto, contributi e pensione compresi.
Non solo: stando alla leggina, le aziende private potrebbero
sostituire i dipendenti «prestati» ai partiti con personale a
tempo determinato. Mica male, per una sinistra che chiedeva voti
sulla base di un programma contro la precarietà del lavoro...
Ma non è tutto: sapete chi paga, se un «organo di partito»
fallisce? I cittadini. In un lontano agosto di tanti anni fa (succede
sempre in agosto: sempre) fu infatti stabilito con la legge 416
che non solo gli interessi sui debiti agevolati di questi giornali
fossero a carico dello Stato ma che su quei debi ti lo Stato offrisse
la sua garanzia. Garanzia estesa nel 1998 dal governo di
centrosinistra, per dare una mano all'«Unità» sprofondata in
un abisso finanziario, a chi si accollava i conti in rosso, in quel
caso i Ds. E ulteriormente estesa nel 2007 dal secondo governo
P rodi ai debiti di tutti i partiti accumulati fmo al 1999. Risultato:
in caso di crac (o più semplicemente di mancato pagamento
di una pendenza) i creditori comunque vengono risarciti con
denaro pubblico. Lo stesso usato per saldare, dopo il naufragio
di Bettino Craxi e del Psi sotto l'offensiva giudiziaria, i creditori
dell'«Avanti!». Liquidati alla fine del 2003 con 9 milioni e
mezzo di euro. Pagati da tutti noi.
11
Meglio a noi che a Madre Teresa
Più sconti fiscali per le donazioni ai partiti che ai bimbi lebbrosi
«Innamorarti, sempre di piùùù! in fondo all' anima, ci sei
sempre tuuu !» strillavano ridendo gli studenti nei cortei, facendo
il verso a Un'avventura di Lucio Battisti. Scherzavano, le canaglie.
Senza rispetto per l' allora ministro dell' Istruzione. Ma
c'è chi è davvero innamoratissimo di Letizia Brichetto Arnaboldi: suo marito Gianmarco Moratti. Gli altri regalano alla moglie un paio di orecchini, un anello di brillanti oppure, se
sono ricchi sfondati, una Bentley Continental GT Coupé come
quella donata da David Beckham all'amata Victoria? Lui alla
moglie ha regalato Milano. Di più: in occasione della presentazione ufficiale della candidatura della signora a sindaco, arrivò a uscire dal suo proverbiale
silenzio (il papà Angelo fece due figli, uno ciarliero e uno
muto: lui è quello muto) per concedere alla stampa addirittura
qualche dozzina di p arole. Cosa che, sui cronisti, ebbe l'impatto
di una loquace chiacchierata di Bernardo, il servo afasico di
Zorro. Spiegò dunque a Elisabetta Soglio del «Corriere» che
lui era proprio contento della candidatura della moglie: «Con
Letizia ho passato 36 anni di felicità e spero, anzi sono certo,
che lei potrà dare la stessa gioia anche a Milano».
Quanto peso ha avuto il suo parere sulla decisione di candidarsi?
«Io ho spinto molto, perché so che mia moglie potrebbe
essere il miglior sindaco per la nostra città.» Ha seguito questa
campagna elettorale? «Sì, ed è stato molto importante aver
conosciuto da vicino i problemi della città.» Come si risolvono?
«Letizia saprà come fare, perché lei è abituata. Una perso na
che da 27 anni segue una comunità di emarginati sa come si
affrontano i problemi.»
L'accenno a San Patrignano, dove i due si spendono da una
vita con i ragazzi decisi a disintossicarsi, spinse anzi Gianmarco
ad andare più in là. E a spiegare che, per carità, lui non temeva
affatto che lei, se eletta, fosse molto esposta: «Quando una persona
non vive per la propria ambizione ma per un ideale
p rofondo, quando è estremamente onesta e moralmente integerrima,
non può avere paura». Aggiunse infine di essere entusiasta
del primo assaggio della vita da «first sciù rx perché in
quelle settimane aveva avuto «modo di incontrare molte persone
e conoscere i veri p roblemi della gente». Insomma: «La
campagna elettorale ci ha molto arricchiti». Lei, commossa da
tante coccole pubbliche, ricambiò: «Tutti i giorni della mia vita
sono dedicati a lui, perché è una persona splendida e solo grazie
a lui sono diventata quella che sono».
Giustissimo. Soprattutto per qu anto riguarda la conquista
di Palazzo Marino. Se il marito uscì dalla campagna elettorale
«arricchito» umanamente , finanziariamente invece si svenò.
Meglio: si sarebbe svenato se lui e il fr at ello Massimo , presidente
dell'Inter, non fossero più ricchi del conte di Montecristo.
Dai soli atti ufficiali risulta infatti che !'imprenditore Moratt
i Gianmarco, socio forte dell'industria petrolifera Saras,
versò al comitato elettorale di Moratti Letizia, alla voce «contributi
», la bellezza di 6.335.000 (seimilionitrecentotrentacinquemila)
euro. Per capirci: con quei soldi, di lussuosissime
Bentley Continental GT Coupé, poteva regalarne alla moglie
quarantuno. Con l'autoradio e il frigobar.
Gli domandarono: è vero che ha pagato lei questa campagna
elettorale? Sorrise: «È vero che in casa i conti li tengo io».
L'idea che qualche avversario potesse chiedersi maliziosamente
se un atto d'amore cosi costoso fosse anche un investimento sul
futuro non lo sfiorò neppure. Del resto, se suo fratello Massimo
aveva speso 19 milioni e mezzo di euro per un ronzino come Javier
Farinos (Farinos') e altri 21 per un brocco come Sergio Conceiçào
(Conceiçào! ), non era forse libero, lui, di puntare su una
bella puledra purosangue sulla ruota di San Siro?
Che Letizia Brichetto Arnaboldi Morat ti sia sempre stata
trattata bene dal consorte è, d'altra parte, una leggenda finita
perfino in Consiglio dei ministri. Successe il giorno in cui, taglia
qua e taglia là, per poter tagliare un po' le tasse Silvio Berlusconi
mise le mani pesantemente sui bilanci dell'Istruzione.
Scandalizzata, lei tentò una ribellione. Al che Giulio Tremonti,
aggiustandosi gli occhialetti e strascicando perfido la «evve»
moscia, le sibilò: «Letizia, renditi conto che il governo non è mica tuo marito».
Un dettaglio di cui ebbe modo di rendersi conto anche
Bruno Ferrante, l'ex prefetto che alle Comunali correva per le
sinistre: «Ce l'ho messa tutta, ma era quasi impossibile. Sono
pattito che non avevo un euro, un telefono, un ufficio, un collaborato
re. Noi spendevamo uno, loro cinque». E così scrissero,
in un comunicato, anche i Ds. Secondo i quali Ferrante aveva
speso per tutta la campagna elettorale 694.000 euro rastrellati
tra i militanti e i comitati di base e le collette e un po' di soldi
dei partiti della coalizione, e la Moratti 3.642.900. Errore:
dal solo marito ebbe in realtà (ufficialmente) nove volte più del
denaro investito dall'avversario.
E il bello è che Gianmarco Moratti, su quei soldi spesi per
la campagna della moglie, risparmiò più tasse che se li avesse
dati a un laboratorio scientifico dedito, tra mille difficoltà e
carenze di attrezzature e ricercatori pagati 900 euro al mese,
agli studi sulla leucemia infantile. Penserete: non è possibile!
Invece è così. Dice la legge che «le erogazioni liberali in denaro» a organizzazioni, enti, associazioni onlus (cioè non lucrative di utilità sociale) si possono detra rre dalle imposte per il 19% fino a un tetto massimo di 2065 euro e 83 centesimi. Tetto
che per i fin anziamenti politici è cinquanta volte più alto:
103.000 euro. Facciamo un esempio? Prendiamo un imprenditore
con moglie, due figli, un reddito tondo tondo di un milione
di euro l'anno e 423.170 euro di imposte da pagare. Se
dona 100.000 euro a una onlus (per dire, una comunità di disabili
o i bimbi lebbrosi di Madre Teresa di Calcutta) va a pagare
tasse per 422.777 euro con un risparmio di 393. Se invece
versa un contribuito di 100.000 euro a un partito va a pagare
di Irpef 404. 170 euro, con un risparmio di 19.000 euro tondi.
Riassumendo: a dare una mano a chi dedica la vita ad alleviare
il dolore ti avanzano i soldi per un masterizzatore. A ingraziarsi
la simpatia di una giunta o di una segreteria che possono venire
utili per gli affari, risparmi quanto basta per andare in crociera
in otto, con moglie, figli, genitori e suoceri a Tahiti e Bora
Bora. Va da sé che, con regole così, un mucchio di imprenditori,
soprattutto quelli che sapevano di avere bisogno, spesso o saltuariamente,
di un «aiutino», hanno distribuito per anni contributi
e omaggi e regalie varie. Talvolta solo agli amici di una
parte, come Alfio e Alvaro Marchini, i mitici costruttori rossi
che impastavano la fede comunista, la spregiudicatezza degli
imprenditori d'assalto, i rapporti col Vaticano e la presidenza
della Roma Calcio, amalgamando tutto sotto il motto «calce e
martello». O l'altrettanto famoso Gaetano Caltagirone Bellavista
che secondo Franco Evangelisti era sempre così generoso
con la Dc che il braccio destro di Andreotti, nella celeberrima
intervista a Paolo Guzzanti, non aveva manco idea della quantità
dei soldi ricevuti: «Chi se lo ricorda? Ci conosciamo da
vent'anni, ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: "A Fra',
che te serve?"».Il patron della Parmalat Calisto Tanzi, invece, ha avuto
politicamente più amanti di Caterina di Russia. E ha finanziato,
mettendo i soldi a carico dei risparmiatori, larghissima parte
delle forze politiche. Alla luce del sole e anche di nascosto.
Secondo la procura di Parma, scrivono in Onorevoli wanted
Peter Gomez e Marco Travaglio, «è sicuro che Calisto Tanzi a
partire dal 1993 abbia fatto uscire dalle esangui casse del gruppo
Parmalat almeno 12 milioni di euro per finanziare illecitamente
"membri del Parlamento nazionale, consiglieri regionali,
provinciali e comunali, presidenti, segretari e direttori politici
e amministrativi dei partiti" . E altrettanto sicuro è che tutto
questo denaro non sia stato speso per semplice amiciz ia.
Collecchio foraggiava la politica per avere a disposizione le
persone giuste a cui rivolgersi nel momento del bisogno. Cioè
sempre, visto che già a partire dall'anno della sua quotazione
in Borsa, il 1990, il gruppo era tecnicamente fallito. Sarebbe
bastata una verifica approfondita da parte della Consob, della
Guardia di Finanza o della magistratura di Parma per rendersene
conto. E invece, nel corso degli anni, il buco Parmalat si
gonfiò a dismisura. Le banche italiane ed estere lo finanziarono
fino a fargli toccare la quota record di 14 miliardi di euro,
per poi provare a scaricare il debito sul parco buoi dei risparmiatori,
convinti di acquistare i bond di un'azienda fondamentalmente
sana». Come sia finita si sa. Tornato dalla fuga in Ecuador (con Ettore
Giugovaz, l'amico di Pietro Lunardi) e messo dentro, Calisto
Tanzi sventagliò nomi su nomi. Pochi mesi e tutto evaporò.
Nel nulla. Eppure il Gran Lattaio, anche se gli stessi giudici avevano
il dubbio che vedendo crollare «il suo impero industriale,
da sempre fondato anche sul favore politico» volesse «lanciare
un messaggio ai suoi protettori», di cose ne aveva dette.
Su Silvio Berlusconi: «Quando è stata fondata Forza Italia
sono stato chiamato da Berlusconi e l'ho incontrato ad Arcore.
Mi chiese se volessi entrare nel gruppo dei suoi sostenitori. Aggiunse
che l'impresa che voleva portare avanti con la creazione
di un partito era piuttosto onerosa. E mi chiese se il mio gruppo
poteva aiuta rlo sia dal punto di vista fina nziario che organizzativo.
lo gli risposi che non era mia intenzione schierarmi
con lui ufficialmente, ma che ero comunque disponibile a contribuire
economicamente al progetto Forza Italia. Insieme concordammo
di utilizzare il canale della pubblicità per finanziare
occultamente il nuovo partito». Sdegnata smentita: falso.
Su Romano P rodi: «Sia in occasione delle elezioni politiche
del 1996 sia recentemente, circa un anno fa, ho fatto erogare
al presidente Romano Prodi del denaro. Si è trattato di due
versamenti da 150 milioni di lire cadauno. il finanziamento mi
venne richiesto direttamente da Gianni Pecci, amico personale
di Prodi, il quale ricevette il denaro da Pietro Tanzi solo omonimo
di Calisto, NdA che è il capo della mia segreteria. il denaro
venne prelevato dalle casse della Parmalat SpA in contanti» . Sdegnata smentita: falso.
Su un po' tutti: «il rapporto con il sistema politico a livello
nazionale è durato ininterrottamente sino al 2003 e posso dire
che nel tempo ho finanziato le seguenti persone (preciso che
l'elenco non è completo , sempre per un problema di mera memoria
e stanchezza): Colombo Emilio (tramite Crocetta); Sanza;
Scotti; Evangelisti ; De Mita (tramite Maggiali); Signorile;
Gava; Goria; Androni; Sanese; Gargani; Bonalumi; Citaristi;
Mannino; D'Alema; Minniti; Castagnetti; Tabacci; Buttiglione
(tramite Duce); Fini; Casini; Alemanno; La Loggia (tramite un
contratto di consulenza legale). Ovviamente le modalità di finanziamento
sono state diverse e in alcuni casi realizzate in maniera
indiretta. Mi riservo di dettagliarle nel prossimo interrogatorio ». Sdegnate smentite: falso.
E le vacanze? Come dimenticare le crociere o i soggiorni
tropicali? Tanti politici prenotavano per esempio con la tanziana
Hit, Holding italiana turismo, partivano, si indoravano al sole
e al ritorno, stando alle carte, si dimenticavano di pagare. Si
dimenticò di pagare 14.253 euro (per saldare poi il conto all'esplodere
dello scandalo) il ministro delle Risorse agricole Gianni
Alemanno, partito per Zanzibar con moglie e figlio il giorno
stesso in cui aveva chiuso i lavori la Seconda Commissione Interministeriale
che doveva dare il via libera al latte Frescoblu. Si
dimenticò di pagarne 9375, almeno fino all'intervento della Finanza,
Totò Cuffaro, andato in vacanza con la famiglia in un villaggio
a Pantelleria. Si dimenticò di pagarne 7238 il sottosegretario
forzista Giovanni Dell'Elce. Si dimenticò di pagarne 8050
Maurizio Gasparri, ministro delle Telecomunicazioni.. .
Così è, la politica. Preso da mille impegni, uno dimentica.
Silvio Berlusconi, per dire, scorda spesso di essere stato il più
grande finanziatore privato del sistema politico italiano, con un
metodo originalissimo: gli sconti praticati sugli spot elettorali.
Dalla metà degli ann i Novanta e fino al 2000, quando la legge
sulla par condicio rese di fatto impossibile la réclame politica
in televisione, Fininvest ha dato indirettamente ai partiti, attraverso
quel meccanismo, contributi per quasi 108 milioni di euro
in valuta 2006. Oltre 200 miliardi di lire.
La somma più grande, ovviamente, è finita a Forza Italia.
Che già era nata nel '94 grazie a un impegno della concessionaria
pubblicitaria del gruppo (parole di Marcello Dell'Utri: «Publitalia
non ha contribuito alla campagna elettorale di Forza Italia: Publitalia
ha "fatto" la campagna elettorale e ha creato
dal nulla il più forte partito italiano») costato solo di buste paga
al personale 842.339 euro. Totale dei contributi dati da Berlusconi
imprenditore a Berlusconi politico: quasi 24 milioni di
euro attuali. Una somma astronomica, rispetto ai soliti fin anziamenti
contabilizzati nei bilanci delle imprese più generose
con i partiti. Ma spesa, ulteriore esempio di creatività, senza tirare
materialmente fuori un cent. Ed economicamente redditizia,
vista la soddisfazione di Mediaset al varo della legge Gasparri
di cui abbiamo detto.
Neppure il Psi di Craxi, che al Cavaliere era così legato da
rientrare precipitosamente nel 1984 in I talia per firmare da presidente
del Consiglio il decreto legge che bloccò l'oscuramento
delle tivù berlusconiane, ebbe mai da lamentarsi. Prima della
nascita di Forza Italia, era infatti il principale beneficiario degli
sconti sugli spot elettorali. Al punto di avere avuto complessivamente
da Fininvest poco meno di quanto sarebbe poi stato
dato agli azzurri: 23.733.554 euro di oggi. Seguiva al terzo posto
la Democrazia cristiana (13 milioni e mezzo), al quarto il
Movimento sociale poi Alleanza nazionale (7 milioni abbondanti),
al quinto i liberali e al sesto gli odiati comunisti «travestiti
da democratici di sinistra» bollitori di bambini: quasi 5 milioni
e mezzo.
Tutto pubblico, tutto dichiarato. Almeno su questo versante.
I contributi del Biscione, oltre alla specificità di essere
per loro natura quasi «immateriali» , sono stati i primi concessi
ai partiti alla luce del sole e denunciati regolarmente alla Camera
da un titolare di concessioni pubbliche. Senza che ciò suscitasse
non diciamo scandalo, ma neanche un accenno di polemiche.
Anche i contributi deliberati poco prima delle Politiche
del200Gdalla società Autostrade in favore di tutti i partiti sarebbero
stati accolti d all'indifferenza gene rale, se non fosse
successo quel che raramente accade. Verdi e Rifondazione rifiut
arono l'obolo: no, grazie. Colto di sorpresa, l'allora amministratore
delegato Vito Gamberale mandò una lettera al presidente
del Sole che ride Alfonso Pecoraro Scanio: «Con questo gesto
la holding Autostrade non intende affatto acquisire benemerenze
o condizionare minimamente la libera posizione che
ciascun partito può e deve avere verso le singole tematiche del
Paese, ivi comprese quelle di più diretto interesse del gruppo e
delle singole controllate. Autostrade ha sempre rispettato anche
le posizioni più critiche, specialmente se alimentate da buona
fede. E siccome anche le posizioni critiche hanno comunque
un forte e autentico valore democratico, anche esse e chi le rappresenta
devono poter avere libero spazio e quindi mezzi di
espressione e di pensiero. Da qui la decisione del nostro consiglio
di amministrazione di rivolgere attenzione, modesta ed
equamente rip artita, ai vari partiti politici». Traduzione di «modesta
ed equamente ripartita»: 20.000 euro per le formazioni
politiche più piccole, 150 per quelle più grandi. Prosit.
Ma la cosa non finì lì. Perché fu impossibile non notare la
successione temporale, risoltasi in un autogol, fra quei «regali»
e l'annuncio del progetto di fusione fra la concessionaria italiana,
privatizzata nel '99 con la vendita ai Benetton, e il gruppo
spagnolo Abertis.Operazione cui il governo non poteva restare
insensibile. «Quei soldi sono un fatto di una gravità inaudita! »
tuonò il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. E anche il ministro
delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, che inizialmente
non si era rivoltato contro il contributo, rispedi i soldi al mittente.
Arrivando a usare quell'episodio, di fronte alla Commissione
europea critica sul no alla fusione, come prova che le Autostrade
volevano condizionare la politica per avere spianata la
strada dell'accordo. E gli altri ? Se la cavarono così: niente «aiutini
» all'operazione, ma niente restituzione del dono.
L'idea di «tenersi buoni tutti» è comunque diffusa. Certo ,
Francesco Gaetano Caltagirone preferisce dare i soldi (700.000
euro per le Politiche del 2006: un obolo da taccagno, per uno
che di sole plusvalenze sulle sue quote nella Bnl vendute a Giovanni
Consorte ha guadagnato la bellezza di 255 milioni) all'Udc
del «quas i-gene ro» Pier Ferdinando Casini. Giannino
Marzotto, procurandosi il pubblico dissenso non solo dei fratelli
Pietro e Paolo ma della stessa figlia Margherita «
o Medici senza frontiere») ci tenne a far sapere di avere
dato un milione di euro a Forza Italia e un altro alla Lega: «Della
politica non mi importa, della libertà sì». E dieci anni prima
Malvina Borletti, erede della dinastia delle macchine per cucire
«Borletti: punti perfetti!» e della Rinascente, aveva dato oltre
3 milioni e mezzo di euro a Romano Prodi e Antonio Di Pietro:
«Riflettono il meglio degli italiani e credo nella loro assoluta
buona fede». Per non dire dei finanziamenti a senso unico delle Cooperative
rosse, da sempre accusate dagli avversari di essere la vera
cassaforte della sinistra. Nonché di essere spesso «disinvolte»
negli affari e nella scelta degli alleati. Come nel caso della costruzione
eli un villaggio per gli alluvionati nel paese più povero
della Calabria, Nardodipace, dove gli sbancamenti vennero affidati
alla cosca Mazzaferro. O quello del «Palazzo Lebbra»
(chiamato così perché nessuno lo voleva più toccare) di Ferrara,
un complesso bellissimo e abbandonato quando già c'erano
gli abat-jour sui comodini dell'hotel di lusso (mai aperto) dopo
l'esplosione dello scandalo intorno al Cavaliere di Catania Gaetano
Graci e alla sua alleanza con la Coopcostruttori eli Argenta,
andata in crisi dopo la condanna per tangenti del suo storico
presidente Giovanni Donigaglia. O infine della scalata di
Unipol alla Bnl, condotta al fianco di uomini come Emilio
Gnutti e Gianpiero Fiorani da quel Giovanni Consorte al quale
Piero Fassino disse: «E così abbiamo una banca...». Una battuta
incauta per gli amici, indecente per gli avversari.
Molti preferiscono però strizzare l'occhiolino un po' a dest
ra e un po' a sinist ra. Marcellino Gavio, l'imprendi tore di
Tortona che gestisce la Torino-Milano, ha finanziato alle Politiche
del 2006 tanto Romano Prodi quanto l'Udc dell 'ex so cio
Vito Bonsignore, già deputato democristiano, sottosegretario
del primo governo Amato e tornato alla politica come eurodeputato
nel 2004 (quando autofinanziò se stesso con un milione
di euro) dopo una condanna a 2 anni di carcere per corruzione.
Nel 2004 il patron di Air One Carlo Toto versò 25.000 euro a
Forza Italia, 20.000 ad Alleanza nazionale, 20.000 al ministro
diessino Pier Luigi Bersani e 25.000 a Massimo D'Alema,
baciato da altri 15.000 euro (buttali via...) dell'impresa di costruzioni
Todini, presieduta da Luisa Todini, già europarlamentare
di Forza Italia.
Indimenticabile, alle Politiche del 2001 , la scelta di Farmindustria.
Che si coprì su tutti i fronti dando 155.000 euro a
Forza Italia, 23.000 alla futura sottosegretaria azzurra alla Salute
Elisabetta Alberti Casellati e poi 12.000 ciascuno al medicodeputato
aennino Giulio Conti, all'ex sottosegretaria diessina
alla Sanità Grazia Labate, all'ex primario senatore di Alleanza
nazionale Antonino Monteleone, alle diessine Monica Bettoni
(commissione sanità del Senato ) e Marida Bolognesi, autrice di
varie proposte di legge sui farmaci... Per non dire della società
di traghetti Caronte & Tourist che nel giro di pochi mesi piazzava
un socio (Francantonio Genovese) sulla poltrona di sindaco
di Messina per il centrosinistra e versava un contributo di
15.000 euro agli azzurri berlusconiani per il centrodestra.
Ma vale la pena di tirar fuori i soldi? L'uomo giusto per rispondere
potrebbe essere Giampaolo Angeluccì che coi fratelli
Alessandro e Andrea governa quell'impero di cliniche private
fondato dal padre, l'ex portantino Antonio cui abbiamo già accennato.
Vista dai nemici (rari) come teorica del «cerchiobottismo»
e dagli amici (tanti) come virtuosa portatrice di ecumenismo, la
dinastia è stata a lungo finanziatrice del centrosinistra, azionista
dell'«Unità» e poi del «Riformista» ma insieme editrice del
più grintoso dei giornali della destra, «Libero». Una scelta t rasversale
che ha portato bene alla famiglia. Per esempio con l'assenza
di reazioni alle denunce del Parco dell'Appia Antica che,
sulla base delle fotografie aeree, dimostrò che due vecchie baracche
pre-esistenti su quattro ettari e mezzo degli Angelucci a
pochi metri da porta San Sebastiano erano diventate, nonostante
l'inedificabilità assoluta (mattoni transgenici?), una villa di
292 metri quadrati più una «casa custode» di 106 più un «magazzino
attrezzi agricoli» di 120 più un «recinto cavalli» ...
La prova di quanto si erano fatti benvolere arrivò il giorno
dell'arresto di Giampaolo, accusato di corruzione e illecito finanziamento
ai partiti per un mucchio di soldi dati all'allora governatore
Raffaele Fitro nella speranza fosse rieletro e confermasse
le sue scelte sulla sanità pugliese. Bene: quel giorno,
dopo oltre un decennio di insanabili contrasti tra giustizialisti e
garantisti, ghigliotrinisti e perdonisti, colpevolisti e innocentisti,
calò la quiete. E i sinistrorsi del «Riformistax e i destrorsi di
«Libero» si unirono finalmente nello stesso coro: massima fiducia
e solidarietà...
12
AAA Cercasi poltrona per trombato
Migliaia di cariche nelle società pubbliche per sistemare gli «ex»
L'arzillo polentone Ernesto Cravos, classe 1914, si è gagliardamente
lanciato col paracadute, nel cielo sopra il Piave, a 90 anni
passati: «Mi preoccupava un po' solo un piede malandato».
L'attore Philippe Leroy, reduce della guerra d 'Indocina, si è
buttato a 75 atterrando con un inchino e un baciamano galante
alle signore. E un gruppo di pazzi guidato dalla signora Karina
Willerup ha battuto ogni primato allacciando in un girotondo
aereo sotto il sole di Bangkok, mano nella mano, 357 paracadutisti.
Ma se ne facciano tutti una ragione: nessuno atterra col
paracadute come i politici italiani.
Disse un giorno Giuliano Ferrara dopo una sconfitta, per
il gusto dello sberleffo : «La caduta è il momento magico della
politica, quello in cui essa ti si rivela con le sue maschere, le sue
debolezze, le sue vanità. E in cui riassapori il piacere di gironzolare
per Roma. È bellissima, la caduta». Sarà. Ma la grande
maggioranza dei nostri deputati, senatori, sindaci, governatori,
assessori regionali, ci fa una malattia, a cadere.
C'è chi reagisce sventagliando insulti, come Vittorio Sgarbi
dopo esser stato trombato dagli elettori veneti nel '96: «Sono
dei deficienti. Egoisti. Stronzi. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori.
Hanno scelto la Lega? Complimenti. Risultato: si ritrovano a
essere governati dai meridionali democristiani e dai comunisti.
(...) Voglio fare un'Antilega al Sud, in citando i meridionali a
non comprare più prodotti veneti. Questi qui ormai coltivano
il razzismo puro. Questa gente non è stupida. È peggio: ignorante
e plebea. li concetto di fondo è: questi elettori sono tutti
delle teste di cazzo».
La maggior parte dei trombati, però, si accascia distrutta sul
divano con gli occhi fissi al soffi tto: addio, e adesso? L'unica
che un giorno ha avuto il coraggio di confidarlo è stata Emma
Bonino, dopo la botta alle Politiche del 2001 in cui s'era illusa
di ripetere il trionfo delle Europee: «Mi sento come un limone
spremuto. Non ho fame, non ho sete, non ho sonno. Mi
sento una disadattata in questo Paese. Dico e credo in cose aliene
rispetto alla cultura generale dell'Italia. L'impegno civile, la
passione per la nobiltà della politica... Ma cosa pensa la gente?
Forse ho parlato arabo. Marco Pannella ha una tigna di reazione
diversa.. . l o invece sono un limone spremuto, adesso ho solo
bisogno di curarmi: perdo i capelli, mi ballano i denti, soffro
di fotofobia. Porto gli occhiali neri, non sopporto più la luce,
non riesco più a mangiare. Ho ripreso a mangiare minestrina,
ricotta.. . ma non mi va giù niente, sono sotto anestesia» .
Niente paura, però. Se come obiettivo non hai quello di ottenere
spazi per portare avanti le tue idee ma avere piuttosto
una bella busta paga, una segreteria, un'autoblu, una piccola
corte di potere, il Palazzo non ti molla mai. E se la poltrona di
assessore e quella di parlamentare e quella di consigliere regionale
hanno fatalmente una scadenza, la tessera di fedeltà a un
partito (o la disinvolta disponibilità a cambiarlo in corsa) è un
contratto a tempo indeterminato. Più sicuro di un posto in banca.
Intoccabile e millenario come il Dente di Buddha a Kandi.
Basta essere di bocca buona e accettare tutto. Sei un chimico?
Eccoti la presidenza di un Istituto letterario. Sei un letterato?
Eccoti nel consiglio d'amministrazione d'un ente idraulico. Sei
una soubrette? Eccoti ai vertici di un organismo atomico. Sei
un elettricista? Eccoti all'Enea.
Come successe a Claudio Regis. Un tizio di Biella che in
gioventù aveva fatto il rappresentante dell'Ampex e gironzolava
nei dintorni di Telebiella , famosa per essere stata la prima
emittente privata del Paese. Giovanotto sveglio ed elettricista
provetto si era guadagnato, per la capacità di risolvere ogni
problema, un soprannome divertente: Valvola. Va da sé che,
svelto com'era nel cogliere le novità, all'arrivo della Lega aveva
subito scoperto una grandissima fede in Alberto da Giussano.
Fede che lo aveva portato prima in Consiglio comunale e poi
dritto a Palazzo Madama. Dove aveva scritto di suo pugno nel
curriculum fornito alla celebre Navicella che raccoglieva le autobiografie
dei parlamentari: «Laureato in ingegneria. Imprenditore.
Ha studiato presso l'Ecole Polytechnique, Presidente di
una società operante nel settore della ricerca aerospaziale.
Esperto di relazioni internazionali». Quale Ecole Polytechnìque>
Quali relazioni internazionali? Mistero.
Mancata la riconferma al Senato non si sa bene cosa faccia .
Per un po' non solo conserva, in attesa della nomina del successore,
il ruolo di responsabile della delegazione italiana alla
Nato, ma partecipa a una riunione ad Atene parlando «a nome
del presidente del Consiglio della Padania» e diffondendo su
carta intestata di Palazzo Madama (sic!) un appello ai p arlamentari
st ranieri in favore della secessione. Quanto basta, insomma,
per guadagnare le critiche di tutti e la riconoscenza di
Umberto Bossi. E il 3 settembre del 2003, con la benedizione
della Lega, l'«ing. Claudio Regis» viene nominato da Letizia
Moratti, con tanto di stipendio e segretaria e prebende varie,
nel consiglio d'amministrazione dell'Enea, l'Ente per le nuove
tecnologie, l'energia e l'ambiente.
Anni d'oro. Uomo giusto al posto giusto, campeggia nel sito
internet dell 'organismo come «ing. Regis». Firma come
«Claudio Regis, ingegnere Enea» articoli dal titolo Idrogeno
fonte di energia, realtà O mito sulla rivista on-line «Kosmos».
Querela gli ex soci facendo scrivere nell'atto giudiziario, nero
su bianco, che lui è l'«ing. Regis» nonché il «consigliere del
Premio Nobel Rubbia», Viene fatto da Silvio Berlusconi vicecommissario
con la conferma del titolo addirittura nel decreto
di nomina: «ing. Regis». Finché, dopo che aveva liquidato Rubbia
come un somaro «
un sonoro incornpetente») viene smascherato:macché ingegnere!
La famosa Ecole Polytechnique di Friburgo, ammesso che
ci sia andato davvero visto che è stata fondata quando lui era
già adulto, non è affatto un'università.
Vero, ammette lui, ma precisa di considerarsi «comunque
un ingegnere a tutti gli effetti» . Anzi, guai a chi osa mettere
in dubbio la sua preparazione: «Non ho sostenuto alcun esame di
abilitazione all'esercizio della professione poiché ho poi scelto
la via dell'imprenditoria privata». Minaccia querele. Emette comunicati:
«Preciso sempre che non desidero venir chiamato ingegnere
ma non posso impedire ad altri di farlo». In ogni caso,
ci tiene a far sapere: «Come parlamentare mi sono battuto per
l'abolizione del valore legale del titolo di studio». Fatto sta che,
dopo esser finito in prima pagina con una storia del genere, in
qualunque altro Paese del mondo un finto ingegnere vicecommissario
per meriti politici in un ente scientifico come l'Enea
verrebbe sbattuto fuori all'istante. Lui no: resterà ancora per
18 interminabili mesi. Inamovibile. Finché il nuovo ministro
delle Attività produttive, Pier Luigi Bersani, non ci darà un taglio,
ai primi di febbraio del 2007.
E chi li schioda, i paracadutati? Chi la tocca quella rete di
interessi, relazioni, serbatoi elettorali, rapporti consolidati con
le camere di commercio e le associazioni artigiani e le accademie
culturali e insomma quel reticolo di conoscenze così preziose
il giorno delle elezioni? Prendete, per esempio, Franco
Bonferroni. Ai più giovani non dirà nulla, ma un tempo era un
potentissimo senatore democristiano, luogotenente di Arnaldo
Forlani in Emilia. Si eclissò dopo Tangentopoli, come una parte
della classe dirigente dello scudocrociato, vittima fra l'altro
d'una «disavventura» singolare. In un impeto di generosità aveva
regalato un giorno al vescovo di Reggio Emilia, Paolo Gibertini,
una fiammante Fiat Croma, avuta a sua volta in dono
dall'imprenditore Costantino Trabucchi. Il magistrato, sospettando
fosse una tangente, l'aveva mandato a processo. Assolto.
Sia lui sia Trabucchi avevano concordato: «Nella caldissima
estate del 1991 incontrammo il vescovo su una vecchia Uno e
noi, che viaggiavamo su una Mercedes Coupé, decidemmo assieme
di donargli la Croma». Uomini pii. Evidentemente male
interpretati anche dal vescovo, che aveva restituito subito le
chiavi della macchina, protestandosi in buona fede.
L'incomprensione non lasciò però alcuna traccia nei rapporti
fra il nostro e la Chiesa. Tanto che nel settembre del 2006,
al matrimonio di Marcello Bonferroni, a tagliare la torta col ca-
ro Franco c'erano il massimo esponente dei vescovi Camillo
Ruini, il braccio destro del massimo esponente del centrosinistra
Angelo Rovati (l'amico Prodi non ce l'aveva proprio fatta a
venire) e il massimo esponente del centrodestra Silvio Berlusconi.
Prova provata che, al di là delle cariche ufficiali, c'è in
politica un peso specifico che spesso è personale. Tanto che 15
anni dopo essere stato sottosegretario all' Industria nell'ultimo
governo Andreotti, il bravo Bonferroni ha avuto in dono nelluglia
del 2005 una piccola poltrona in un'impresa pubblica. Nel
consiglio di amministrazione della Finmeccanica.
E Antonio La Pergola ve lo ricordate? Presidente della
Corte costituzionale, ministro dei governi di Ciriaco De Mita e
Giovanni Goria, parlamentare europeo socialista, dotato di capelli
miracolosamente neri come la pece a dispetto del passare
degli anni, fu uno dei tre saggi che nel '94 venne incaricato da
Berlusconi, fresco conquistatore di Palazzo Chigi, di studiare
una via d'uscita dal conflitto d'interesse. E lì, avendo già l'autoblu
perenne e un paio di belle pensioni, avrebbe potuto chiudere.
Ma s'annoiava. Così nel 2006, a 75 anni suonati, lo fecero
atterrare alla presidenza del Poligrafico dello Stato. Accettata,
s'intende, con lo stesso spirito di servizio che spinse Giuseppe
Garibaldi a rispondere da Bezzecca: "Obbedisco».
L'ex ministro dei Trasporti dici Giancarlo Tesini, ormai
quasi ottantenne, ha così accettato la presidenza dell'Agenzia
nazionale per la logistica: "Obbedisco» . Roberto Radice, ministro
dei Lavori pubblici nel primo governo Berlusconi, ex parlamentare
forzista e candidato trombato alla poltrona di sindaco
di Monza, ha accettato la presidenza della Consip, la società
del Tesoro incaricata di fare gli acquisti per la pubblica amministrazione:
"Obbedisco». E così ha risposto Maretta Scoca
(già deputata berlusconiana e poi casiniana e poi mastelliana e
sottosegretaria ai Beni culturali nel governo di Massimo D'Alema
e autrice di una proposta di legge per far cantare agli alunni
delle elementari l'inno di Mameli prima dell'inizio delle lezioni)
accettando ptima la nomina nel Consiglio di presidenza della
Corte dei Conti e poi quella di consigliere della Consip: "Obbedisco
». E così l'ex sindaco di Formia, Clemente Carta, lui pure
transfuga verso lidi mastelliani p rima di tornare all'ovile
casiniano, ritorno benedetto dall'offerta di uno strapuntino nel
consiglio di amministrazione delle Ferrovie: «Obbedisco» .
E via così. A centinaia e centinaia. Con qualche caso particolarmente
spassoso. Come quello del commissario straordinario
nominato nel 2006 dal governatore calabrese Agazio Loiero
alla camera di commercio di Cosenza, Pietro «Pierino. Rende.
Un settantenne, ai bei tempi tre volte deputato della Dc, che
della sua stagione d'oro ha conservato un eloquio che ricorda i
ghirigori sul marzapane di una volta, con appelli a tutti gli imprenditori
«considerati non particelle elementari di solitudine
ma elementi essenziali di comunione produttiva». Poffarbacco!
Doveva mettere pace, grazie a questi modi vellutati e mielosi,
nella rissa da saloon scoppiata tra i protagonisti dei vertici
precedenti. Nella battaglia giudiziaria di ricorsi e controricorsi
davanti al Tar un faro ha finito invece per illuminare lui. Mettendo
in luce un dettaglio strepitoso: fatto commissario per il
«physique du ròle» da pacificatore, Pierino il fisico non ce l'aveva
proprio. Sedici anni prima, quando era ancora poco più
che cinquantenne, aveva ottenuto infatti di lasciare la sedia di
funzionario della Provincia e di andare a riposo perché non ce
la faceva più. Stando alla visita medica, il poveretto lamentava «dispnea
(cioè respiro affannoso) a volte anche a riposo, di tanto in tanto
edemi (gonfiori) agli arti inferiori, insonnia, sudorazioni, tremori,
episodi di tachiaritmia (alterazione del ritmo cardiaco),
digestione laboriosa, stipsi (stitichezza) e miopia». Quanto bastava
perché la commissione, dando il via libera alla pensione
(2.400.000 lire al mese, di allora, da sommare al vitalizio parlamentare),
lo riconoscesse «inidoneo permanentemente non solo
alle proprie mansioni ma a ogni proficuo lavoro». Sedici anni
ed è tornato in forma. Prova provata che la politica non fa
male alla salute...
Direte: ma ci capiscono, almeno? Talvolta . Come l'ex deputato
missino Antonio Parlato , barbuto recordman delle interrogazioni
parlamentari ed esperto di diritto della navigazione,
piazzato alla presidenza deIl 'Ipsema, l'ente previdenziale dei
marittimi. Oppure, volendo riderei su, come Giuseppe Fortunato,
schierato nel 2005 dal governo Berlusconi all'authority
per la Privacy. Uomo giusto al posto giusto: qualche anno prima
era stato infatti condannato fino in Cassazione per avere
violato la privacy di alcuni avversari politici. Consigliere comunale
a Napoli nelle me di Alleanza nazionale, era riuscito a procurarsi
i tabulati delle telefonate fatte coi cellulari di servizio
dagli assessori comunali. E aveva subito convocato i cronisti
per svergognare la giunta: «C'è chi telefona ogni notte alle centraliniste
erotiche!».
a ddio, può anche capitare che qualcuno ammetta candidamente
di aver ricevuto una prebenda per motivi squisitamente
politici. Lo ha fatto, per esempio, Franco Bassanini. Parlamentare
per quasi un trentennio, ministro e sottosegretario nella
stagione ulivista, cose che gli garantivano comunque un buon
vitalizio, nel 2006 era sfaccendato. Era già ministro la moglie
Linda Lanzillotta, come potevano portarlo al governo? Collocato
nel consiglio della Cassa Depositi e P restiti, la banca del
Tesoro, sembrò a qualche malizioso il segnale di un rigurgito
statalista. Lui abbozzò: «Perché mi hanno nominato? Forse
perché non avevo altri incarichi».
Viva l'onestà. Ma è merce rara. Vi chiederete: ma non esistono
regole precise sulla scelta di questi bramini, destinati a
guadagnare spesso stipendi favolosi? Sì e no. Prendiamo l'Antitrust:
può annoverare fra i suoi componenti, oltre a professori
universitari e alti magistrati, anche «personalità provenienti da
setto ri economici dotate di alta e riconosciuta professionalità».
Una formula così generica da aver permesso anche la nomina
di Giorgio Guazzaloca, l'ex sindaco di centrodestra di Bologna
buon amico dell'ex presidente della Camera Pier Ferdinando
Casini. Uomo intelligente , spiritoso, buon organizzatore, autoironico,
lettore onnivoro e di gusti non grossolani, era stato catalogato
dal grande Sergio Saviane (che lo chiamava «Copaoche
», ammazza-oche) come un «macellaio umanista». E sia
chiaro: se il «Franchino», cioè il socio della sua macelleria, dice
che «non si è mai visto nessuno svelto di coltello come lui perché
gli dai un quarto di vacca e in un quarto d'ora ti serve le fettine»,
è altrettanto vero che il «Guazza» ha alle spalle una
lunga esperienza come presidente dei macellai bolognesi e poi
presidente dei commercianti e poi presidente dell'Unione regionale
delle camere di commercio. Insomma: ci sono in giro
un mucchio di dottoroni che non hanno la sua statura.
Detto questo, è difficile dare torto a Sabino Cassese che in
un articolo sul «Corriere» ha denunciato nella nomina all'authority
dell'ex sindaco di Bologna, al di là delle qualità dell'uomo,
un esempio da manuale di come queste investiture siano mille
miglia lontane da quelle caratteristiche ormai definire solo sulla
carta. Soprattutto sui due punti centrali: «Non ha una "alta e riconosciuta
professionalità", essendo stato attivo solo quale operatore
e solo nel campo del commercio. Non ha "notoria indipendenza",
essendosi presentato a elezioni locali in uno dei due
schieramenti». Un limite, quest'ultimo, comune a molti. Non era
di «notoria indipendenza» Stefano Rodotà, per quattro legislature
deputato (indipendente di sinistra) prima del Pci e poi dei Ds
quando fu nominato garante della Privacy. Non lo era il socialista
ed ex p residente del Consiglio Giuliano Amato quando fu
messo all'Antitrust. Non lo era l'ex deputato comunista (indipendente
di sinistra) Luigi Spaventa, sfidante di Silvio Berlusconi
alle elezioni del '94 nel collegio Roma uno e ministro del Bilancio
con Carlo Azeglio Ciampi, quando fu nominato presidente
della Consob, la Commissione nazionale per le società e la
Borsa. Non lo era l'ex ministro iperberlusconiano alle Attività
produttive Antonio Marzano, che aveva accarezzato addirittura
la speranzella di trasferirsi dal governo alla presidenza dell'Antitrust
«massì , esageriamo» direbbe Totò) prima di accontentarsi
del lussuoso stipendio di presidente del Cnel, il Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro. A farla corta: la fragile diga eretta a difesa delle authority,
la cui imparzialità dovrebbe essere il primissimo dei punti fermi,
si è a mano a mano sgretolata fino a crollare in una nuvola
d i polvere. Ed ecco ammucchi arsi alla Privacy l'ex dep utato
verde Mauro Paissan e l'ex deputato di An Gaetano Rasi e l'ex
governato re azzurro calabrese Giuseppe Chiaravalloti. E poi
all'autorità delle Comunicazioni delegata al sistema televisivo,
dove la «notoria indipendenza» sarebbe indispensabile in un
Paese come il nostro , l'ex sottosegretario forzista alle Comunicazioni
Giancarlo Innocenzi, già a capo dei servizi giornalistici
delle reti berlusconiane e poi l'ex senato re della Margherita Michele
Lauria e l'ex sottosegretario casiniano Gianluigi Magri e
gli ex parlamentati aennini Stefano Morselli ed Enzo Savarese e
l 'ex senatore dell'Udeur Roberto Napoli. Per non dire dell'ex
deputato casiniano Alfredo Meocci, che dopo aver passato otto
anni all'authority fu imposto, nonostante la plateale incompatibilità
(che sarebbe poi stata sanzionata da una sentenza che annullò
tutto e costrinse il nostro a restituire i soldi) alla direzione
generale della Rai. «Imparziali», loro ? Delegati a rispettare l'articolo
l della legge istitutiva , dove si spiega che l'authority
«opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio»?
Loro? Ma dài.. . «Spirito di servizio» ovvio. Tutti mossi da «spirito di servizio», sono. E una vita, per esempio, che Silvestre detto Silvio Liotta accetta di essere strapagato con soldi pubblici per «spirito di servizio». Prima come segretario generale dell'Ars, ruolo
che per status, stipendio e prebende ha precedenti storici solo
nella carica di gran visir di Solimano il Magnifico. Poi deputato
forzista nella prima stagione berlusconiana. Poi emigrato tra i
diniani in soccorso del centrosinistra. Poi pugnalatore di Romano
Prodi (fu suo il voto decisivo) il giorno della caduta nel '98.
Poi di nuovo parlamentare della dest ra e ricandidato da Pierferdy
Casini nel collegio blindato di Partinico per un'ultima anonima
legislatura. Poteva uno come lui restare senza uno straccio
di poltrona ad appena 70 anni suonati e con due sole pensioni
sia pure faraoniche? No. E così, poche settimane prima delle Politiche
del 2006, il Tesoro lo nominò nel consiglio di amministrazione
dell'« Acquirente unico», una delle società pubbliche create
per sostenere la Liberalizzazione del mercato elettrico: forza,
Silvestre , un altro sforzo al servizio della collettività.
E le Poste? Avendo un solo azionista, lo Stato, potrebbero
avere un consiglio di amministrazione, gius to perché non decida
un uomo solo , ridotto all'osso. Tanto è vero che Tommaso
Padoa-Schioppa, appena ha messo mano a un paio di società
pubbliche, Sviluppo Italia e la Sogin (Società gestione impianti
nucleari) ha ridotto i membri dei CdA a 3. Bene, alle Poste sono
11. C'erano infatti da sistemare un po' di trombati e amici
vari: l'ex parlamentare diessino Salvatore Biasco, l'ex deputato
leghista Mauro Michielon, l'ex assessore socialista della Provincia
di Trapani Francesco Pizzo, l'ex sindaco forz ista di Monza
Roberto Colombo... Potremmo andare avanti per pagine e pagine. Ma a far la lista
di tutti i trombati, tutti gli ex collaboratori in disuso e tutti i
feudatari elettorali consolati con una poltrona pubblica non si
fin irebbe più. Come non finirebbe più l'elenco dei soldi che
vengono distribuiti, dai 51.600 a Franco Bonferroni ai 371.099
dati a Giorgio Guazzaloca. Lasciamo sta re, la sintesi è già chiara:
la Casta politica, una volta che sei dentro, ti permette quasi
semp re di campare tutta la vita. Un po' in Parlamento, un po'
nei consigli di amministrazione, un po' ai vertici delle municipalizzate,
un po' nelle segreterie. Basta avere un po' di elasticità.
Come quella di Matio Rigo, via via sindaco rosso di Venezia, senatore
ed eurodeputato socialista, deputato della Lega autonoma
veneta, senatore ulivista fino all'ultimo giorno della legislatura
sinistrorsa e da quello successivo capo di gabinetto del presidente
del Senato destrorso Marcello Pera. Per fermarsi poi
quasi ottantenne a Palazzo Madama come collaboratore di uno
dei questori. Fedele sempre a se stesso e devoto, sia pure venezianamente,
al vero atto costitutivo di un certo mondo politico:
l'antica ammuina dei marin ai del Regno delle Due Sicilie. Che
alle visite a bordo di Franceschiello avevano la seguente disposizione:
«Al comando di: "Facite ammuina", tutti chilli che stann'
a prora vann'a poppa e chilli che stann'a poppa vann'a prora;
chilli che stann'a dritta vann'a sinistra e chilli che stann'a sinistra
vann'a dritta; tutti chilli che stann'abbascio vann'ncoppa e
chilli che stann 'ncoppa vann'abbascio passann' tutti p'o stesso
pertuso; chi nun tiene nient'a ffa, s'aremeni a 'cca e a 'llà»
13
Sa tutto di carceri: commercia pesce!
Quei 146.000 consulenti spesso inutili, dalle maghe agli enti ippici
«Oggetto: consulenza rimozione sfiga cosmica cagionata alla
Provincia di Massa Carrara da Iosif Stalin , PoI Pot, Giovanni
Quarantillo e altri comunisti toscani.» C'era scritto più o meno
così, a sentire l' autore dell'iniziativa, nell'incarico dato tempo
fa a un gruppo di fattucchiere guidato dalla maga Mirka. Il turbocraxiano
sindaco di Aulla, Lucio Barani, già noto al mondo
per avere scritto all'ingresso del paese «comune de-dipietrizzato
» e aver concesso la cittadinanza onoraria «ai cromosomi X e
XY, dei maschi di casa Savoia», ne era assolutamente convinto:
senza il malocchio bolscevico il suo borgo sugli Appennini, la
provincia massese, la Toscana e l'Italia tutta sarebbero da tempo
in vetta ai Paesi più sviluppati e felici del mondo. Qual era
dunque il dovere d'un coscienzioso amministratore? Arruolare
gli specialisti con le competenze necessarie a liberare il territorio
dai malefici miasmi.
Certo, il «brain trust» delle streghe non ha dato i risultati
sperati. Così va coi consulenti: promettono promettono ma
poi... La strampalata idea del sindaco toscano, tuttavia, almeno
un merito l'aveva: la fattura per le fatture delle fattucchiere,
scusate il gioco di parole, non incise per niente sui bilanci del
comune. Merito non da poco: le consulenze sono infatti diventate
uno dei grandi buchi neri delle amministrazioni pubbliche
italiane. Che, come incessantemente martella la Corte dei Conti
, se ne servono in maniera spropositata . E spesso sono solo
l'occasione per fare dei regali agli amici e agli amici degli amici.
C'è un caso che dice tutto: quello del commissariato all'Emergenza
idrica di Reggio Calabria. Siamo nell'agosto torrido
del 2003, la città sullo Stretto è assetata e il governo
Berlusconi stanzia 8 milioni di euro e nomina commissario il sindaco, Pino
Scopelliti, uno stangone col fisico del giocatore di basket e la
tessera di An. Un mese dopo la sua segreteria chiede al ministero
dell'Ambiente «se e in quale misura si possono attribuire degli
emolumenti». Tre settimane e il ministro Altero Matteoli, lui
pure di An, fa rispondere che per carità, «nulla osta». Fino a
che cifra? «In consimili situazioni, detti emolumenti risultano
essere stati determinati in 5 165 euro mensili.x
Incamerata la propria paga, con quei soldi in aggiunta allo
stipendio, il sindaco-commissario si pone quindi il problema
dello staff. Mica facile, gestire un'emergenza idrica. Servono
esperti, ingegneri idraulici, studiosi in grado di individuare soluzioni
. Insomma, servono professionalità di alto livello. Lui
stesso, per esempio, volendo una città bella e floreale, si è preso
come consulente un'addetta del settore: la fiorista Nelly Falzea,
rose ed azalee. Quindi chi si prende per consulenti idrici? Il suo
vicesindaco Giovanni Rizzica, il suo capo di gabinetto e consulente
giuridico Franco Zoccali, il suo consulente economico Orsola
Fallara. Più il giocatore di basket Sandro Santoro quale «responsabile
dei rapporti tra l 'organo politico e quello tecnico»
(cioè «anello di congiunzione tra il commissario Scopelliti e il
suo capo di gabinetto Zoccali» rise il margheritino Demetrio
Naccari Carlizzi), più un ingegnere vero, Domenico Barrile, e
quattro ragazzi di cui uno candidato alle Comunali dall'Udc e
due militanti , guarda coincidenza, di Alleanza nazionale. Fischia,
che scienziati... Sia chiaro, non è una questione di destra o di sinistra , di
Settentrione o Meridione. I più generosi dispensatori di consulenze,
infatti , stanno esattamente agli antipodi , politici e geografici,
di Pino Scopelliti. In Alto Adige. La Provincia autonoma
paga come «consulenze» cose che da altre parti vengono
annotate sotto voci diverse. Al punto che dei 55 consulen ti che
nel 2004 e 2005 hanno avuto dallo Stato o dagli enti locali più
di 300.000 euro, 35 li hanno avuti dalla giunta guidata da
Durnwalder. Trovi di tutto, nella lista dei grandi consulenti. Comprese
alcune curiosità. Come quella che riguarda l'Unire, l'Unione
nazionale incremento razze equine voluta nel 1932 da Benito Mussolini,
che da neoricco si era invaghito dell'equitazione e faceva
diffondere sviolinate di demenziale retorica: «Il giovedì Egli salta
tutti gli ostacoli con facilità da perfetto audace cavaliere. TI
suo cavallo bianco, che Egli circonda di ogni cura e che è davvero
focoso, sa comprendere l'affetto del Suo padrone nitrendo in
modo significativo allorché sente la Sua voce». Indovinate: a chi
ha affidato la sua consulenza più costosa l'ente equino? Allo studio
del socio di maggioranza di una società registrata col nome
Criniere al vento, Giovanni Puoti, docente di Diritto tributario,
console onorario del Principato di Monaco a Roma ed ex sottosegretario
ai Trasporti (non equini) del governo Dini.
Ed è lì, dove incroci la politica, che il mondo delle «prestazioni
» esterne è più interessante. A sco rrere l'elenco l'occhio
cade per esempio su Franco Verzaschi, che nel 2004 fu benedetto
da una consulenza commissionata dal ministero degli
Esteri per «lavori di manutenzione straordinaria, adeguamento
sismico e funzionale dell'ambasciata di Algeri»: 347.000 euro.
Chi c'era in quel momento alla Farnesina? Il berlusconiano
Franco Frattini. E chi è Franco Verzaschi? Il fratello (nonché
futuro socio in una società immobiliare, la Fra.Mar. Srl) del
berlusconiano Marco Verzaschi, allora assessore alla Sanità della
Regione Lazio. Un dettaglio divertente. Tanto più che questo
fratello politico, ai tempi in cui era legatissimo a Cesare Previti
e segretario romano di Forza Italia (partito poi lasciato per diventare
mastelliano e sottosegretario alla Difesa nel secondo
governo Prodi) aveva attaccato frontalmente l'allora sindaco
Francesco Rutelli proprio su cosa? Sulle consulenze. Che secondo
lui erano troppe.
Probabile, che lo fossero. Perché su questo versante le
pubbliche amministrazioni sono diventate, a dispetto dei moniti
della Corte dei Conti, sempre più spendaccione. Avete idea
di quanti siano i dipendenti pubblici, in Italia? Secondo il dipartimento
della Funzione pubblica, circa 3.350.000. Quanti
gli abitanti della Toscana. Tutti compresi: dai militari ai magistrati,
dai bidelli agli impiegati comunali, dai funzionari regionali
ai docenti universitari. Un'enormità. Soprattutto in rap-porto ai
15 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti. Fate i conti:
ogni 5 dipendenti (scarsi), uno viene pagato dalle casse pubbliche.
Un patrimonio umano e professionale imponente, sottolineano
i magistrati contabili: che bisogno c'è, dunque, di ricorrere
a un'infinità di consulenze esterne, spesso strapagate?
La risposta è sempre la stessa: «C'era bisogno di una professionalità
specifica che facesse "quel" determinato lavoro e
un'assunzione definitiva sarebbe costata molto di più». Ovvio.
E corretto, se fosse davvero e sempre così: che senso c'è a mantenere
6 rammendatrici di arazzi al Quirinale se potresti affidare
il rammendo a laboratori esterni? Ma è una risposta pelosa, e il
più delle volte imbrogliona. Con una mano il politico fa assumere
precari, raccomandati, stabilizzati, amici, parenti, elettori,
portaborse e reggipanza senza un concorso serio da decenni e
senza che neppure i più scadenti o almeno i ladri e i corrotti vengano
buttati fuori. E con l'altra mano distribuisce all'esterno lavori
profumatamente pagati sostenendo che nessuno t ra i dipendenti
è all'altezza di farli. Un circolo vizioso micidiale.
Che gli uffici pubblici siano molte volte un colabrodo per- o
ché riempiti t roppo spesso a casaccio per motivi clientelari, è
poco ma sicuro. Per non dire dei danni fatti dalla miscela perversa
tra questo p roblema e il blocco del turn-over, Secondo
un'analisi condotta su dati del 2004 della Ragioneria dello Stato
da due ricercatori dell'Istat, Maria Letizia D'Autilia e Nereo
Zamaro, «a fronte di un'età media delIa popolazione italiana in
età lavorativa pari a 41 anni, l'età media dei dipendenti in servizio
nelle amministrazioni pubbliche è pari a 45 anni, e sale a 52
anni per i dirigenti mentre scende, ma di poco, a 43 per i non
dirigenti». Di più: considerando i soli ministeriali (quasi 2 milioni
di persone) 1 su 6 ha più di 55 anni, quasi 1 su 20 più di
60 e 1 su 10 è statale «da prima del 1974». Q uando in Spagna
era al potere Francisco Franco, la Nazionale di calcio era allenata
da Fulvio Bernardini, la «nonna» di internet si chiamava
«arpanet» e molti funzionari scrivevano ancora vezzosamente
le disposizioni con pennino e calamaio. Quanto ai dirigenti, che
altrove sono giovanotti svegli e proiettati nel futuro, quasi la
metà (il 43,8%) ha oltre trent'anni di anzianità.
Diranno: non conra l'età, ma la professionalità. Vero. Ma
anche qui la difesa zoppica.
Nel 1999 il governo D'Alerna, con Angelo Piazza alla Funzione
pubblica, tentò una scrematura. E con la legge 286 cercò
di «privatizzarex la macchina amministrativa inrroducendo alcuni
criteri che valgono in tutte le imprese private da OsIo a Brisbane:
questi sono i conri, questi sono i dipendenti, questi sono
gli ob iettivi da raggiungere, questi sono i tempi per farlo. Da
quel momento in avanti, la busta paga sarebbe sta ta dunque
composta di due parti: una fissa (legata all'anzianità e alla funzione,
buona sia per i fuoriclasse sia per i ronzini) e l'altra mobile
(tra ilIOe il 15%) legata alla capacità o meno di raggiungere
gli ob iettivi anno dopo anno assegnati. Bravissimo? Premio
grande. Bravino? Premio medio. Scadenre? Nessun premio.
Tutto chiaro ? Un po' di anni dopo, dicono le pagelle compilate
dai superiori, la situazione è questa: sono tutti bravissimi.
Tutti, dai 336 direttori generali ai 3433 direttori di seconda
fascia , per un totale di 3769 dirigenri. Tutti fenomenali. Laboriosissimi,
brillanrissimi, scrupolosissimi, onestissimi, preparatissimi...
Tanro da meritare tutti il massimo dei voti. Tutti tutti?
«Praticamenre» rispondono al ministero. Cioè? «Saranno il 99
e passa per cenro.» Quindi, qualche zuccone conclamato c'è?
«Eccezioni. Magari per motivi di carattere.» Due o tre eccezioni?
«Ecco, forse due o tre...»
Va da sé che, invece che affronrare di petto «il» problema,
la politica ha preferito non disturbare il quieto vivacchiare ddla
macchina pubblica ricavandone anzi la scusa per distribuire,
a spese dei conrribuenri, consulenze a pioggia. Dicono le tabelle
della Funzione pubblica che questi «collaboratori» censiti
nell'ultimo anno disponibile (2004) sono stati 146.518. Quasi
30.000 più degli abitanti dell'inrera Val d'Aosta. Un esercito
sterminato e costosissimo. Che ha pesato sulle pubbliche casse
per oltre 1 miliardo e 100 milioni (di cui 42 pagati a esperti
esterni dal solo ministero dell'Economia che contemporaneamente
chiedeva agli altri sobrietà), con un aumenro di quasi il
20% sull'anno prima.
Cifre da brivido, che hanno indotto il governo a mettere agli
incarichi esterni un tetto di 250.000 euro l'anno. La cui efficacia
sarà però tutta da verificare. Non solo perché il tetto
non vale per gli enti locali, che nel 2004 hanno speso per i consulenti
quasi un terzo più che l'anno precedente, per un totale
di 632 milioni. Ma anche perché nel 2004 gli incarichi di imo
porto superiore a 100.000 euro sono stati solo 373 (di cui 3401·
tre il mezzo milione e 13 oltre il milione) su 217.000. A riprova
che il problema è il fiume di denaro ingrossato da migliaia di rivoli.
Spesso sgorgati da scelte curiose.
Qualche esempio ? La consulenza affidata dalla Regione
Piemonte alle gentili Maria Luisa Ghibaudo e Gianna Rolle per
valutare se fosse opportuna «l'attivazione di una figura a supporto
dell'esperta in materia di pari opportunità», cioè l'arruolamento
di un altro consulente. Q uella commissionata dalla Regione
Emilia sull '«itinerario gastronomico del pesce azzurro».
Quella affidata a un «professionista» dal Comune siracusano di
Rosolini sulla «valutazione delle bollette telefoniche». °quella
data dalla Regione Molise a Luca Palazzo (un giovanotto neolaureato
che si era proposto direttamente con una lettera al governatore
Michele Iorio) per collaborare allo «svolgimento dell'attività
di progettazione preliminare (studio di fattibilità), definitiva,
esecutiva, coordinamento per il Molise degli interventi
previsti dall'Azione 3 del "Programma straordinario pro Argentina"
». 0, per finire, quella per l '«analisi delle caratteristiche
del lavoro femminile» affidata dal Comune di Roma, tra le
urla di indignazione della destra, a Silvia Baraldini, condannata
per terrorismo negli Usa e fatta rientrare col solenne impegno
italiano a non scarcerarla.
Tutte assolutamente necessarie? Mah... A leggere le relazioni
e le sentenze della Corte dei Conti, che proprio sulle consulenze
folli basa gran parte delle citazioni per «danno erariale
», no. Anzi, per i giudici contabili certi misteriosi «incarichi
esterni» servono a volte a mascherare dell 'altro. Come capitò
anni fa quando saltò fuori che l'Aiumix, una società del settore
alluminio che perdeva 750.000 euro al giorno ed era controllata
dall'Efim, disast rato ente pubblico presieduto da Gaetano
Mancini, un deputato socialista riciclato e cugino del più famo-
so Giacomo, aveva pagato una fattura di quasi 4 milioni e mezzo
di euro attuali per una consulenza sulla fusione fra alcune
società a una ignota agenzia di revisione, la Moberis associated
auditing, che non risultava iscritta all'albo della Consob, era
stata costituita un attimo prima di ricevere l'incarico e chiusa
un attimo dopo aver incassato l' ultima rata. li dettaglio che diceva
tutto era la genesi di questa Moberis benedetta da Efim
con giudizi lusinghieri «per capacità ed esperienza professionale
»: un negozio da parrucchiere per signora nel quartiere romano
della Balduina. Finanza & Bigodini.
Le sentenze della Corte dei Conti offrono un formidabile
spaccato di come fun zioni questo mondo. All'inaugurazione
dell 'anno giudiziario 2007 il procuratore regionale del Lazio
Luigi Mario Ribaudo ha rivelato che dei 166 atti di citazione
per danno erariale emessi dal suo ufficio, 20 riguardavano consulenze
illegittime, per un totale di 1.600.000 euro. Nella sentenza
dei giudici contabili che condannava l'ex ministro delle
Infrastrutture Pietro Lunardi a pagare oltre 2,7 milioni di euro
di danni all'Anas per aver concesso una buonuscita stratosferica
ai vecchi amministratori di cui voleva liberarsi, c'è anche un
capitolo su una strana prestazione esterna. Nell'accordo con
l'ex amministratore delegato Giuseppe D'Angiolino, oltre a indennità
varie, il ministero si era impegnato a dargli anche una
consulenza triennale per 309.874 euro. Oggetto della consulenza?
Boh... Durante !'istruttoria della Corte dei Conti saltò fuori
una nota del capo di gabinetto di Lunardi, Claudio Gelati,
dov'era scritto che il ministero in realtà non aveva «conferito al
dottoGiuseppe D'Angiolino alcun incarico» del genere. Vero?
Falso? .Fatto sta che, per la procura, queste consulenze non erano mal state concretamente ne commissionate ne eseguite ma soldi erano «stati comunque in parte pagati».
Anche Stapino Greco, un socialista già commissario della
Fiera del Mediterraneo di Palermo, è stato condannato nel
2005 a pagare 295.272 euro di danni all'ente che aveva guidato
per 3 anni. Non aveva versato all'Inps un milione di euro di
contributi, costringendo la Fiera a pagare poi sanzioni salatissime.
Colpa, diceva lui, delle casse vuote. Che però, ha notato il magistrato
contabile, non gli avevano impedito di elargire in
quegli anni in consulen ze ben 1.098.597 euro e altri 213.000 in
spese di missioni e rappresentanza, fra cui l'acquisto di tappeti
persiani per 8580 euro. Vanno matti, in Sicilia, per le consulenze. Un giorno, davanti
al diluvio di oltre 200 esperti esterni pagati da una Regione
che ha già 16.000 dipendenti, il difensore civico Lino Buscemi
ha preso carta e penna e chiesto quanto venissero pagati. La
risposta di Salvatore Taormina, capo di gabinetto della presidenza
della Regione, resta immortale. E merita di essere riportata
integralmente, punteggiatura compresa: «In merito a quanto
richiesto con la nota in riferimento, di cui all'oggetto, indirizzata
anche ai destinatari della presente, si richiede alla S.V.
di far conoscere allo scrivente ufficio il contenuto delle indicazioni
operative sulla scorta delle quali l'ufficio richiedente ha
ritenuto di avviare il processo ricognitivo di cui in oggetto. Ciò
nella considerazione che le attivazioni inerenti la fattispecie in
parola - in ragione della loro delicatezza e complessità correlabile,
anche, alla disomogeneità funzionale degli atti che avviano
i rapporti privatistici di interesse per la norma in oggetto - di
certo, necessitano di opportuni approfondimenti tesi a focalizzare
sia il reale ambito di riferimento operativo, sia il soggetto,
per opportunità sistematica, competente alla trattazione, sia le
modalità procedurali da attivare conseguentemente. In tal senso,
le indicazioni operative di cui in premessa, laddove rese, risulteranno
stimolo di riflessione prezioso per le determinazioni
presidenziali che si rite rranno opportune» .
Cioè, illustrissimo dottore Taormina? Semplice: secondo
lui la legge italiana sulla trasparenza non vale, in Sicilia ! Privacy!
Privacy! Possibile? Correzione del ministero: no, deve
essere tutto pubblico. Tira e molla, alla fine gli elenchi sono così
usciti. Con sei buchi, però: i soldi dati ai collaboratori più
stretti (3 dell'ufficio di gabinetto e 3 della segreteria particolare)
di Totò Cuffaro. E perché? Tesi del ministero: il ruolo dei 6
lascia «presumere che gli incarichi in questione implichino lo
stabile inserimento del soggetto nell 'organizzazione dell'amministrazione,
con affidamento di importanti funzioni istituziona-li tramite
un "contratto di diritto privato a tempo determinato"
che sembrerebbe costituire fonte di un rapporto di lavoro subordinato
a tempo pieno». Insomma: cose afferenti l'autonomia
siciliana, sono.
Dall'altro capo dell'Italia, in Val d'Aosta, non fanno di questi
misteri. Si sentono infatti così sicuri che mettono tutto in
piazza. Certi che comunque, al di là di qualche strillo d'indignazione,
nessuno attaccherà davvero, a fondo, quella buona vacca
grassa della Regione, che come dimostra un'inchiesta del «Giornale
», ha una mammella per tutti. Ed ecco la consulenza legale
da 61.000 euro all'avvocato Alberto Caveri, fratello dell'allora
assessore al Turismo e futuro governato re, Luciano Caveri, uomo
forte dell 'Union vald òtaine. Eccone altre all'agronomo Itala
Cerise, all'ingegner Bruno Cerise e all'esperta di beni culturali
Chantal Cerise, rispettivamente fratello, figlio e figlia dell'assessore
ai Lavori pubblici Alberto Cerise, dell'Union valdòtaine, E
poi all'ingegnere Renato Dannaz, figlio del vecchio sindaco di
Ollomont, lui pure, manco a dirlo, dell'Union valdòtaine...
Tutti esperti? Espertissimi ! Nessun esperto, però, è mai
stato tanto esperto quanto l'esperto scelto da Roberto Castelli.
li quale, appena fatto ministro della Giustizia, si guardò intorno,
spulciò i curriculum dei dipendenti, monitorò a uno a uno
gli specialisti a disposizione e disse: no, qui mi serve un vero
specialista di edilizia carcera ria. E lo individuò in Giuseppe
Magni. Un amico leghista che aveva fatto il sindaco a Calco, vicino
a Lecco.
Esperienze precedenti? Artigiano metalmeccanico, mi da
saldatura. E poi? Grossista alla Seamar, «commercio di prodotti
ittici vivi, freschi, congelati e surgelati». E poi? «Deputato»
per la Provincia di Lecco (così era scritto nel curriculum irriso
dalla Corte dei Conti) «al Parlamento di Chignolo Po», l'assemblea
padana dove i bossiani giocavano ai piccoli statisti negli
anni del Dio Po. E poi? Fine. E che ne sapeva lui, di edilizia
carceraria? Niente: «Ho detto al ministro che di carceri non so
niente. Mi ha risposto che comunque avrei fatto dieci volte meglio
del mio predecessore».
Il guardasigilli leghista, del resto, dev'essere rimasto soddi-sfatto
del suo «esperto»: gli rinnovò il contratto, lussuoso, per
sette volte consecutive. Per un totale di quasi 200.000 euro. Più
prebende varie. Risultati? Risposta della Corte dei Conti: relazioni
insipide sempre «senza alcuna documentazione» e «senza
allegati», «affermazioni del tutto generiche»...
Insomma: aria fritta. Ma pagata cara, coi soldi dei cittadini.
Tanto da spingere i giudici contabili, data «l'eclatante illegittimità
e illiceità del comportamento del ministro», a condannare
Castelli a risarcire allo Stato 98.876 euro e 96 centesimi, il50%
di quanto pagato al prestigioso ex grossista di pesce. Successivamente
fin ito sotto in chiesta proprio per la sua attività di
«esperto» a proposito di sette carceri. Attività finita anche in
un video, rivelato da Marco Lillo sull'«Espresso» , ripreso di
nascosto nell'uffi cio di un costruttore, Angelo Capriotti. Video
in cui Magni «parlava di appalti e di sue "esigenze" con il progettista
Giorgio Cravedi e il costruttore Capriotti», «Esigenze»
che secondo i magistrati «potrebbero essere mazzette»,
«Assolto» successivamente dal tribunale dei ministri, l'ex
guardasigilli pare tuttavia non aver cambiato idea sulla bontà
del sistema: «Ho fatto il consulente per vent'anni. I consulenti
portano, se capaci, una mentalità nuova, improntata all 'efficienza,
all'interno della pubblica amministrazione lenta, burocratica
e tesa unicamente alla verifica formale delle carte». Vuoi
mettere l'apporto di un grossista ittico?
14
Una casta nel cuore della Casta
Perché i Grand Commis sono quasi più potenti dei ministri
Il giudice Corrado Calabrò dice che quando gli appare la Musa
lui cade letteralmente in trance. «Siamo come due gemelli siamesi
uniti dalla schiena che tirano in direzione opposta, due
emisferi cerebrali che convivono, da anni, ognuno con la propria
autonomia» li gemello è poeta e letterato: «Diciotto volumi
di versi tradotti in quindici lingue, la prima raccolta me la
pubblicò a vent'anni la grande Guanda di Parma: sa, quella di
Gard a Lorca e Prévert...» ha raccontato a Paolo Conti del
«Corriere», arrossendo pudico. Non va lui in cerca di onori. È che gli scrosciano addosso.
E ha vinto il Premio Città di Tropea e il Premio Rhegium Julii,
il Brutium e il Bergamo, il Tagliacozzo e il Brianza, il Vanvitelli
e il Troccoli.. . Ha guadagnato una laurea ad honorem dell'università
ucraina Mechnikov di Odessa e un'altra rumena della
Vest Din di Tirnisoara. È stato insignito del titolo di cavaliere di
Gran Croce del Sacro Militare Ordine costantiniano di San
Giorgio dal principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie, duca
di Calabria. E stato baciato dai critici letterari del sito internet
«Poetry for you» come un poeta «dotato della purezza di tocco
dei lirici greci». E arrivato terzo al Premio Strega del 1999 ma
solo perché, dichiarò a caldo, vittima di «un complotto».
Organizzato da chi? Forse dall'«Osservatore romano».
Che proprio il giorno prima dell'aggiudicazione dello Strega
aveva pubblicato uno sferzante commento contro il premio, accusato
di aver accolto «romanzi in cui domina un erotismo del
tipo più sperticato, volgare e ingiustificato». Con chi ce l'aveva,
il giornale vaticano? Con lui e certe pagine del suo romanzo Ricorda
di dimenticarla , ambientato in una Roma «borghesuccia
e sporcacciona» . Dove si potevano leggere passaggi non apprezzati
di là del Tevere: «Alceo si ritrovò le labbra pubiche di lei
sulle proprie labbra...». Oppure: «Il suo utero inguainava il
membro di lui come un guanto...». Anche in famiglia non capirono:
«Mia figlia ha rifiutato il libro e ciò mi ha addolorato. Mia
moglie pure. Ma lei mi avvolge da quarant'anni con tenerezza e
comprensione. Mi ama e mi prende tutto intero, con i miei sicuri
difetti e qualche qualità». Così è la vita degli artisti. Come diceva un collega argentino
del nostro, Jorge Luis Borges, «la gloria è una forma d'incomprensione,
forse la peggiore». L'ha spiegato mille volte, lui,
rispondendo a brutto muso a quel «gruppo di benpensanti»
che lo aveva attaccato: «Ricorda di dimenticarla fu accusato di
essere un racconto erotico. Nulla di tutto ciò. La scrittura e la
storia erano legate a un'inesauribile necessità». Macché. Quell'impunito
di Alberto State ra arrivò a irridere un altro romanzo,
Deliri d'amore, scrivendo che narrava «di un signore con un
coso"grosso come un wurstel" e di una signora con una cosa
"vogliosa come una mula?». Barbaro. Meno male che l'altro gemello, il magistrato che tira in direzione opposta, è ancora più in auge del Poeta. Da sempre.
Prima di diventare presidente del Tar del Lazio ed essere infine
promosso dal governo delle destre alla guida dell 'authority per
le Comunicazioni su indicazione di Gianfranco Fini lo stesso
giorno in cui il «suo» tribunale escludeva dalle Regionali la fastidiosa
lista di Alessandra Mussolini (Non hanno manco aspettato un giorno. E un premio dopo la sentenza!»), Corrado Calabrò aveva passato più tempo nei dintorni della politica che
delle aule giudiziarie. Entrato al Consiglio di Stato (primo classificato precisa
sempre) nel maggio del '68, mentre Roma e Parigi erano in fiamme,
aveva allora 33 anni e per cinque anni era stato il capo della
segreteria tecnica di Aldo Moro. Un ruolo che gli aprì la strada
a una sfilza di incarichi ministeriali più lunga ancora della lista
dei premi letterari. Basti dire che uno studio presentato al forum
della pubblica amministrazione del 6 maggio del '95 sul peso
crescente dei capi di gabinetto spiegava che nessuno era al li-
vello del nostro gemello siamese: «La grad uatoria è guidata da
Corrado Calabrò, magistrato amministrativo, che ha ricoperto
ben 12 incarichi di capo di gabinetto, per complessivi 3962 giorni». Cioè 11 anni. Prolungati da allora in avanti con altri incarichi dentro il governo Dini e il governo P rodi. Al fianco di democristiani come Alberto Marcora e Riccardo Misasi, Filippo
Maria Pandolfi e Giovanni Galloni, ma anche di repubblicani
(Antonio Maccanico), leghisti (Giancarlo Pagliarini) e «tecnici»
come Mario Arcelli e Rainer Masera.
Cosa ne pensi della poesia, a noi che la frequentiamo meno,
non è chiarissimo (un giorno spiegò in un'intervista: «Viviamo
in una logosfera che ci esterio rizza senza estrinsecarci»),
ma sappiamo benissimo cosa pensi dei rapporti incestuosi (il
sesso qui non c'entra) tra la magistratura amministrativa e il
mondo dorato di incarichi extra, arbitrati milionari, collaborazioni
varie governative che sta a cavallo tra la politica e il business.
La sua stessa vita, arbit rati compresi (nel solo 1991 ne
sbrigò per un totale di 29 milioni di euro in valuta attuale, sui
quali la percentuale ai giudici era in genere tra l' 1 e il3% ) è
una risposta alla domanda: tutto normale.In realtà, sul tema è aperto da molti anni un dibattito. Così acceso che perfino il futuro ministro degli Esteri Franco Frattini
(che poi si sarebbe adattato al sistema partecipando addirittura
a un Consiglio dei ministri in cui si discuteva di un tratto
della Tav di cui era arbitro lui!) attaccava l'andazzo con tale
fervore che pareva l'Heinrich Kramer alle prese con la stesura
del Malleus maleficarum contro la stregoneria. E bollava come
«indecorosa» la vergogna degli arbitrati con cui si arricchivano
troppi magistrati. E st ra pazzava i colleghi consiglieri di Stato
che tenevano i piedi in d ue staffe. E firmava con l'Intergruppo
per la Legalità di Elio Veltri la richiesta «d'incompatibilità totale
fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi» .
Perché questo è il tema: come possono avere degli arbitrati
sulle liti tra imprese private ed enti pubblici o lavorare per
chi governa lo Stato , le Regioni o i Comuni, magistrati che per
il loro ruolo al Tar o al Consiglio di Stato hanno già avuto sul
tavolo o possono averli in futuro, fascicoli che riguardano
quel governo, quella giunta regionale, quell'amministrazione municipale?
Eppure non solo le cicliche polemiche e le cicliche speranze
di una riforma che faccia pulizia sono state puntualmente
rimosse. Ma l'andazzo si è fatto ancora più scandaloso.
Oltre a quello dei ministri, dei viceministri e dei sottosegretari,
il governo di Romano Prodi ha battuto nel 2006 anche
il record dei magistrati amministrativi ingaggiati in vari ruoli
(generalmente come capi di gabinetto o responsabili dell'ufficio
legislativo) nell'esecutivo. Fino ad arrivare a 37. Ai quali
vanno sommati 3 giudici al Quirinale, uno al Comune di Roma,
una decina alle authority. Un organico mostruoso. Che automaticamente
ha non solo ingigantito ulteriormente l'annoso problema
di incompatibilità. Ma ha svuotato uffici, dai Tar al Consiglio
di Stato, che già erano sepolti sotto montagne di processi
arretrati che oggi sono ancora più difficili da smaltire.
La relazione del presidente del Consiglio di Stato per l'inaugurazione
dell' anno giudiziario 2007 dice che in quel momento
i suoi uffici sono sepolti sotto 20.465 cause arretrate. il
che significa, stando alle tabelle prestabilite che fissano in circa
4800 le cause che a pieno organico possono essere defmite annualmente,
che se per un miracolo smettessero di arrivare nuovi
processi, il «tribunale d'appello» della giustizia amministrativa
andrebbe avanti per anni, prima di liberarsi dei fascicoli
vecchi. Eppure, in una situazione tale di emergenza, su 122
consiglieri complessivi, 39, quasi un terzo, sono stati «prestati»
al governo. Direte: perché nessuno blocca l'emorragia? Risposta
facile: perché un magistrato che viene distaccato a lavorare
in un ministero può prendere insieme due stipendi: quello che
conserva di giudice (dai 6000 euro netti al mese in su) più quello
di «tecnico» al servizio del governo. Direte ancora: al di là
dell'umano egoismo dei singoli che ovviamente preferiscono
prendere due stipendi invece di uno, perché non interviene il
Consiglio di presidenza degli amministrativi? Per due motivi. il
primo è che ogni tentativo di moralizzazione ha sempre incontrato
l'ostilità della corporazione. il secondo è che nell'organo
di autogoverno, alla faccia dell'opportunità morale della cosa,
ha un incarico ministeriale una buona metà dei membri.
Vi chiederete: quanto guadagnano con questi incarichi extra
tutti questi magistrati prestati al governo? Una volta, oltre al prestigio
e al potere, incassavano un paio di milioni in più al mese.
Ma dal 2001 la legge è cambiata. E il capo di gabinetto di un ministero
importante può essere pagato (sempre al di là dello stipendio
da consigliere di Stato) centinaia di migliaia di euro. Ma
esattamente quanto, visto che si tratta di sold i pubblici dati a
funzionari pubblici e regolati dalla legge del '96 sulla trasparenza
degli stipendi pubblici? li Consiglio di presidenza lo chiese nel
2003 al governo con una lettera ufficiale. Risposta firmata da Antonio
Catricalà, consigliere di Stato e capo di gabiletto di Palazzo
Chigi prima di essere promosso all'Antitrust: informazioni riservate.
Privacy.
Una tesi sconcertante. Successivamente smontata: oggi sappiamo,
per esempio, che Corrado Calabrò e lo stesso Catricalà,
come presidenti delle rispettive authority guadagnano circa
420.000 euro l'anno. Ma una tesi che dà l'idea di quanto potere
abbia sempre avuto questo battaglione di capi di gabinetto, capi
degli uffici legislativi e capi delle segreterie che di fatto sono i
veri direttori d'orchestra della pubblica amministrazione. Un
potere così solido e roccioso che quando si è cercato di infilare
nel disegno di legge di riforma delle autorità indipendenti una
norma che impediva ai consiglieri di Stato di diventare membri
delle authority, quella norma saltò all'istante: giù le mani dalla
lobby delle toghe amministrative.
Q uanto ai capi di gabinetto, c'è chi guadagna buste paga
molto più alte di quelle dei ministri. «Scandalos e» secondo
Vincenzo Visco, convinto che certe retribuzioni «andrebbero
riportate alla normalità.» Un'idea che già era stata espressa da
Luigi Mazzella, ministro della Funzione pubblica dell 'ultimo
governo Berlusconi: «Ci sono dirigenti dello Stato che prendono
mezzo milione di euro l'anno». Con disparità evidenti. Un
capo dipartimento di provenienza ministeriaie, aveva spiegato,
stava sui 261.000 euro, un suo collega strappato al mercato poteva
arriva re, già nel 2002, a 490.000. Con chi ce l'avevano?
Con Vittorio Grilli che, nominato ragioniere generale dello Stato,
era stato premiato secondo Andrea Monarchia «
che guadagnavo 400 milioni di lire») da uno stipendio di
600.000 euro l'anno, pari a quella che spettava all'allora direttore
generale del Tesoro Domenico Siniscalco?
No. Secondo lo stesso Visco «il direttore generale puoi anche
pagarlo tanto perché ha una professionalità molto richiesta
sul mercato. Ma non vedo perché si dovrebbero pagare tutti
allo stesso modo». E allora? Nel mirino , quasi sicuramente,
c'era Vincenzo Fortunato, che nella legislatura berlusconiana
era il capo operativo del ministero dell 'Economia e della sua
stanza dei bottoni. Uno squadrone composto, tra dipendenti
fissi e distaccati e staff di fiducia del ministro e dei sottosegretari,
da 369 persone. Salite addi rittura, alla fine dei cinque anni
«azzurri», a 442.
Figlio d'arte, aveva ricevuto dal padre, potente capo di gabinetto
del Tesoro all'epoca di Emilio Colombo, un consiglio: a
restare ai bordi della politica non si rischiano mai rovesci elettorali
e si guadagna di più. Parole d'oro. Che Fortunato ha messo
a frutto facendo il braccio destro di Tremonti nella prima stagione
berlusconiana e poi di Fantozzi nella breve stagione ciampiana
e poi di Visco e Del Turco nella stagione ulivista e poi di
nuovo di Tremonti... In cassando stipendi che già nel 2003 gli
avevano fa tto fare una denuncia dei redditi di 449.000 euro.
Altri si sarebbero accontentati. Lui no. O almeno così dice
una relazione della Corte dei Conti. Ricevuta nell'era del centrodestra
anche la poltrona di rettore della scuola superiore
dell'Economia e delle Finanze, dalla quale l'avrebbe rimosso
solo Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006, riuscì nel 2004 , con
una delibera del consiglio direttivo da lui proposta e «poi approvata
con decreto del ministro dell'Economia» a «rideterminare
retroattivamente, a partire dal 2001, i compensi per il rettore,
il prorettore, i capi dipartimento e i professori ordinari (in
numero di 22 con due unità in più rispetto al precedente esercizio)
per un ammontare pari al 180% del trattamento precedente
». In pratica, quasi un raddoppio dello stipendio. Con gli
arretrati. Non bastasse, venne nominato dal Parlamento, uomo
giusto al posto giusto, membro laico (6000 euro al mese)
del Consiglio superiore della giustizia amministrativa. Dove, dopo
la nascita del governo Prodi, ha continuato a vigilare sulla moralità
dei rapporti tra giudici amministrativi e politica facendo
contemporaneamente il capo di gabinetto del ministro Antonio
Di Pietro, integerrimo fustigatore dei cattivi costumi nazionali.
Busta paga? Settantamila euro lordi, assicura Tonino. Più, secondo
«L'espresso», i 430.000 conservati come docente della
scuola superiore dell'Economia.
Andiamo avanti? Basta: a far l'elenco dei Grand Commis e
dei loro privilegi non si finirebbe più. Almeno un cenno, però,
lo merita un dettaglio nella vita di Mauro Masi, già dirigente
della Banca d'Italia, già portavoce di Lamberto Dini al ministero
del Tesoro nel primo governo Berlusconi e poi capo del dipartimento
per l'Editoria e poi commissario della Siae e poi vicesegretario
generale di Palazzo Chigi e poi segretario della
presidenza... Finché, una bella mattina, quando mancava un
mesetto alle elezioni del 9 ap rile del 2006 e pareva tirare una
brutta aria per la destra, pensò che fosse venuto il momento di
chiedere al Cavaliere un piacerino.
Un decreto di una pagina, firmato da Silvio Berlusconi:
«Ritenuto opportuno istituire presso la presidenza del Consiglio
dei ministri un albo speciale dei consiglieri della presidenza
che abbiano ricoperto, per almeno un anno, incarichi di segretario
generale della presidenza, di organi costituzionali o di
rilievo costituzionale. Considerato che sia il cons. Mauro Masi
sia il cons. Salvatore Cervone ricoprono i rispettivi incarichi di
segretario generale da più di un anno...
• «Articolo 1) E istituito l'albo speciale dei consiglieri della
presidenza del Consiglio. Articolo 2) Sono inseriti nell'albo
speciale il cons. Mauro Masi e il cons. Salvatore Cervone,»
Ma dài! Un albo speciale per due-persone-due? Perfino
Tot ò, che pure ricorse al giudice per farsi riconoscere il titolo
di «Sua Altezza imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe
costantiniana dei Focas Angelo Flavio ducas Commeno di Bisanzio,
principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia,
del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso...» ne
avrebbe riso. Al di là della vanità umana, però, c'era una ragione meno
eterea. Un successivo decreto berlusconiano avrebbe infatti stabilito
che gli appartenent i a quell'albo, anche in fu turo, non
avrebbero potuto percepire uno stipendio inferiore all'SO% di
quello che avevano in quel momento. Un contrattino indecente,
scoperto dal governo Prodi e subito abolito. Peccato, povero
Masi, era proprio una bella polizza vita.
15
Fate largo: Sua Maestà il Governatore!
Sprechi, clientele e manie di grandezza delle Regioni ordinarie
Per rilanciare l'immagine di Napoli e della Campania, Antonio
Bassolino non fa «'o peducchiuso». Nel 2004, stando al bilancio,
alla voce «Spese di rappresentanza del presidente della
giunta regionale» c'era scritto: 962.506 euro e 26 centesimi. Il
quadruplo di quanto il governatore aveva sganciato pe r promuovere
personalmente la sua terra quattro anni prima, quando
di euro se n'era fatti bastare 258.000. Ma soprattutto dodici
volte più di quanto è stato assegnato nel 2006, alla voce «Spese
di rappresentanza del presidente della Repubblica federale di
Germania», a Horst Kòhler,
Ora, che quegli sparagnini dei tedeschi tengano a stecchetto
il loro capo dello Stato con 78.000 euro, lesinandogli
champagne e pasticcini, è possib ile. Ma il dubbio che il nostro
«Re 'o Sole» esageri deve turbare anche chi, come l'entusiasta
regina dei salotti «rossi» Giuliana Olcese, salutò in lui
«un grande re borbonico democratico e di sinistra». Come
può, il presidente di una Regione come la Campania, spendere
in fiori e . babà e spum, .ante e regali e party e spagnolesche
cortesie una somma così immensamente sproporzionata e pari
a quanto guadagnano in un interno anno di lavoro 207 abitanti
della napoletana Melito, all'ultimissimo posto della classifica
per reddito pro capite di tutti i comuni italian i, classifica
in cui sono campani quattro su quatt ro dei municipi più
poveri? La progressiva grandeur partenopea, che per certi versi ricorda
lo straordinario reportage su I Borboni di Napoli di
Alexandre Dumas (Eravi a Napoli un lusso di carrozza che
non si vede in nessun'altra parte del mondo, nemmeno a Parigi)
Nessun'altra città d'Europa racchiude un egual numero di
domestici che indossano livrea, formicolante nelle anticamere,
ammonticchiati dietro le carrozze ed appollaiati sui sedili di esse.
Potrebbesene contare quasi sessantamila») ha un solo difetto.
Quale? Che non serve a un fico secco investire un fantastiliardo
e prendere i maghi della pubblicità e schierare i più grandi
fotografi del mondo se poi il buon nome di un territorio viene
sputtanato da epi,sodi come quello di San Pietroburgo.
Lo conoscete? E l'autunno del 2006 e l'Ersva, un carrozzone
regionale da 4 milioni di euro deputato allo sviluppo del
settore artigiano e commissariato da tre lustri, organizza una
strepitosa missione alla fiera di San Pietroburgo. Settecentomila
euro di spesa, decine di imprese artigiane coinvolte, stand
prenotati a caro prezzo. Obiettivo: conquis tare la nuova Russia.
Peccato che, ahi ahi, a nessuno sia venuto in mente di mettere
le mani avanti con i permessi necessari. Risultato, gli artigiani
con i dépliant in ta sca si ritrovano nella città degli zar
senza i loro prodotti: cammei e coralli di Torre del Greco, collezioni
di moda di Positano, ceramiche e tutto il resto sono rimasti
bloccati alla frontiera. «Maronna mia! Ce simme scurdate
'a dugana!» , Ma la grandeur partenopea ha un secondo difetto. E così
vistosa ed esuberante che calamita in maniera irresistibile l'attenzione
di chi cerca di capire come le Regioni italiane siano
state infettate dal virus della «gigantite». E con i suoi eccessi e
le sue battute folgoranti rischia di fare apparire virtuose Regioni
che così virtuose non sono affatto.
Se fosse napoletano, infatti, anche di Roberto Formigoni si
potrebbe dire che fa ,,'o gallo 'ncopp' a munnezza», cioè il gallo
sull'immondizia. Per carità, sotto il cielo manzoniano, così
bello quando è bello, i cassonetti non traboccano di pattume
come a Nola e l'inceneritore di Brescia è stato costruito senza
le rivolte popolari di Tufino. E la paghetta per le spese di rappresentanza
personali del Governadùr, per quanto sia aumentata
del 67% in cinque anni (altro che l'inflazione...) e sia quadrupla
rispetto al fondo del presidente Kòhler, è comunque
lontana coi suoi 345.000 euro da quella del collega campano.
Anche la più forte e motivata delle Regioni italiane, però, offre
panorami qua e là stupefacenti. Se non scandalosi.
Ma ve li immaginate i titoloni se in Irpinia ci fosse una tenuta
agricola di 382 ettari di proprietà della Regione affittata
per 2 euro e 75 centesimi al mese? Eppure in Lombardia c'è. A
Valvestino, in provincia di Brescia: affitto annuale 32 euro e 98
centesimi. Lo dice il bilancio ufficiale: meno di un cent a ettaro.
E non è l'unica sorp resa fornita dalla lista delle proprietà
regionali, dove vivai, terreni, fabbricati rurali , aziende agricole
sono inventariati per 145 milioni e mezzo di euro. Dall'affitto
di un fabbricato «mensa-foresteria» di 170 metri quadrati nel
vivaio di Curno, Bergamo, arrivano ogni mese 12 euro e 7 ceno
tesimi. Da quello di un terreno di 156 ettari a Morterone, provincia
di Lecco, 308. Da un ufficio di 120 metri quadrati a Voghera
176 euro. Da un edificio di 690 metri quadrati in condizioni
«ottime» e del valore di oltre un milione affittato a Canzo,
Como, al Centro educazione ambientale 473 euro. Per non dire
di fabbricati che, stando al 'bilancio, sono abbandonati a se stessi
come due colonie marine a Celle e a Pietra Ligure, che valgono
insieme 15 milioni di euro.
Bruscolini, in rapporto al tesoro edilizio regionale. Sotto la
guida di Bobo Formigoni la Lombardia ha messo insieme infatti
un immenso patrimonio immobiliare. Valutato nel bilancio
consuntivo del 2005 (al di sotto dei valori di mercato) in quasi
972 milioni di euro. Una somma enorme, sop rattutto in rapporto
a una manciata di anni fa: alla fine del 2000 il valore degli
immobili era di 298 milioni e mezzo: più basso di 674 milioni
di euro. E i fabbricati, saliti a fine 2005 a 124, erano inizialmente
88. Tema: era proprio indispensabile, con questi chiari di luna,
comprare 36 nuove proprietà immobiliari spendendo per
un solo palazzone, quello milanese di via Pola dove sono stati
spostati larga parte degli uffici , 182 milioni di euro cioè quasi
quanto l'Italia ha dato al Fondo globale per la lotta all'Aids, alla
tubercolosi e alla malaria per il triennio 2005·2007?
Immaginiamo la risposta: sì. Così come è stato considerato
assolutamente in-dis-pen -sa-bi-Ie ammazzare il boschetto che
stava tra via Melchiorre Gioia e via Rastelli per tirar su una
nuova sede. Un «complesso architettonico in ferro e vetro di
andamento sinusoidale, al cent ro del quale si innalzano due
torri intersecate di 32 piani, alte 160 metri e 20 centimet ri, 33
metri in più del Pirellone». Insomma, ha spiegato il governatore,
«un edificio all'avanguardia dal punto di vista tecnologico,
molto funzionale per le persone che ci lavorano; simbolico e
bello insieme». Costo? Eccolo: 78 milioni di euro per l'acquisto
del terreno più 112 e mezzo stanziati nel 2005 più il necessario
a finire.
Che lo spazio per il governo regionale sia sempre più angusto
è probabile. Nel 1986, tre lustri dopo il varo delle Regioni,
stando a un articolo del «Corriere», l'assemblea regionale
aveva 200 dipendenti: adesso ne ha 320 più un altro centinaio
«fluttuanti» che dipendono dai gruppi. Quanto alla presidenza,
lasciamo la parola a Bruno Tabacci, che della Lombardia fu
a capo tra il 1987 e il 1989 e oggi ridacchia: «Il passaggio dai
presidenti ai "governatori" eletti direttamente ha comportato
un mutamento genetico delle strutture. Che si sono via via appesantite
sul versante di attività di gestione diretta dedicando
meno attenzione alla regolazione e ai controlli». Risultato?
«Quando c'ero io il numero di quanti lavoravano alla presidenza
non raggiungeva il centinaio. Adesso siamo oltre i 1300, con
l'intero Pirellone in pratica monopolizzato quando ai miei tempi
bastavano due piani.»
Sia chiaro: questa progressiva elefantiasi non riguarda la
sola Regione Lombardia. Anzi, ci sono macchine regionali che
sono molto più pesanti. Stando ai dati della Ragioneria generale,
se Formigoni ha complessivamente 3729 dipendenti cioè
uno ogni 2518 abitanti circa, il suo collega campano Antonio
Bassolino ne ha 6685 cioè quasi uno ogni 866, quello calabrese
Agazio Loiero 4044 cioè quasi uno ogni 497. E qui non si tratta
di Regioni a statuto speciale quali il Trentina Alto Adige i cui
organici sono gonfi anche perché dipendono dalle due Province
pure i ferrovieri o i maestri che altrove sono a carico dello
Stato. Il gigantismo, in questi casi, è tutto figlio dell'idea che
Mamma Regione «deve» assumere più gente possibile. Fino al
delirio della Sicilia, dove secondo l'Aran (l'agenzia regionale
che stipula i contratti) la Regione aveva alla fine del 2006 «oltre
18.000 dipendenti diretti». Ai quali, spiega il difensore civico
Lino Buscemi che da anni fa le pulci alla Grande Chioccia sicula,
«andrebbero aggiunti di fatto gli oltre 50.000 forestali e decine
di migliaia di persone degli ex patronati e dei lavori socialmente
utili e così via, fino al punto che dai soldi regionali dipendono
forse 200.000 persone».
Tornando ai dati ufficiali: che senso c'è, ad assoluta parità
di competenze, che il Molise abbia un dipendente regionale
ogni 357 abitanti e cioè, proporzionalmente, sette volte più della
Lombardia pur dovendo gestire una realtà più povera ma ano
che meno complessa? E qui che vedi come queste cose non siano
affatto dettate da una realtà obbligata: tot pratiche da sbrio
gare, tot dipendenti. Non è così. E la politica (meglio: la sua
versione via via più ingorda) che fissa i suoi parametri ormai
senza alcun rapporto con la corretta amministrazione. Ognuno,
ovvio, riempie gli otri che meglio rispondono alle proprie esigenze.
La prima urgenza elettorale di Roberto Formigoni, in una
Regione come la Lombardia dove il tasso di disoccupazione è
basso, non è fare più assunzioni possibili ma piuttosto coltivare
il ceto medio, l'imprenditoria, il mondo dei servizi. È li che trova
i consensi e raccoglie le spinta relle, come la lettera oscena
mandata agli ex ricoverati dal professor Raffaele Pugliese, direttore
del dipartimento dei trapianti dell 'ospedale Niguarda
di Milano, due settimane prima delle Regionali del 2005: «Caro
paziente, mi permetto di scriverLe in virtù dell'incontro che
abbiamo avuto e del servizio che abbiamo potuto offrirLe in
occasione della Sua degenza nel mio reparto». Seguiva una Ienzuolata
di elogi alla Regione fino alla sviolinata finale: «Fatta
salva la libertà elettorale di ciascuno e sperando di non recarLe
disturbo o offesa, mi permetto di suggerirLe di sostenere la rielezione
dell'attuale presidente della giunta regionale Roberto
Formigoni».
Perché dovrebbe assumere gente, il nostro Casto Divo?
Meglio distribuire consulenze. Risultato: stando a uno studio
del ministero della Funzione pubblica sul 2003, la Lomb ardia
da sola distribuisce olrre un quarto (il 26,7%) di tutte le consulenze
italiane. Pari a 16 euro per abitante. Contro gli 8 della Liguria
o addirittura i 2 euro e mezzo della Campania, dove a
Bassolino conviene investire piuttosto nella dis tribuzione del
maggior numero possibile di posti di lavoro.
Girala come vuoi, il dato complessivo fa impressione. E dice
che nel 1973, quando le amministrazioni a statuto ordinario
erano nate da un paio di anni e avevano già avuto le prime competenze
e i primi, massicci, travasi da altri enti pubblici, le Province
e le Regioni insieme avevano 91.676 dipendenti. Oggi le
Province passano i 56.000 e le Regioni, da sole, stanno a 81536.
Pari a un «regionale» ogni 717 persone. Direte: man mano che
le competenze passavano in periferia saranno dimagriti i ministe
ri e le altre amministrazioni statali. Magari ! Il numero totale
dei pubblici dipendenti, stando ai dati introduttivi alla relazione
del Bilancio, era nel 1973 di 2.799.000 unità. E non c'erano
quasi i computer, non c'erano le e-mail per smaltire la montagna
di corrispondenza quotidiana, non c'erano le banche dati.
Oggi, dopo decenni di promesse «
arcare precari e sanatorie sono saliti a 3.350.000. Cioè oltre
mezzo milione in più.
Su «come» siano stati gonfiati gli organici regionali per
motivi squisitamente clientelari e dettati da esigenze partitiche,
potremmo raccontare decine di storie, spassose e irritanti. Tempo
perso. Almeno una però val la pen a di ricordarla. Perché
riassume tutto. Siamo nell'autunno del 2001. Governatore della
Calabria è l'azzurro Giuseppe Chiaravalloti. I giornali sono
inondati dai dispacci del portavoce più adorante di tutti i tempi,
Fausto Taverniti, che descrivono un'era di entusiasmanti
promesse berlusconiane e poggioli fioriti, di officine operose e
ospedali rinascenti, di macchinari luccicanti e autostrade californiane,
di plausi internazionali e orazioni poetiche per la
«Calabria dai mille volti: boschi, rocce, fiumare, albe sullo Jonio
e tramonti sul Tirreno» non a caso proclamata davanti a
«cinque milioni di telespettatori» la «regione preferita» dalle
ragazze del concorso di miss Italia. Per non dire del comunica-
to stampa più spettacolare mai visto , in cui si spiega che il governatore
amministra «con il benevolo sostegno divino» .
Insomma: un mondo meraviglioso. Nel quale tutti i partiti
pensano di avere diritto a un pizzico di felicità. O almeno a
qualche assunzione da distribuire agli amici. E così, chi inneggiando
alla rivoluzione azzurra e chi alla rossa, chi alla rinascita
finiana e chi a quella rutelliana, i consiglieri votano una leggina.
Con la quale si danno licenza di fondare gruppi parlamentari in
versione mono: un consigliere, fine. Voti contrari? Nessuno.
Venticinque presenti, 25 sì. Un anno dopo, di gruppi ce ne sono 19: quasi uno ogni
due consiglieri. E di questi 19, 12 sono composti da una sola
persona. Come lo stesso Chiaravalloti (Gruppo misto), Pasquale
Maria Tripodi (Centro popolare calabrese), Mario Pirillo
{Margherita}, Giuseppe Marrone {Unione democratici della
Calabria} o Nuccio Fava, candidato alla presidenza per l'Ulivo
e ora in Calabria democratica. Direte: ma che fanno? Risposta:
presiedono se stessi. Si auto-convocano, si auto-consultano, si
auto-contestano, si auto-compiacciono... Una vita solitaria. Ma
col piacere di sentirsi dire dall'usciere: «Presidente...»,
A proposito: gli uscieri? Un problema. La leggina assegna
infatti a ogni presidente di se medesimo {chi presiede perfino
un altro consigliere o addirittura tre o quattro ha diritto naturalmente
a molto di più} una serie di benefit. Primo: una decorosa
sede di almeno tre stanze in città, col risultato che siccome
l'immenso palazzo regionale «non basta», esistono 19 uffici
sparsi per il centro di Reggio Calabria che a spese delle pubbliche
casse sono stati affittati, arredati, dotati di telefono, computer...
Secondo: una quota annua per le spesucce di 5165 euro,
che si raddoppiano, si triplicano e si quadruplicano a seconda
del numero dei consiglieri. Con in più la comodi tà di presentare
a fine anno, spiega il «Bollettino ufficiale», una semplice
«nota riepilogativa» delle spese fatte senza il fastidio di dover
mostrare qualche ricevuta. Va bene, direte voi, ma gli uscieri e i collaboratori personali?
Ed ecco, un anno dopo, una seconda leggina. Che assegna a
ogni uomo-partito {anche qui i gruppi più grandi possono lar-
gheggiare) la possibilità di farsi uno staff tutto proprio a carico
della Regione. Ogni monogruppo ha diritto ad assumere 3 collaboratori.
Dei quali almeno uno deve (deve l) essere inquadrato
nel settore direttivo. Di più: dato che ogni monopartito deve
(deve l) avere un «segreta rio particolare» e un «responsabile
amministrativo» (presumibilmente addetto alla gestione fmanziaria
della famigliola politica), è ovvio che se questi sono laureati
vanno «funzionalmente equiparati ai dirigenti».
Potrebbe mai Mamma Regione, a questo punto, fare la spilorcia
sugli stipendi? No. Ed ecco l'integrazione della paga con
80 ore di straordinario e 8 missioni forfettizzate al mese, per un
totale di oltre 4000 euro. Create le nicchie, non resta che assumere
la gente giusta. Detto fatto, arriva la lista: 86 persone. Da
dividere in due parti. Di qua funzionari di partito, deputati
trombati o portaborse. Di là i parenti. Tra i primi, ecco sistemati
per esempio l'ex consigliere regionale diessino Nicola Gargano,
il segretario provinciale dilibertiano Enzo Infantino, la
componente del Comitato centrale rifondarolo Silvana Stumpo,
l'ex consigliere comunale missino di Palmi Ernesto Reggio,
il segretario provinciale della Quercia cosentina Carlo Guccione,
il collaboratore di Fava Emanuele Raco...
Tra i parenti c'è di tutto. Il figlio di un assessore comunale
reggino dell'Udeur. La sorella di un consigliere regionale della
lista Sgarbi. La cugina di un deputato regionale neodicì. La nipote
di un consigliere regionale buttiglioniano. La sorella di
un sottosegreta rio folliniano. Il fratello e il cognato del presidente
del consiglio forzista Luigi Fedele, che già aveva piazzato
le due segretarie Valentina e Antonia.. . Il figlio di un deputato
regionale della Margherita. La figlia di un ex consigliere
provinciale reggino di An. Insomma: tranne i verdi, ognuno
porta a casa i suoi.
«Non sono parenti, i nostri assunti! Non sono parenti !»
strilla Marco Minniti. Ma la bufera tra i diessini, il cui segreta rio
Nicola Adamo se la prende con gli «anatemi moralistici»,
infuria. Come infuria tra i rifondaroli di base, che ottengono la
testa del segretario regionale. E tra i precari laureati che si sono
visti scavalcare. Perfino i vescovi, scandalizzati, saltano su. Fir-
mando una lettera collettiva alle parrocchie che denuncia come
«la mafia stia prepotentemente rialzando la testa» e censura i
«cattivi esempi di assunzioni» fatte «in modo privatistico» con
il «terribile principio che l'appartenenza a certe forze» conti
«più della competenza».
Passano tre anni, lo scandalo si placa, Chiaravallo ti viene
spazzato via malgrado il «benevolo sostegno divino» e arriva
alla guida di una giunta di sinistra Agazio Loiero. Il quale, nonostante
una clamorosa intercettazione col ras della sanità Carmelo
D'Alessandro che si offriva di assumergli un po' di clientes
(risposta: «Queste cose le gestisce un pochino mia moglie») si
presenta così: «Siamo stati eletti per moralizzare la vita pubblica
in Calabria e su questa linea saremo inflessibili».
Sì, ciao. «Non posso appoggiarmi solo allo staff messo a
disposizione della Regione, mi servono persone di assoluta fiducia
» dicono uno a uno tutti i consiglieri. Ed ecco, nell'ottobre
del 2005, un'altra ondata di assunzioni. Quasi 200, stavolta.
E a chi vengono distribuite le buste paga da un minimo di 2080
a un massimo di 5856 euro al mese? Di nuovo a figli, cognati,
zii, cugini... O mogli, come quell'assessore rin fondarolo Egidio
Masella di cui abbiamo già scritto nel capitolo su parentopoli.
Pino Guerriero, il presidente socialista della Commissione
regionale antimafia assume come autista suo nipote. Ma come,
gli chiede Attilio Bolzoni della «Repubb lica» , non dovrebbe
proprio lui dare l'esempio? Risponde: «Quel disgraziato che
avevo p rima ha tentato di uccidermi tre volte in un mese sull'autostrada.
Maurizio sa guidare come un dio, è stato per sette
anni nei carabinieri e ha preso la patente con le Gazzelle dell'Arma
». Il capolavoro, però, lo tenta il capogruppo dell'Udc
Gianni Nucera. Che prima, a spese della Regione, assume come
collaboratrice la moglie Felicia. Poi il figlio Carmelo. Poi
l'altro figlio Francesco. Una porcheria così sfacciata che Bolzoni
fatica a crederci: «Sul serio?» . «Tutto vero» risponde l'uomo,
sospirando perché il trambusto sui giornali gli ha fatto saltare
il giochino: «Volevo organizzare la mia segrete ria in un certo
modo ma poi mi sono reso conto che non era possibile».
L'impunità: questo colpisce. L'idea che tutto possa restare impunito.
E non solo in Calabria, dove il putiferio per queste
ultime assunzioni ha spinto infine a varare una leggina che proibisce
le assunzioni di parenti fino al terzo grado, norma peraltro
già aggirata dalle assunzioni incrociate: tu assumi la moglie a
me, io assumo il nipote a te. Vale per il Mezzogiorno, dove c'è
voluta l' esplosione dello scandalo perché la Campania si decidesse
ad abolire un po' delle 18 commissioni inventate per dispensare
una presidenza, un'autoblu, un po' di soldi a quanti
più amici e oppositori possibili fino a dare vita a una commissione
sul Mare e una sul Mediterraneo. Vale per il Centro, dove
sia nel Consiglio regionale abruzzese sia in quello toscano (per
opera del già citato Jacopo Maria Ferri) e in altri ancora c'è stato
chi ha cercato di disinnescare la decisione del governo di diminuire
del 10% gli stipendi anche dei parlamentari regionali
con leggine ad hoc che escludevano dal taglio questa e quella
voce della busta paga. E vale per il Nord, dove la crisi seguita
all'H settembre pare avere colpito duramente i portafogli di tutti,
tranne quelli dei deputati delle assemblee veneta o lombarda.
Sapete quanto sono costati alla «virtuosa» Lombardia, per
le indennità di carica e di missione, i suoi 83 consiglieri e assessori
esterni nel 2005? Quasi 20 milioni di euro. Per l'esattezza
19.737.000. In un anno. Pari a 19.816 euro a testa al mese. Con
un aumento rispetto al 2000, tolta l'inflazione, del 52% reale. E
i «cugini» veneti non sono poi così distanti. Bilanci alla mano, i
60 consiglieri veneti sono costati alla Regione guidata da Giancarlo
Galan, nel 2006, tra indennità di carica e di missione e
prebende, 18.310 euro al mese a persona. Più di quanto costa
un deputato nazionale pur essendo l'indennità regionale fissata
all'80% di quella di un «onorevole». Com'è possibile? È possibile.
Con i rimborsi, con altre voci e soprattutto con la distribuzione
di un mucchio di cariche aggiuntive che lasciano solo a
due o tre persone il ruolo di soldatini semplici senza neppure
un grado sulla spallina. .
A farla corta: certe regioni del Sud sono state governate
con tale sciatte ria da gridar vendetta a Dio. Ma nessuno può
scagliare la prima pietra. L'elefantiasi ha colpito un po' tutte.
Basti dire che, con una popolazione italiana aumentata di po-
chissimo (poco più di 200.000 persone tra i censimenti del 1981
e del 2001) abbiamo visto dilatarsi le assemblee regionali in maniera
esagerata: da 50 a 70 consiglieri in P uglia, da 50 a 65 in
Toscana, da 60 a 71 nel Lazio, da 40 a 50 in Calabria... E ogni
consigliere in più significa più uffici, più stipendi, più dipendenti,
più autoblu, più commissioni in un rincorrersi di privilegi
ormai impervi da ricostruire in tutti i dettagli.
Per non dire dei costi dell '«indotto». Come i 7 milioni e
mezzo di euro usati nel 2004 dalla Lombardia (che ha una sua
agenzia di stampa: quasi 2 milioni di euro l'anno) per pagare il
«personale delle segreterie dei componenti della giunta», con
un aumento del 38% sul 2000. O i 2.3 04.000 euro spesi lo stesso
anno per far marciare gli «uffici di diretta collaborazione del
presidente della giunta» della Campania: dieci volte di più di
quanto impegnato per l'«acquisizione al patrimonio regionale
di beni artistici storici di rilevante interesse».
O più ancora, sempre nell '«indotto», i soldi distribuiti a
pioggia alle piccole clientele. Un esempio per tutti? Quello del
Lazio. Dove il 23 dicembre del 2006, approfittando della distrazione
degli elettori impegnati ad affollar botteghe natalizie,
l'assemblea varò una Finanziaria del 2007 che conteneva, nonostante
gli appelli al risparmio di questi anni di magra, ben 25
milioni di euro (350.000 a consigliere) per «iniziative sportive,
culturali e sociali di carattere locale». Traduzione: regali ai collegi
elettorali di questo o quel parlamentare. Della maggioranza
ma anche dell'opposizione.
L'idea della giunta di Piero Marrazzo, scrisse Alessandro
Fulloni sulla cronaca romana del «Co rrie re» , era d i tagliare
questa marea di contributi perché «incompatibili» con i sacrifici
«ma i consiglieri sono insorti». Al che il governo regionale
abbozzò (con la sola opposizione dei Comunisti italiani, gli unici
a denunciare «prassi clientelari») ottenendo solo un taglio rispetto
all'anno precedente.
Tra i 712 finanziamenti (spesso microscopici) c'era di tutto:
dai 150.000 euro all'associazione romana «Atte in soffi tta» per
un «villaggio artistico itinerante» ai 15.000 per «i pongisti del
tennistavolo Arpino», dai 10.000 agli aspiranti Kasparov della
«Lazio scacchi» perché diffondessero la scacchiera nel IV municipio
agli altri 10.000 ai promoto ri del progetto «benefici e
potenzialità del Tae-kwon-do» . Per non dire dei soldi elargiti
alle sagre del fungo porcino o agli amanti del camper di Guidonia
che dovevano dar vita alla «IV festa del plein air», al Football
Club Borgo Carso o allo spettacolo di danza «Mai e poi
mai» . Doni fatti spesso soltanto perché destinati a tornare al
donatore sotto forma di voto. Buon Natale, cari elettori!
Nulla, però, spalanca scenari spettacolari sul crescente gigantismo
regionale quanto la «mania» dei rapporti diretti con
l'estero. Che vede rivaleggiare sia le regioni ordinarie sia quelle
a statuto speciale. Come la Trinacria. Dall'Empire State di New
York alle piramidi di Giza, dalla pampa argentina alla pagoda
Huata: sulla «Casa Sicilia» non tramonta mai il sole. La sera,
prima di andare a letto, Totò Cuffaro può sorridere contento:
da qualche parte nel mondo c'è un pezzetto dell'amata isola ir-
radiata dalla luce che Egli le ha donato. E stato lui, infatti, a volere
che il globo intero venisse punteggiato da «amb asci ate»
della sua Regione.
E ha voluto una Casa Sicilia a Parigi in boulevard Haussmano,
perché la Ville Lumière fosse «la prima vetrina europea
della nostra terra» e potesse ospita re, per esempio, l'aratro e il
bue e lo zampognaro, insomma tutto il presepe di Caltagirone
a partire dalla Bedda Madri del Bambin Gesù. Poi ne ha voluta
una in una zona «in» di Amburgo per promuovere l'isola nella
Germania settentrionale e aprir la strada a una Casa Sicilia a
Berlino. E poi una a Matanza, dalle parti di Buenos Aires per
fare sentire meno soli i siculo-argentini. E poi una in Cina nella
regione di Canton «perché i nostri imprenditori abbiano un
punto di riferimento» nello sterminato e febbricitante impero
di mezzo. E poi una a Tunisi, in un antico convento francescano,
per testimoniare «la convivenza tra due popoli con oltre
due millenni di storia comune». E poi una, in attesa delle promesse
aperture di altre «ambasciate» regionali in Brasile e in
Australia (Paesi benedetti in visite ufficiali dal sindaco di Palermo
Diego Cammarata e dall'assessore Raffaele Stancanelli) perfino
al Cairo, col plauso del govern atore del Qalyubya, Adly Hussein,
venuto apposta a Palazzo dei Normanni per firmare il
protocollo d'intesa.
Una specie di rete diplomatica parallela a quella della Farnesina
su cui svetta, dal 36° piano del grattacielo simbolo della
Grande Mela fin dai tempi delle arrampicate di King Kong, la
Casa Sicilia newyorchese dell'Empire. Voluta fortissimamente
dal governatore siciliano per «diffondere la vera immagine della
Sicilia, lontana dai negativi cliché ormai diffusi ovunque» e far
conoscere la regione per «il calore e il sapore dei suoi prodotti».
Direte: chi paga? «Noi!» vi risponderanno il presidente siciliano
e i suoi fedeli, dipingendo panorami di sinergie e project
financing e coinvolgimenti di privati che, appena il motore ronzerà
a pieni giri, dimostrerà ineluttabilmente la bontà dell'investimento.
E così vi risponderanno un po' tutti i suoi colleghi delle
altre Regioni italiane, che si sono tirati addosso in questi anni
un mucchio di polemiche (oltre a una proposta di legge presentata
da Salvi, Vallone e Spini: abolirle tutte) per questa fissazione
di aprire ciascuno una «propria» ambasciata, un «proprio»
consolato, un «proprio» sportello in giro per il pianeta. Come se
ciascuno avvertisse nella rappresentanza diplomatica e consolare
e commerciale nazionale una sorta di inadeguatezza a difendere
sul serio gli interessi di questa o quella Regione.
E così a Bruxelles, con l'eccezione di una specie di consorzio
messo su dalle Regioni del Centro Italia, hanno voluto una
«loro» sede la Lombardia e il Veneto 850.000 euro di spese
nel 2006: 40% in più rispetto al 2002), il Piemonte e la Val
d'Aosta, la Calabria e l'Abruzzo e la P rovincia di Trento e la
Provincia di Bolzano e insomma tutte, per un totale di 21 «ambasciate
» regionali. Un investimento utilissimo per rastrellare
fondi europei, dicono. E per il quale val la pena di fa re qualche
spesuccia . Come l'acquisto deciso dal governato re forzista del
Molise 0 16.000 abitanti), Michele Iorio, di un palazzo di 500
metri quadrati pagato 1.600.000 euro: «Senza aumentare di un
centesimo rispetto al costo che oggi la Regione elargisce con
l'affitto di due stanze in un ufficio regionale». Una scelta analoga
a quella del governatore di sinistra della Puglia Nichi Vendola.
li quale, dopo aver lanciato il progetto “AAA Cerco casa a
Bruxelles” per uscire dalle anguste mura di un appartamento
per il quale veniva pagato un affitto di 60.000 euro l'anno, ha
investito su un immobile di 1000 metri quadrati in avenue de
Tervuren 2.700.000 euro. L'equivalente di 45 anni di canone
della vecchia sede. Spiegazione: «Consentirà un abbattimento
dei costi di affitto della sede presso l'Ue rendendo disponibile
a imprese, università e istituzioni pugliesi un utile spazio di rappresentanza
e riunione». Quanto costano, questi uffici? Vai a saperlo ... I bilanci regionali
non solo sono uno diverso dall' altro, ma hanno spesso
voci diverse da un anno all'altro. Al punto che quelli siciliani,
per esempio, prevedevano nel 2002 «spese per la costituzione e
il funzionamento dell'ufficio di Bruxelles» per un totale di
896.000 euro e nel 2006 solo 50.000 per il «funzionamen to».
Con un dettaglio: in un'altra voce il personale che tiene aperto
quell'ufficio risulta pesare quest'anno, in stipendi e indennità,
per 1.600.000 euro. Da sommare ad altre voci di non cristallina
chiarezza come quella che dice: «Ufficio per le relazioni diplomatiche
e internazionali: 350.000» .
Chi paga? Q uesto resta il mistero p rincipale. Anche per
Regioni come la Lombardia. Che dopo anni di circumnavigazioni
di Roberto Formigoni ha oggi 25 consolati propri «
Giappone. Soldi che tornano, dicono i governatori.
Sarà. Ma forse non sempre, se è vero che una delle polemiche
più roventi sull'uso dei soldi pubblici fu sollevata addirittura
da Sandra Mastella, presidente del Consiglio regionale campano.
La quale, sbarcata nell 'autunno del 2005 a New York,
chiese a cosa servisse il costosissimo ufficio regionale (1.140.000
euro l'anno di affitto) sopra il negozio del sarto partenopeo Ciro
Paone (celebre come Kiton) se «il responsabile viene solo alcuni
giorni ogni mese» e da struttura funziona a stento con tre addetti
contrattualizzati» pagati per organizzare eventi domestici
dove non c'era tra il pubblico non solo «alcun esponente americano
» ma addirittura «alcuno che parlasse inglese» .
Sprechi? Difficile definirli altrimenti. Ma non fatevi sentire:
qualcuno potrebbe farci su una commissione ad hoc. Come
quella voluta da alcuni leghisti veneti sugli sperperi regionali in
ambito sanita rio. Dopo 3 anni dall'insediamento, la Corte dei
Conti ha chiesto come avessero fatto i cinque commissari a
spendere 340.000 euro per produrre in 36 mesi la miseria di tre
documenti. E aveva concluso: che spreco, la commissione antisprechi...
Mai quanto, però, il call -center del Pan (Protezione ambiente
e natura) di Napoli. Se vi suonerà un nome ignoto, niente
paura: è ignoto anche ai napoletani. Doveva essere il punto
di riferimento dei cittadini nel grande disegno di ammodernamento
della raccolta differenziata dei rifiuti. Un progetto che,
partito col nazional-alleato Antonio Rastrelli e proseguito con
Antonio Bassolino, entrambi commissa ri straordinari alla
«monnezza» in quanto p residenti regionali, ha visto crescere
due montagne parallele. Una montagna di immondizia arrivata
nella primavera del 2007 a quasi cinque milioni di maleodoranti
«ecoballe» che per essere bruciate, dice l'ex presidente della
commissione parlamentare d'inchiesta Paolo Russo, occuperebbero
un inceneritore per 45 anni consecutivi. E una montagna
di assunzioni: 23 16 precari presto inquadrati definitivamente
a 2000 euro al mese per 14 mensilità senza che due terzi,
accusa il commissario all'emergenza, avessero mai «assegnata
una mansione». Cosa fanno? Boh?
Perfino quelli che una mansione l'avrebbero, come gli operatori
del call-center, hanno ore e ore per fIlosofeggiare. Lo dice
un documento della Camera del 2006: «L'emergenza, pure
invocata, sembra essere riferibile più alla necessità di assumere
e stabilizzare una folta schiera di Lavoratori socialmente utili
che all'urgenza di avviare il call-center ambientale» .
Sempre lì stiamo: agli organici gonfiati per interessi politici.
Sapete in quanti lavorano, a quel cent ralino? In 34. Otto volte
i centralinisti di Buckingham Palace. P er ricevere, secondo
l'esplicita ammissione dei vertici della società «quattro o cinque
chiamate al giorno». Una telefonata a testa alla settimana.
16
Ultimo lusso, atterrare sotto casa
Dalla Sicilia alla val d'Aosta, le spese pazze delle Regioni autonome
«Pani vecchiu, ciciri, cipudde e meusa»: ecco cosa vide nel suo
futuro da incubo, il 27 gennaio del 2006, il presidente del partito
Patto per la Sicilia Nicolò Nicolosi. Già si immaginava ridotto,
meschino, a mangiare pane vecchio, ceci, cipolle e budella di ,
scarto. Levò un urlo: «E un'assemblea selvaggia che non ragiena!
». Come avrebbe fatto a campare, senza lo stipendio dell'Agenzia
regionale per le politiche mediterranee appena abolita
con una incredibile congiura di deputati della destra e della sinistra
accampando la scusa che era un ente del tutto inutile?
«Pani schittu, vita d'afflittu» sospirò sull'antico adagio: pane
senza companatico, vita disperata. Poi, asciugatosi la lacrima,
pensò che il contratto di circa 200.000 euro era di tipo privato
quindi non era facile per la Regione smettere di dargli i
soldi. Pensò che gli restava la baby pensione di dirigente dell'Ars
che incassa dal lontano 1986, quando era ancora vivo
Fred Astaire. Pensò che gli restava la pensione di deputato regionale
per 3 legislature arricchite da un mucchio di cariche tra
cui quella di vicepresidente, Pensò che gli restava lo stipendio
di 3610 euro mensili più benefit vari quale sindaco di Corleone.
Pensò infine che gli restava il vitalizio di ex deputato alla Camera
in arrivo nel giro di poche settimane. E, finalmente, si rilassò:
quattro buste paga extralusso potevano consentirgli di riposare
sereno.
La quinta, poi, non era affatto perduta. Contro l' abolizione
dell'Agenzia, fondata con «la mission di promuovere e coordinare
azioni per lo sviluppo e l'integrazione tra popoli» del
Mare Nostrum (sarebbe meglio dire, scusate la battuta maccheronica,
«Mare Lorum») si è rivoltato non solo il governatore Totò Cuffaro,
ma perfino Gianfranco Fini, che dopo aver attaccato
per anni il clientelismo e gli sp rechi e «il sistema dei
partiti di potere profondamente marcio», aveva un problema: e
adesso dove lo sistemava il suo fedele Fabio Granata, già assessore
regionale siculo di An piazzato come direttore generale
nell'organismo disciolto? Un problema non solo suo: l'Agenzia era nata apposta per
sistemare politici che per un motivo o per l'altro non avevano
più uno stipendio all'altezza del loro tenore di vita. Sistemazione
bipartisan. Nel consiglio di amministrazione, sotto l'illuminata
guida di Nicolosi che per pura coincidenza aveva fatto
confluire il suo partito nell'Udc, c'erano i cuffariani Salvino
Barbagallo e Stefano Salvato, i nazional-alleati Alessandro Dagnino
e Ignazio Caramanna voluti dall'ex presidente del Consiglio
Guido Lo Porto prima di cedere il posto a Gianfranco
Micciché (cui vengono imputati l'agguato e lo scioglimento dell'Agenzia,
per il dispetto d'esser stato tagliato fuori) e i sinistrorsi
Gianfranco Zanna e Giuseppe Messina, della direzione
regionale diessina. L'asse con la sinistra non deve meravigliare affatto. Su certe
cose c'è sempre stato. Al punto che il giornalista e storico siciliano
Alfio Caruso, autore del pamphlet Perché non possiamo
non dirci mafiosi, è arrivato a scrivere che esiste un Pus. Il «Partito
unico siciliano, capace al momento opportuno di amalgamare
gli interessi più disparati. Il Pus vince sempre: vince con
la faccia di Lima, vince con la faccia di Orlando Cascio, vince
con la faccia di Micciché, vince con la faccia di Mattarella, vince
con la faccia di La Loggia. Facce importanti, facce che contana
: dietro ognuna di esse si dipanano decenni di tradizione,
di esperienze, di consolidati rapporti parentali». Ma soprattutto
rapporti di convenienza. Un tema non solo siciliano. Se in Sicilia c'è il Pus, nel resto
della Penisola c'è il Partito unico italiano. Che opera compatto
almeno sulle società miste usate per sistemare i trombati. Il Veneto
destrorso, per dire, ha quote proprie (alcune di controllo)
in 22 società, con un patrimonio da distribuire di 238 posti da
consigliere di amministrazione. La Campania sinistrorsa è pre-
sente in 37, con 6000 dipendenti e 255 cariche nei consigli di
amministrazione per accontentare amici e avversari.
Certo, i conti sono diversi perché le venete non sono arrivate
a perdere quasi 22 milioni di euro l'anno come le cugine
campane. Lo smistamento delle poltrone però è più o meno lo
stesso. Ed ecco alla presidenza di Veneto Strade SpA Marino
Zorzato, già deputato forzista. Alla testa di Venezia TerminaI
Passeggeri SpA Sandro Trevisanato, già sottosegretario alle Finanze
berlusconiano. Alla guida di Obiettivo Nord Est Tiziano
Zigiotto, ex consigliere regionale azzurro . A quella di Informest
Pierluigi Bolla, ex assessore regionale trombato come candidato
a sindaco di Verona.
E così va a Napoli, solo che lUtto è rovesciato e da anni i
posti migliori vanno ai trombati di sinistra. E lo «spoils system»,
bellezza. Un criterio al quale non si è sott ratto neppure il governatore
autonomo del Friuli -Venezia Giulia Riccardo Illy. Al
quale va però riconosciuto un merito : data l 'impossibilità di
sfuggire all'andazzo anche per le resistenze degli alleati, si è autodenunciato.
Facendo comporre e distribuire, tra le ire di amici
e nemici, un «libro bianco» come mai si era visto, nella lottizzatissima
storia d'Italia. Con tutte le cariche assegnate: nome,
cognome, compenso, partito. Della maggioranza (larghissima
parte) e dell'opposizione. Un elenco interminabile nel quale
mancava una nomina curiosa che sarebbe arrivata solo successivamente.
Quella alla presidenza di Autovie Venete, la concessionaria
delle autostrade Venezia-Trieste e Palmanova-Udine,
di Giorgio Santuz, ex ministro dei Trasporti, ex sottosegretario
agli Esteri e ai Lavori pubblici, ex deputato democristiano per
due decenni. Scelta bizzarra: dieci anni prima, l'uomo aveva
patteggiato una condanna proprio per le mazzette pagate alla
Dc da una società. Q uale? Autovie Venete.
Ma torniamo in Sicilia. Perché lì è stata più forte, sugli interessi
corporativi, la saldatura tra destra e sinistra. Un esempio?
La storia dell'«on.» Calogero Gueli, che in onore di Lenin
chiamò un figlio Vladimiro e in omaggio a Castro chiamò l'altro
Fidel ma per nulla al mondo rinuncerebbe a quella sigla
«on.» che pomposamente sventola da sempre davanti al nome
anche se non è mai stato parlamentare a Roma e non è più da
lustri man co deputato regionale. «Bucata» una legislatura all'Ars,
dove era stato eletto dal 1976 al 1981 e dal 1986 al 1991,
accettò benvolentieri, per esempio, che amici e avversari di partito
(anche quelli contro i quali si scagliava nelle vesti di fustigato
re di costumi) costruissero su misura una leggina tutta per
lui. La cosiddetta «Legge Gueli» . O «legge tre per due». Che
chiedendogli di versare un po' di contributi (poco più di 9000
euro l'anno, in valuta attuale) gli riconobbe la possibilità di tappare
il buco tra le due legislature così che oggi, invece che ricevere
un vitalizio intorno ai 57.000 euro l'anno, ne riceve uno di
80.000 come se di legislature ne avesse fatte tre consecutive.
Ma come: e la moralizzazione? Guai a dirglielo: «Che volete da
me? Con tutti i soldi che si è fottuta la Dc! Perché state dietro a
queste minchiate, ah?»,
Non contento di avere creato questo precedente, che dopo
aver tappato il buco previdenziale suo tappa da allora la bocca a
tutta la sinistra perbene che contesta il malcostume amministrativo
«
«sorpresa». L'Ars aveva infatti deciso di comprare un bel
po' di copie di uno dei suoi libri: Il bastone e lo scialle. Una raccolta
di poesie di cui vale la pena di ricordare almeno un passo:
Io che affondo il mio essere nella magia, nell'incantesimo, in
un mondo premoderno sono portato a vivere dentro anelli magici,
in una realtà che non ha la pesantezza della materialità e
della provvisorietà». Versi in linea con una carriera letteraria salutata
da Antonino Cremona, nella prefazione a un altro libro,
Ballata per un uomo, con parole di elogio per uno stile che «si fa
di volta in volta antico e contemporaneo, arcaico e tecnologico,
letterato e folk.lorico, sempre addensato in una versificazione
che ha forza di poema e precisione lirica a volte sorprendente: la
tensione apologetica sfuma nell'aderenza lirica» .
Ah, la pensione! Anche sull'altra grande isola italian a, la
Sardegna, l'autonomia ha ispirato delle gran pensate sul versante
previdenziale. Nel bel mezzo della stagione berlusconiana,
per dire, il presidente del Consiglio regionale Efisio Serrenti, un politico di lunghissimo corso passato attraverso mille alleanze, si pose la domanda: perché i politici devono essere di versi
dagli altri lavoratori? Detto fatto , si diede da fare per introdurre
finalmente l'«invalidità di servizio». Se un tassista si
rovina i polmoni a guidare in mezzo allo smog, se un muratore
si ammala di ern ia a sollevare pesi, se a un sistemista si indebolisce
la vista a passare gli anni al computer, perché non riconoscere
lo stress di chi fa politica? Un quesito, ammettetelo, sacrosanto. Lesiona o no il fegato
essere trombati alle elezioni? Fa venire o no le vene varicose
passare la vita in piedi a tagliare nastri ? Rovina o no l'apparato
gastrico perdere l'assalto a una municipalizzata? Fu dunque deciso:
anche i consiglieri regionali dovevano essere uguali ai cittadini
comuni. Un po' meno comuni, però. Dice infatti la legge
che un invalido civile che vive senza complicazioni con un cuore
trapiantato ha diritto a un assegno di invalidità di 223 euro
al mese, ma solo se guadagna meno di 3600 euro l'anno. Oppure,
se è rimasto invalido per ragioni di servizio, tipo il tassista o
il muratore di cui dicevamo, ha diritto a un assegno (da rinnovare
ogni tre anni, nel caso guarisse) non cumulabile a un altro
reddito se questo è superiore ai 15.682 euro lordi l'anno. Figuratevi:
un consigliere regionale sa rebbe rimasto automaticamente
a secco. Che fare? Occorreva una regoletta speciale. E la fecero. Riconoscendo
a tre «invalidi da politica» di destra e di sinistra, che
già si erano premurati di farsi fare la visita medica al vicino ospedale
militare, il pieno diritto ad avere una pensione aggiuntiva.
Di quanto ? Vai a saperlo... Pare che a Serrenti, che per pura
coincidenza aveva appena salvato la giunta di destra di Mauro
Pili col suo voto determinante, avessero deciso di dare un «equo
indennizzo» di 350.000 euro più un assegno di invalidità mensile
di 7500 euro da sommarsi allo stipendio di deputato sardo
per un totale di 15 .000 euro al mese. Pare, però. Nonostante
l'authority della Privacy neghi ogni riservatezza alle questioni in
cui sono spesi soldi pubblici, l'ufficio di presidenza sardo, dopo
avere opposto mille ostacoli alle domande dei cronisti che chiedevano
la delibera (chi scrive fece inutilmente 21 telefonate) dif-
fuse una paginetta spiegando che tutti i dati dovevano «essere
considerati riservati e quindi non divulgabili».
Ne venne fuori un vespaio. Ma come: l'«invalido» Serrenti
non era quello che diceva nelle interviste di lavorare «incessantemente
»? Che dal trapianto di cuore era uscito così in forma da
fare successivamente il deputato regionale e l'assessore allo
sport e il capogruppo e il segretario di partito e le campagne
elettorali e un'infinità di altre cose faticosissime delle quali non
si era mai lamentato? Non era lui che sul sito stesso della Regione
faceva il bullo dicendo che il lavoro non l'aveva «mai spaventato
» e che andava in ufficio verso le nove e mezzo di mattina
per trattenersi «sino alle nove e mezzo, dieci di sera» e «spesso
anche il sabato»? Un «cuore toro», ironizzò sulla «Nuova Sardegna
» Giorgio Melis. E la cosa, tra le polemiche, saltò .
Fosse passata, avrebbe aggiunto un buchetto a un colabrodo.
Nel tormentato lustro 1999-2004, ha spiegato il governatore
Renato Soru a Sergio Luciano di «Economy» , l'indebitamento
era salito da 300 a 3000 milioni di euro, con un milione di euro
al giorno di interessi da pagare: «E si stava accumulando ulteriore
debito a velocità spaventosa. Erano già stati autorizzati
nuovi mutui per 1,3 miliardi. Saremmo saliti a 4,3. E perché,
poi? Incomprensibile, solo rivoli di spesa consociativa».
Taglia di qua e taglia di là, ha scritto la rivista, il govern atore
sardo «in meno di 30 mesi ha dimezzato le spese del bilancio
regionale, da 1,3 miliardi di euro a 670 milioni, portandolo in
pareggio. Ha mandato a casa 1000 persone, ha eliminato 60 società
idriche, 7 agricole...». Più larga parte delle comunità montane.
Prova provata che, se si vuole tagliare sul serio , si può.
Tanto che la rivista, che appartiene al gruppo Berlusconi e certo
non può essere sospettata di simpatie sinistrorse, ha riequilibrato
il titolone in copertina (L’isola dei virtuosi) sfidando Romano
Prodi ad adottare «la via sarda al buongoverno» e cioè a
impostare «un programma di tagli alla spesa pubblica in grado
di abbattere il debito italiano da 1581 a 759 miliardi di euro da
qui a novembre del 2008». Come a dire: Professore, ce l'hai il
fegato per farlo? Alla larga dalle beatificazioni. Ma alcune sforbiciate decise dal
«Monaco» (così qualcuno irri de a Soru per certe scelte come
l'abolizione dello champagne dal bar interno alla sede regionale
o il taglio dei giornali nelle mazzette) la dicono lunga su
come venissero buttati via i soldi. Esempi? Giunte regionali
convocate non nella sede deputata ma all'Hotel Forte Village
(slogan: «Tuffa tevi nel lusso a 5 stelle del miglior resort del
mondo») con conti finali arrivati in un caso a 50.000 euro. Un
appalto per il sistema informatico della contabilità interna concesso
a 40 milioni di euro, annullato e rifatto per 8 e mezzo. Un
altro appalto da 8 milioni per il portale internet del turismo,
contestato, ricontrattato e concluso per una cifra venti volte più
bassa: 400.000 euro. Quanto alle spese di rappresentanza, basta
prendere a confronto l'ultimo b ilancio di Mauro Pili del
2003 e quello di Soru del 2006: da 390 a 190.000 euro. Meno
della metà. Certo, non è che il virus della spendaccionite abbia lasciata
immune la giunta del fondatore di Tiscali. Un cocktail troppo
costoso, però, è entrato nella leggenda. L'assessore alla Cultura
Elisabetta Pilia aveva offerto agli ospiti dell'apertura di una mostra
di arte moderna un rinfresco da 4000 euro. Caruccio, ma
non più di decine di tavolate simili offerte dalla Val d'Aosta alla
Puglia. Narrano però che alla notizia del conto, che si sommava
a un budget che gli pareva esagerato per il livello degli artisti
coinvolti, il governatore sia saltato su come Rinaldo nelMorgante
del Pulci dopo avere sguainato la Frusberta: «Punte rovesci,
tondi e stramazzoni mandiritti , traverse con fendenti, certi
stramazzi, certi sergozzoni...». Conclusione: l'assessore pagò di
tasca sua e se ne andò sbattendo la porta. Diciamocelo: da alt re parti non si sarebbero neppure accorti di un conto così. Le diffidenze diffuse intorno alle mani
bucate delle Regioni a statuto speciale sono infatti in larga parte
meritate. A partire dai grandi numeri. Sui motivi storici che dettarono
la concessione dell'autonomia (esempio: ha ancora ragione
d'essere lo statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia che
non solo non è più schiacciato sul confine comunista ma si ritrova
nel cuore dell'Europa - li lasciamo perdere. Ma cosa c'entra
con l'autonomia l'abbondanza esage rata di deputati regionali
friulani e giuliani (uno ogni 20.000 persone) o addirittura il diluvio
della Val d'Aosta, dove c'è un consigliere ogni 3511 abitanti
e cioè trentatré volte più che in Lombardia? Cosa c'entra
con l'autonomia la busta paga dei fortunati rappresentanti del
popolo che incassano in Sicilia o in Val d'Aosta (vedi tabella in
Appendice) immensamente di più di un collega emiliano o molisano?
Cosa c'entra con l'autonomia la sperequazione abissale
tra il monte indennità della Sardegna (10 milioni abbondanti di
euro) e quello delle Marche (meno di 2 milioni e mezzo) pur
avendo più o meno gli stessi abitanti? Qui le competenze supplementari dovute a l pagamento dei maestri di scuola piuttosto che dei ferrovieri non c'entrano nulla.
E allora perché stipendi, prebende e pensioni dei consiglieri
regionali, come mostra ancora la tabella in Appendice, pesano
per 1 euro e 6 centesimi ad abitante in Lombardia e 30 euro e
24 centesimi in Val d'Aosta? Per non dire dei dirigenti, il cui
costo è un costo squisitamente politico dovuto alle scelte della
politica. Dicono i censimenti che gli italiani che vivono entro i
confini delle Regioni e delle Province a statuto speciale sono
meno di 9 milioni. Diciamo un settimo della popolazione. Eppute
i dirigenti delle regioni ordinarie, come spiega la tabella in
Appendice, non arrivano neppure alla metà del totale. Anzi: la
Sicilia coi suoi 5 milioni di abitanti ha da sola oltre un terzo di
tutti i funzionari nazionali. Al punto che c'è un dirigente (pagato
immensamente più che dalle altri parti) ogn i 7 dipendenti.
Cosa c'entra, con l'autonomia? Ma è una domanda che si può fare per altre mille cose.
Esempio: perché la Regione governata da Cuffaro ha regalato
105.492 euro di soldi pubblici a testa, per il campionato di calcio
2005 -2006, al Palermo, e somme analoghe al Catania e al
Messina? Come mai le spese «di rappresentanza, cerimoniale e
relazioni pubbliche per la partecipazione e l'organizzazione degli
incontri di studio, lavori, convegni, congressi, mostre e altre
manifestazioni a carattere solidaristico» della presidenza sono
salite nel 2006 alla cifra pazzesca di 5.504.500 euro e cioè oltre
4 milioni in più rispetto ai 1.360.863 euro del 2001, quando già
bastavano a portare tutti i giorni a mangiar pesce al Delfino di
Sferracavallo 153 persone, vino e Iimoncello compresi? Quale
motivo c'è perché, come si ricava dalla voce «oneri per il personale
utilizzato per le auto blindate e gli autisti assegnati agli ex
presidenti della Regione» (271.000 euro ) i predecessori di Cuffaro
abbiano diritto per tutta la vita alla macchina con autista
come i maharajah del Rajasthan? Sono così tante, le spese «eccentriche» siciliane, che non
c'è modo di fare una lista. La voce «acquisto di libri, riviste e
giornali anche su supporto informatico», per esempio, è ripetuta
7 volte in 7 caselle distanziate del bilancio per non dare nell'occhio
ma a far la somma vengono 128.000 euro: come se negli
uffici della presidenza ci fossero 50 persone (cinquanta l) col
diritto ad avere, tolte le ferie e le feste, una mazzetta di 14 quotidiani
al giorno. Più le spese per acquisto libri e rilegatura della
«Gazzetta ufficiale»: altri 60.000 euro. Più l'abbonamento
ad «agenzie di informazione giornalistiche italiane ed estere»:
altri 680.000. Per non dire delle «spese riservate» di cui il governatore
può servirsi a sua discrezione per motivi eccezionali. Lo scandalo che ha visto l'ex presidente regionale Beppe Drago condannato per avere svuotato la cassaforte «allorché era già di missionario » (così disse la sentenza) non è servito a niente. Era
il '98 e la somma fregata dall'assai disinvolto esponente dell'Udc,
poi premiato con l 'elezione a Montecitorio, fu di 146.000 euro di oggi. Adesso Totò «Vasa Vasa», cioè bacia-bacia per l'«inesauribile bisogno d'affetto» (parole sue) può spenderne
riservatamente più del doppio: 310.000. Il quadruplo (quadruplo l) della analoga dotazione di Giorgio Napolitano al Quirinale. E il parco zoologico del Palazzo d'Orleans sede della presidenza? Tutte le mattine va a dare da mangiare agli animali una
signora, Maria Narzisi, presidente dell'E.di.ga., l'Ente difesa
gatti. Applausi. Ma c'è chi, per tenere in ordine il giardino affidato
per oltre 250.000 euro l'anno addirittura a un «sovrintendente
di palazzo» (minchia !) nella persona di Sua Eccellenza Francesco
Di Chiara, è pro fumatamente pagato. E la ditta «Lauricella Salvatore» addetta alla «gestione dell'impianto faunistico del parco d'Orleans» fin dagli anni Cinquanta, quando
fu incaricata dal primo presidente della Regione, Giuseppe Alessi, di realizzare nei giardini un parco ornitologico aperto al pubblico gratuitamente a condizione che i visitatori fossero accompagnati da un bambino.Da allora la collezione privata (privata !) del vecchio Lauricella
e di suo figlio Nicola è diventata inamovibile. Inespugnabile al subentro di una ditta che anni fa vinse la nuova gara d'appalto ma non riuscì mai a far valere la vittoria perché bloccata
da un ricorso al Tar. Indifferente alle accuse della Lega antivivisezione.
Inossidabile alle polemiche sulla scelta della Regione
di continuare a versare soldi nonostante la svolta nell'appalto
per «garant ire la continuità della fruizione pubblica della
villa». Soldi cresciuti e cresciuti fino a sfonda re i 470.000 euro.
E accanitamente difesi dai vecchi padroni del piccolo feudo
faunistico contro il vincitore di un secondo appalto. Cui non
solo fu chiesto di dimostrare di avere degli esemplari di tutti
ma p roprio tutti gli animali presenti (dai capovaccai alle rnorette
dal ciuffo, dall'oca collorosso ai daini «dama darna») ma fu
opposto il parere di due p rofessoroni pronti a dichiarare che in
caso di trasloco le povere bestie, oibò, avrebbero sofferto psicologicamente
assai. Ci si dirà: cosa c'entrano queste cose coi costi della politica?
C'entrano. Un esempio? Nel 1994, alla vigilia del voto, i
sindacati della Regione avevano chiesto 14.000 lire di aumento
e la risposta fu: “Ma no, ve ne diamo 100.000!”. Per capirci:
mai come qui lo spreco di pubblico denaro è legato alla raccolta
e al mantenimento del consenso elettorale. Vale per il personale
dell'Assemblea regionale siciliana, 297 persone costate nel
2006 ben 31.035.000 euro, pari a 104.000 euro a testa con un
aumento del 26% in 5 anni oltre l'inflazione e picchi pazzeschi
quali lo stipendio di Felice Crosta, un dirigente alla guida dell'Agenzia
regionale per l'Acqua e i Rifiuti: 567.000 euro l'anno,
pari a 1553 euro al giorno, Natale e Pasqua compresi. Vale per
la spesa complessiva dell'Ars, così alta che per ogni deputato
siculo Palazzo dei Normanni costa 1.682.935 euro e cioè
44.000 euro più che Palazzo Madama per ogni senatore. E poi
vale per la «gestione parco automezzi», salita nel
2006 a 215.000 euro con un aumento del 78% sul 2001. Vale
per l'amministrazione della spesa farmaceutica che vede la Sicilia
spendere il 63% più del Veneto che ha quasi gli stessi abitanti.
Vale per i corsi di formazione svolti da 1559 enti (un terzo
di tutti quelli italiani) per un to tale stimato dal «Sole 24
Ore» in 300 milioni di euro ma frequentati da meno dello 0,1%
della popolazione nonostante chi ci va abbia una diaria di 5 euro
l'ora anche per imparare a mettere i bigodini. Vale per la distribuzione
dei 15 milioni e mezzo di euro pagati per gli affitti
di 152 uffici regionali da sommare ad altri 66 che occupano locali
demaniali, per un totale di 218 (duecentodiciotto!) sedi. E
vale infine per i 55.000 precari che Cuffaro vanta d'aver stabilizzato
«ne ho trovato un esercito di 77.000, li ho ridotti a
22.000» ha detto al biografo Francesco Foresta) e vale infine
per mille altri rivoli di spesa. Come quello dei forestali. I quali,
stando sempre a un'inchiesta del «Sole» del gennaio del 2007,
sono uno ogni 7000 ettari in Friuli-Venezia Giulia, uno ogni
4253 in Abruzzo, uno ogni 4220 in Emilia Romagna, uno ogni
56 in Calabria e uno ogni 12 (dodicil ) ettari in Sicilia.
Qualche volta perfino Totò «Vasa Vasa», come il giorno
che domò all'Hotel Astoria l'assalto di centinaia di ex carcerati
che volevano essere tutti assunti in quanto ex carcerati, sospira
invocando la Madonna: «Bedda Madri, chi me l'ha fatto fare?».
Dovesse decidersi a piantar tutto per i Caraibi, nessun problema.
Alla voce «viaggi del presidente» sono in bilancio 110.000
euro: i soldi sufficienti nei primi mesi del 2007 a pagare 171 voli
(tre alla sett imana, abbondanti) andata e ritorno da Punta
Raisi a New York con l'Alitalia. Finché decolli e atterraggi, si
capisce, resteranno sulla costa di Carini. Tra le ideuzze accarezzate
in questi anni dai politici dell'isola c'è infatti anche quello
di andare oltre gli aeroporti attuali, che sono quattro (Palermo,
Catania, Trapani e Comiso) per farne uno immenso «Transcontinentale!
Transcontinentale !» nella zona di Enna. Un progetto,
va da sé, da corredare con autostrade a sei corsie e svincoli
californ iani e viadotti confi ccati nel cielo e appezzamenti per
chilometri di ristoranti e parcheggi e paninoteche e magari ne-
gozi di calzature dai nomi raffinati come quello che domina la
statale da Agrigento a Palma di Montechiaro: «Scarpe diem».
Si vedrà. Nel frattempo, alla fine di febbraio del 2007, sono
stati dati 35 milioni di euro come prima tranche per la costruzione
di un'opera non meno ambiziosa: l'aeroporto collinare.
Da costruire, facendola finita con la banalità delle piste su terreni
piatti, sulle ridenti alture di Racalmuto. In onore, manco a
dirlo, di Leonardo Sciascia. Dite voi: non ha forse diritto, Agrigento,
a uno straccio di aeroporto? Certo, c'è chi aveva suggerito
di farlo a Piano Romano, vicino a Licata, ma essendo appunto
piatto come un biliardo è stato rifiutato: «Il sito di Licata si
trova in una delle rare pianure della costa siciliana mentre il sito
di Racalmuto si trova in una zona di colline interne, classiche
della Sicilia, molto ondulata , a volte dolcemente, a volte con diru
pi dovuti all'affioramento della roccia». È o no l'ideale, per
metterei un aeroporto spianando uno dopo l'altro i fastidiosi ingombri rocciosi? E vero, è stato calcolato che per piallare tutto serviranno 200.000 autotreni che messi in fila formerebbero una coda di 1800 chilometri. Ma che sono questi dettagli davanti al
progresso? «Lo chiameremo aeroporto Sciascia!» tuonano i
promotori pensando ai fantastilioni di triliardi da spendere e alle
migliaia di elettori da assumere. Fosse vivo lo scrittore, saprebbe
lui che nome dargli: «Aeroporto quaquaraquà».
Va detto però che gli aspiranti Icaro siciliani non sono i soli
a sognare il volo montano. Lo sognano anche in Val d'Aosta
il presidente Luciano Caveri e i suoi assessori. Che soffrono assai
il fastidio di dover fare un'ora di macchina (un'ora di macchina!) per raggiungere l'aeroporto torinese di Caselle. Così hanno deciso di dotarsi di un volo di linea per andare avanti e
indietro dalla città di sant'Orso a Roma: vuoi mettere la comodità? Fatto un bando, hanno affidato la tratta, per un volo andata ritorno al giorno, alla società Air Vallée nella quale la Regione aveva una quota e il socio di maggioranza era l'ex padrone
del Torino Franco Ciminelli. Accordo: in cambio del comfort, la giunta si impegnava a versare 5054 euro al giorno purché le fossero riservati almeno 8 posti a bordo. Un affarone,
per la società: ammesso che l'aereo costi quanto quello della
stessa grandezza della regina Elisabetta, il contributo regionale
è più che sufficiente a pagare due terzi delle spese. Averne, di
clienti che pagano due terzi d'un volo da 24 posti per riservarne
8 Un po' di biglietti venduti allo sportello e oplà, guadagno assicurato,
Nel gennaio del 2007, però, i bramini altoatesini si sono detti che era scomodo, talvolta, dovere aspettare un po' di ore per partire o rientrare dalla capitale. Cosi hanno deciso di raddoppiare, pagando ad Air Vallée un altro volo andata e ritorno,
dal lunedì al venerdì, nonostante l'aereo già esistente viaggiasse
spesso con larghi spazi vuoti e portasse mediamente 19 persone.
Totale dell'investimento, crepi l'avarizia, 2.628.420 euro.
Cioè 10.070 euro ogni giorno di volo . Ma non basta. Decisi a
giocare sempre più in grande, hanno deliberato anche di rifare
l'aeroporto e costruire una nuova aerosta zione e allungare di
500 metri la pista (a costo di spostare strade provinciali e creare
tunnel sotterranei e tagliare le ciminiere degli stabilimenti) e
comprare tutto il necessario per i voli notturni in modo da fare
atterrare aerei più grandi di quelli che già adesso viaggiano a
volte semivuoti. Totale della spesa: 29 milioni di euro. Pari a
236 euro per abitante. Per capirci: fatto il rapporto , come se
l'Italia spendesse 13 miliardi e mezzo di euro. E tutto per risparmiare
un'eretta di macchina.
17
Le Province sono inutili? Aumentiamole
Tutti falliti i tentativi di abolirle: servono a distribuire posti
E la Peppa? La domanda si schiantò tra gli assessori provinciali
di Caserta col fragore del crollo del Torrino di Foligno: la
Peppa! L'avrebbero trovata, una foto della Peppa Cossiga? Si
sapeva come faceva di cognome: Sigurani. Si sapeva che quei
discoli dei compagni d'università del futuro presidente della
Repubblica avevano dedicato al giovane amico rampante una
poesia in cui la si paragonava al Banco di Sardegna: «Dei pulcini
il più vorace è senz'altro Fra' Cossiga a cui il Banco molto
piace ma di più piace la Peppa». Ma non esisteva, della First
Lady del Picconatore, manco una foto. Se non una presa col teleobiettivo
al supermercato. Impubblicabile. Non per questo,
però, si persero d'animo. E il 27 febbraio del 2006 vararono la
loro delibera. Dove concedevano la Reggia e davano 30.000 euro
per l'organizzazione di una mostra storico-fotografica: «Le
mogli della Repubblica». Il materiale, del resto, bastava e avanzava. Anzi: a mettere
in fila le istantanee consegnate all'aneddotica, si potrebbero
davvero ricostruire pezzi formidabili della storia del nostro costume.
Francesca De Gasperi sempre un passo dietro al marito
Alcide anche nelle gite sulle Dolomiti. Maria Pia Fanfani col
suo spettacolare ciuffetto che ricordava le pregiatissime galline
di Polverara. «Sua Franchezza» Franca Ciampi, così spontanea
da marchiare come «un cretino» il presentatore-bullo Enrico
Papi protagonista della «tivù deficiente» e rispondere a una
cronista che le chiedeva se era emozionata: «Ma no, cocca!». E
poi Anna Craxi che in vacanza ad Hammamet come una regina,
scrisse velenosissima Marina Ripa di Meana, <
l'altra le dava lo smalto alle unghie dei piedi». E poi Veronica
Berlusconi fasciata in un vestito a fiori in mezzo a mari di fiori
con Silvio che la guarda sognante come il dì del matrimonio:
«Conosco Veronica da dieci anni, ma ogni giorno con lei è come
se fosse la prima volta. Per me sarà una notte da campione
del mondo.. .». Sia chiaro : il valore della mostra, curata da Paola Severini e
più rispettosa di quella immaginata da noi, non c'entra. li punto
è un altro: cosa c'entra una Provincia con queste cose e perché
tra le motivazioni c'era quella di «diffondere la conoscenza del
territorio» e valorizzare «quanto "Terra di lavoro " può offrire»?
Niente. Ma è proprio questo il bello: le Province non c'entrano
quasi niente con tutto. Ma guai a dire che sono superflue, saltano
su tutte come le beate vergini a difesa dell'onore.
Uno degli ultimi a suggerirne la chiusura fu il presidente di
Roma Metropolitane Chicco Testa. Erano anni che ogni tanto
diceva qualcosa senza sollevar polvere. Ma appena pronunciò
le parole «abolizione delle Province» venne giù il diluvio come
se Winston Churchill avesse proposto di ghigliottinare il re. li
senatore diessino Esterino Montino commentò schifato: «Forse
ha parlato alla ricerca di visibilità, di certo, oltre al cattivo
gusto, la sua idea favorirebbe il centrodestra. Visto che la politica
non è il suo mestiere non capisco il motivo di questa ingerenza». L'asburgo-margheritino Willer Bordon lo liquidò: «Dichiarazioni abbastanza puerili». E dissero la loro il conduttore
Maurizio Costanzo, il ginnasta Juri Chechi e perfino il re del
dribbling a riposo Bruno Conti. Finché un comunicato della
Cisl chiuse: «Bisognerebbe abolire Testa!». Sempre così. E successo negli anni al repubblicano Ugo La Malfa. Al battitore libero di sinistra Riccardo Illy. Al demoproletario
Franco Russo. Al costituzionalista diessino Augusto Barbera. All'avversario di Letizia Moratti alle Comunali, Bruno Ferrante. Ogni volta, reazioni indignate: «Giù le mani dalle
Province!». «Per carità, quando si parla di costi della politica
tutto ha un peso, soprattutto se si pensa che siano soldi sprecati
» scrisse Vincenzo Ceccarelli, presidente della Provincia di
Arezzo, per battagliare con il «Sole 24 Ore» che aveva rilancia-
to l'idea nell'estate del 2006, «ma 100 milioni di euro all'anno
non possono essere sufficienti per giustificare l'abolizione di
un ente che ha oltre un secolo di storia..." Eppure Gianfranco Fabi, l'autore della proposta sul quotidiano economico, l'aveva spiegata benissimo: le nostre Province
«sono, tra l'altro, una dimensione politica che non ha paragoni
in nessun altro Paese simile all'Italia. In Francia i Dipartimenti
hanno dimensione analoga, ma al di sopra c'è poi solo lo Stato.
E in Germania non c'è nulla tra i Comuni e i Lander, In G ran
Bretagna ci sono le Contee, ma hanno carattere tecnico-amministrativo
e non politico. Negli Stati Uniti amene lo stesso e nella
maggior parte dei casi le Contee sono una linea sulla carta geografica
oppure individuano le competenze giudiziarie o di polizia:
non a caso l'autorità più importante è lo sceriffo». In realtà,
a parte i Bezirken (comprensori) in Germania, c'era qualcosa di
simile, una volta, in Inghilterra. Erano le 45 Contee metropolitane.
Ma nel 1985 Margaret Thatcher le spazzò via tutte d'un colpo,
compresa quella di Londra. Ma quali sono, esattamente, le
competenze di queste nostre Province? Tutte cose che «potrebbero
tranquillamente essere assegnate ai Comuni» risponde Ferrante.
«Vivono spesso di deleghe delle Regioni e rappresentano
un ulteriore ostacolo per una maggiore fluidità nelle decisioni»
«Quelle che contano sono un paio» spiega Barbera. «Edilizia
scolastica per gli istituti superiori (le elementari e le medie
toccano ai Comuni) e quel pezzo di viabilità che l'Anas reputa
meno importante. li resto, dallo smaltimento dei rifiuti, spesso
gestito dai commissari regionali, ai poteri in materia di sviluppo
economico, teoricamente basati sui distretti industriali, sono
castelli in aria.» Ovvio: non è così per tutte le Province. Fanno eccezione
quelle di Bolzano e di Trento. La quale, dopo aver ottenuto larghi
poteri di autonomia grazie all'insensato tentativo di Roma
di «diluire» i sudtirolesi dentro una Regione a maggioranza italiana,
ha conservato questi poteri speciali anche dopo l'abolizione
di fatto della Regione che oggi conta quanto un quattro a
tressette. Lì sì, le Province pesano. Nel solo 2006 hanno amministrato
ciascuna intorno a 4 miliardi e mezzo di euro.
Una somma enorme, immensamente superio re a quelle gestite
da tutte le alt re Province. Così come non esistono colleghi
di Luis Durnwalder con 22.000 dipendenti (uno ogni 23 abitanti)
come il presidente bolzanino. Ma qui sono a carico della
P rovincia non solo il personale amministrativo e i forestali e gli
st radini ma anche i maestri, i bidelli, i professori, i medici, gli
infermieri e un mucchio di altri lavoratori pubblici altrove a carico
dello Stato o delle Regioni. Nessuno scandalo, spiegò un giorno Massimo Cacciari:
«Vogliamo essere chiari fino alla brutalità? Se l'Alto Adige non
è diventato !'Irlanda del Nord è perché a Roma, dopo le bombe
ai tralicci degli anni Cinquanta e Sessanta, hanno capito che andava
pagato un prezzo. Non dico che coi soldi si sia comprata la
pace sociale ma certo il benessere ha aiutato a diluire le tensioni.
D'altra parte: quanto ci sarebbe costato tenere lì un esercito in
armi?». Una tesi sempre condivisa, con rabbia, dai duri e puri
della comunità tedesca, da Hans Stieler, che coltiva rose dopo
essere stato negli anni Sessanta vicino ai bombaroli, a Eva Klotz,
la figlia del «Martellatore della Val Passiria»: «Ci hanno comprato
l'anima». li prezzo? Caro. Tanto da permettere il rinnovo con finan ziamenti
pubblici di tutte le pensioni e gli alberghetti della P rovincia
fino a contare già a metà degli anni Novanta una piscina
ogni 300 abitanti. Da permettere a Merano, Bressanone e Brunico
di sfidars i a chi faceva il centro benessere più grande e
sfarzoso e ricco di saune e bagni turchi e idromassaggi. Da permettere
di dare agli insegnanti un bonus integrativo tale che se
un professore nel resto d'Italia riceve a inizio carriera 1174 euro
netti, a Bolzano ne prende 1500 che salgono fino a 1624 con
l'indennità di bilinguismo e su su col passare degli anni tanto
che, alla vigilia della pensione, un professore altoatesino prende
quasi 3200 euro netti e cioè il doppio di un collega di Lecce
o Pescara. Così caro da fare dell'assessorato alla Cultura tedesca l'editore
più generoso del pianeta, in grado di pagare 100.000 euro
l'uno agli autori di un paio di libri sul Sudtirolo. O da spingere
gli amministratori a prendersi perfino sfizi, altrove impensabili,
come il restyling dei cartelli stradali che segnalano le zone in dustriali
con la rimozione, accanto al disegnino dello stab ilimento,
della nuvoletta di fumo che esce dalla ciminiera: «Le
nostre industrie non fanno fumo».
I soldi gettati a pioggia sulla montagna e le città e le cont
rade sono tanti da strappare una vecchia battuta in tedesco
maccheronico: quella della «Kassen von Mezzogiornen». L'accorta
e capillare distribuzione di denari pubblici ai cittadini (è
stata incentivata con moneta sonante perfino la scelta di colori
adatti all'ambiente dei teloni che coprono i covoni di fieno l)
equivale anche qui alla coltivazione del b acino elettorale. Il
quale ha sempre ricambiato dando soddisfazioni alla Svp e ai
suoi alleati. E o non è anche questo un costo della politica?
Stipendi altissimi, assistenti personali, un mucchio di benefit,
autoblu a volontà e magari con la targa della Protezione
civile come quella dei d ue presidenti provinciali che possono
così evitare di rispettare il codice stradale come i comuni mortali.
li presidente della Provincia altoatesina prende ogni mese
23.685 euro, il suo vice 22.439, un assessore 21.192, il presidente
dell'assemblea consiliare 18.699, il suo vice 15.582. E giù
giù, a cascata, sono tutti contenti: un capo dipartimento t rova
in busta paga 111.701 euro l'anno, un capo ripartizione 80.944,
un direttore di scuola professionale 69.114, il direttore sanitario
della Asl di Bolzano 228.255, il direttore generale 180.288,
un primario di media anzianità 189.908.
Perfino i fmanziamenti ai partiti, nel vicino Trentino da anni
governato dall'inventore della Margherita Lorenzo Dellai, sono
esenti da controlli. Lo denunciò il segretario diessino Mauro
Bondi: «Non c'è obbligo di rendiconto e si possono spendere
come si vuole i soldi che riceviamo come fmanziamento al gruppo
politico. Il mio, quello dei Democratici di sinistra, ha circa
150.000 euro all'anno come dotazione finanziaria per le spese.
Posso essere onesto o disonesto. A mia scelta». La prova? Il
consigliere della Quercia portò Antonello Caporale, della «Repubblica
», a fare shopping, partendo da una gioielleria: «Quello
Zenith Open Chrono nero , lo vede li? Costa 7500 euro ma è
bellissimo. Dico che è un regalo, un presente da portare in Germania ai nostri amici dell'Spd. Chi controlla? E chi me lo vieta? » . Nessuno. Tanto è vero che Franco Tretter, l'ex presidente
regionale già arrestato in fragranza di reato perché aveva fregato
proprio degli orologi in un negozio, se l 'è cavata senza danni
anche da un processo in cui era accusato di avere comprato in
una boutique quattro vestiti, quattro camicie e tre cravatte pagandole
con un assegno del gruppo consiliare del Patt, il Partito
autonomista trentina tirolese, di cui era uno dei leader. Secondo
i difensori i compiti del gruppo non sono definiti dalla legge e
quindi il giudice non poteva sindacare le singole scelte. Nemmeno
sui colori delle camicie e i disegni delle cravatte.
Quanto ai vitalizi, nel 2006 a Bolzano si sono dati una regolata.
Decidendo, per la prima volta nei palazzi della politica italiana,
di passare dal sistema retributivo al sistema contributivo.
Per capirci: i nuovi eletti (per i vecchi, regole vecchie) avranno
la pensione solo a 65 anni e sulla base di quanto hanno versato.
Meglio tardi che mai. Era uno scandalo che doveva finire: 2196
euro netti per una legislatura, 3690 netti per due, 5168 netti per
tre, 6637 netti per quattro.. . Ancora più stupefacente però, agli storici del futuro, appariranno
le reazioni sull'«Adige» della casta dei privilegiati trentini
davanti alle polemiche sui vitalizi. Come Paolo ToneIIi, per
tre lustri consigliere di Democrazia proletaria e benedetto da
una pensione deluxe quando aveva solo 50 anni: «Queste erano
le regole che mi sono trovato quando è stato il mio turno». li
democristiano Giorgio Grigolli: «Cosa devo fare? Andare in
piazza con i cartelli a protestare?». li leghista Erminio «ObeIix»
Bosa, che dopo aver barrito per anni contro i politici di «Roma
ladrona» avrà la vecchiaia addolcita sia dalla pensione di senatore
sia da quella di consigliere provinciale, trova queste domande
proprio insopportabili: «Non sono questi i problemi! Prendetevela
con i burocrati...», A farla corta, tra le Province sorelle è in corso da anni una
gara (solo recentemente rallentata) ad autoconcedersi il più
possibile. Una volta vince una, una volta l'altra. Il presidente
del Consiglio p rovinciale altoat esino Riccardo Dello Sbarb a,
per esempio, alla voce «spese discrezionali» aveva nel 2006
a disposizione 22.810 euro e il suo collega trentina Dario Pallaoro
355.000. Meglio: avrebbe avuto. Prima di cedergli la poltrona
per andare a Roma a fare il deputato, il suo p redecessore
Giacomo Bezzi aveva infatti svuotato la cassa. Per fare cosa, di
tutti quei soldi? «Ah, non lo so...» risponde Pallaoro. Non trova
assurdo avere quindici volte più del collega di Bolzano?
«Ah, non lo so... Si vede che lì hanno deciso cosÌ.» Non trova
folle avere, come Totò Cuffaro in Sicilia, il quadruplo del presidente
Napolitano? «Ah, non lo so...» Fatto sta che i soldi sono così abbondanti che l'agenzia di
rating internazionale Fitch, bestia nera dell'Italia, ha concesso
nel 2007 alle due Province sorelle il punteggio massimo. La tripla
A: affidabilità totale. Va da sé che, se potessero , si trasferirebbero lì decine di
comuni. La slavina originata dal ruzzolare del fagiolo di Lamon,
un paese che fino al referendum per passare dal Bellunese
al Trentina era noto solo a chi ama la «pasta e fasoi», rischia
di travolgere tutto e t utti. Certo, il virus della «traslochite» non
ha infettato solo il Nord. Né i soli confinanti delle aree autonome.
Ma è a ridosso di Trento e Bolzano che il fenomeno nei primi
anni del secolo si è fatto vistoso: perché restare nel Veneto
se nel giardino di là l'erba, concimata coi fertilizzanti dell'autonomia
speciale, è più verde? Il virus, con relativi referendum, s'è diffuso come un'epidemia.
A sentire i promotori, per ragioni nobilissime e struggenti:
le t radizioni culturali ! Il retaggio dei nostri avi! I valori
morali ! Poi leggi le tabelle distribuite a suo tempo a Lamon e
capisci. Libri scolastici: gratuiti fino alla 5' elementare in Veneto,
fino alla 3' media in Trentina . Libri presenti nelle biblioteche
comunali: 2 per abitante a Lamon, lO nella vicina Canal
San Bovo. Lista d'attesa per una mammografia: 5 mesi in Veneto,
50 giorni in Trentina. Spesa annua dei Comuni per abitante:
587 in Veneto, 1175 in Trentina. Entrate t ributarie comunali
per abitante: 258 euro in Trentina , 426 nel resto d'Italia.
Se Trento e Bolzano grondano di competenze e comprano
libri e gestiscono la sanità e amministrano il sistema scolastico, è
perché la Regione non c'è più. È solo una scatola che il Grande
Padre dei sudtirolesi Silvius Magnago ha svuotato completamente.
Ma le altre Province? Se hanno solo «un paio di competenze
che contano» e il resto «sono castelli in aria», perché teo
nerle? E una domanda che, secondo Augusto Barbera, risuona
o da un mucchio di tempo: «E una polemica nata con l'Unità d'Italia
150 anni fa» ha spiegato a Franco Cangini del «Giorno», e
«da allora le Province vivacchiano secondo una strategia vincente
di sopravvivenza. Almeno quattro volte date per spacciate
e sempre rinascenti. La prima già al tempo di Marco Minghetti
e del suo progetto di fondare il nuovo Stato sulle Regioni . Se
avesse avuto successo, ogni Regione si sarebbe organizzata a
modo suo. Ma si ebbe paura che il decentramento facesse rientrare
dalla finestra le classi dirigenti preunitarie, codine e reazionarie,
e si preferì governare dal centro con i prefetti. La stessa
scelta che era stata fatta dalla Francia della Rivoluzione, e per
gli stessi motivi. «La soppressione delle Province fu decisa alla Costituente,
dalla Commissione dei 75. Ma quando il testo passò all'esame
dell'Assemblea furono resuscitate. Nel '70, quando si attuò
l'ordinamento regionale, il leader repubblicano Ugo La Malfa
tornò a reclamare l'abolizione delle Province per eliminare una
duplicazione di burocrazie e di spese. Enrico Berlinguer, segretario
del Pci, era d'accordo. Però si convenne di aspettare, per
abrogarle, il consolidamento delle Regioni. Arrivò invece il decreto
616 del 1977, in piena "solidarietà nazionale", che smantellò
i comprensori comunali creati dalle Regioni e rilanciò il
ruolo delle Province. Berlinguer e La Malfa si erano convertiti o rassegnati .»
Qual è il criterio? La compattezza geografica di un territorio?
Le affinità culturali? La dimensione? L'ossatura produttiva?
Boh... Ci sono Province come quella di Torino con 315 comuni
e altre come quella di Prato con 7, Province con 4 milioni
di abitanti come quella di Roma e altre di 58.000, cioè meno di
un quartiere di Milano, come quella dell'Ogliastra, con capoluogo
Tortolì (10.000 anime) e Lanusei, che di anime ne ha meno
di 6000. Piccole ma agguerrite. Basta vedere sui giornali sardi
la bellicosità delle quattro Province aggiunte nel 2001 alle
quattro già esistenti, col risultato che oggi in Sardegna c'è una
Provincia ogni 200.000 abitanti. Neanche il tempo di insediarsi e il presidente della Provincia
di Carbonia-Iglesias, il margheritino Pierfranco Gaviano,
già sbuffava contro Renato Soru, reo di avere detto che otto
province sarde erano una pazzia e dunque le nuove avrebbero
dovuto dividere soldi e uomini con le vecchie. Ma come: solo
11 dipendenti? «Ce ne servono almeno 150!» E basta, spiegava
all'«Unione Sarda» coi grilli parlanti e i moniti a risparmiare e
gli allarmi per il gigantismo: «Certo, io assumo. Noi non siamo
un ufficio distaccato della Regione. A noi serve personale altamente
qualificato, di livello, funzionari e dirigenti...».
«Avevamo scongiurato la classe politica di evitarci questo
salasso» spiega Gianni Onorato, un imprenditore cagliaritano
che nel 2003 guidò una pattuglia di volonterosi nel tentativo di
stoppare la follia con una battaglia referendaria: «Invece, contro
l' istituzione delle Province, votò solo un consigliere regionale
». Solo uno. E perché? Questo è il punto: perché le Province
fanno comodo ai partiti: “È un'operazione per recuperare
alla vita i trombati della politica: un giochetto che costa alle tasche
dei sardi più di 100 milioni di euro”. Sui costi, in realtà, c'è polemica. Secondo il «Sole 24 Ore», il solo atto di nascita di una nuova Provincia (con la parallela
creazione della prefettura, della questura, dell 'archivio di Stato...)
costa 50 milioni di euro. Secondo il sindaco di Melfi,
Alfonso Navazio, una delle cittadine che aspirano allo status di
capoluogo, meno di 13 e mezzo. Fatto sta che, mentre un sacco
di gente sostiene in astratto la totale inutilità di un ente che potrebbe
benissimo chiudere col trasferimento di un po' di competenze
ai Comuni e alle Regioni, nella pratica le Province sono
salite dalle 92 del 1960 alle 110 del 2005. Quando in Parlamento
si erano già accumulate 74 proposte per altre 34 «new entry»,
tra le quali quattro solo nel Lazio (Cassino, Castelli Romani,
Civitavecchia e Guidonia) e due in Calabria, dove agognano lo
status Lamezia Terme e Sibari.
«Noi che veniamo da Anassagora!» tuona il primo. «E Protagora!» aggiunge il secondo. «E Tucidide!» precisa il terzo. E giù, tutti a sospirare sui secoli d'oro della Magna Grecia, prospera e ridente sotto l'alito illuminato di Pericle e Democrito,
quando «tra il porto di Sibari e le navi alla fonda v'era un collegamento
di condotte a tubi per il carico dell'olio e del vino» .
Il punto è che le Province sono un formidabile serbatoio
di poltrone da distribuire: 104 presidenti più 104 vicepresidenti
più 894 assessori più 104 presidenti delle assemblee consiliari
più 3000 consiglieri per un totale di 4206 persone. Che guao
dagnano da un minimo di 36 euro a gettone di presenza per i
consiglieri delle Province più piccole ai 3705 euro per gli assessori
delle realtà medie fino ai quasi 7000 euro per i presidenti
delle entità più grandi. Il totale è difficile da fare perché oltre a
Tren to e Bolzano (calcolate a parte) anche la Sicilia si regola
per suo conto. Ma le stime parlano di stipendi complessivi per
oltre 61 milioni di euro. Una massa di prebende tale che perfino Cesare Salvi e
Massimo Villone, che nel loro libro scrivono che «gli addetti ai
lavori sanno benissimo che la Provincia è l'anello debole del sistema
di governo locale» e che «nella Bicamerale D'Alema si
discusse seriamente di abolirla», non hanno troppe speranze
che passi il loro disegno di legge per la soppressione: «Ci vorrebbe
una grande ondata popolare...». Ma almeno, suggeriscono,
si potrebbe stabilire che «una nuova entità territoriale si finanzia per i maggiori costi con una tassa a carico dei cittadini che la richiedono». Risultato? «E probabile che le proposte di
nuove entità autonome scomparirebbero tutte nottetempo.»
Intanto, quelle che ci sono cercano di dare un senso alla
loro vita col metodo di certe casalinghe ricche e infelici: spendendo.
Spesso moltissimo. Come la Provincia di Milano che ha
un bilancio annuale di 1 miliardo e 165 milioni di euro e alla fine
del 2004, anno gestito per metà dall'azzurra Ombretta Colli
e per metà dal diessino Filippo Penati, aveva la bellezza di 2583
dipendenti (75 in più rispetto all'anno prima) e tirava fuo ri
quasi mezzo milione per l'ufficio stampa e la «promozione della
comunicazione istituzionale» e altri 237.000 euro per «spese
diverse e funzionali per gli uffici della direzione centrale presi.
denza, uffi cio del segreta rio e ufficio stampa» e un altro milio-ne e mezzo per i «dirigenti esterni» ... Per non parlare dei 238 milioni investiti per conquistare la maggioranza della MilanoSerravalle e dati in cambio del 15% delle azioni a Marcellino
Gavio, fornendo all'imprenditore, secondo il centrodestra che
denunciò uno «spreco di denaro pubblico», le munizioni per
dare un aiutino all'UnipoI nella scalata alla Bnl.
Vero ? Falso? Mah... Quel che è sicuro è che la Provincia
meneghina si ritrova a controllare un impero economico con
28 partecipazioni: dalle società autostradali a quelle idriche e
aeroportuali. Un impegno che lascia evidentemente a Penati il
tempo di fare dell'altro. Per esempio, dalla fine del 2006, è nel
consiglio d'amministrazione della Eventus SrI, una società privata
che ha come oggetto sociale la produzione e l'importazione
di cemento, sabbia, vernici, laminati e legno posseduta per
metà da un imprenditore bergamasco e per l'altra da una fiduciaria
anonima, la Plurifid. Curioso. Come curioso è che nello
stesso CdA sieda Dario Odelli, sindaco di Albano Sant'Alessandro,
p rovincia di Bergamo, tessera leghista.
E il calcio? Matti per il calcio, certi presidenti provinciali.
Di destra e sinistra, del Nord e del Sud. La Provincia di Cagliari
del diessino Graziano Ernesto Milia ha dato nel 2005 agli
amati rossoblu 150.000 euro, quella di Palermo del forzista
Francesco Musotto 700.000 agli amati rosanero, quella di Lecce
del diessino Giovanni Pellegrino 1.200.000 agli amati giallorossi,
sulla base di un accordo (poi disdetto) ereditato dal predecessore,
il margheritino Lorenzo Ria, che si era impegnato a
donare un po' di denaro anche al Volley Taviano e all'Italgest
Salento d'Amare Casarano, una squadra di pallamano.
Alla fine , capirete, i soldi non bastano mai. Dal 2000 al
2004, secondo i dati dell'Upi, l'Unione delle P rovince italiane
rielaborati dal «Sole 24 Ore» «le uscite hanno subito un balzo
del 66,1%. In particolare la spesa per il personale è lievitata del
33 ,8%, a fronte di un aumento delle unità in organico del
20,9%». Fino a un totale di quasi 57.000 dipendenti. Più degli
abitanti di due capoluoghi di provincia Isernia e Nuoro messi
insieme. Capirete anche che, spendi di qua e spendi di là senza
precise competenze, può capitare di smistare dei soldi che non
dovrebbero essere smistati e che poi la Corte dei Conti potrebbe
contestare. O no? Così nel 2006, un verdetto dei magistrati contabili che condannava
lui e sei assessori a pagare 4196 euro a testa di danni
erariali, rivelava che qualche anno fa il nazional -alleato Nello
Musumeci, poi uscito dal partito, aveva fatto nelle vesti di presidente
della Provincia di Catania una polizza curiosa. Con cui
la Reale Mutua Assicurazioni, in cambio di 58.747 euro l'anno,
copriva lui e i colleghi di giunta sul versante della responsabilità
civile e professionale a carico del bilancio provinciale. Per
intenderei: una polizza contro eventuali condanne della Corte
dei Conti.
18
Il signor sindaco ha fatto crac
La ricerca del consenso e i bilanci comunali in profondo rosso
Finalmente ricchi! Il titolone sulla copertina della «Voce dd popolo
» di Taranto, con tutti quei bigliettoni da 100 e 200 euro
che piovevano allegri sulle spalle di Rossana Di Bello , la sindachessa
azzurra che stava portando la città pugliese dritta dritta
alla bancarotta, resterà immortale. Certo, nella storia dd giornalismo
c'erano illustri precedenti di capitomboli. Il «Chicago
Daily Tribune» nel 1948, infinocchiato dai primi risultati delle
presidenziali americane destinati a essere rovesciati, aveva sparato:
Dewey batte Truman. Per non dire di decine di titoli involontariamente
comici: Il baby-boom è figlio della voglia di scoop
(L'Avvenire) , Si è spento il giovane ustionato (Bresciaoggi»),
Pene più duro per i piromani «Il Resto del Carlino», Fino al capolavoro
che campeggiava enorme su una locandina dell'«Alto
Adige»: Inquietanti particolari dall'autopsia sul cadavere di Bruno
Gallmetzer: forse è morto.
Ma quel titolo sulla «ricca» Taranto, rivisto alla luce della
catastrofe finanziaria municip ale, è nel suo genere un pezzo
unico. Sia chiaro: c'era anche una punta di ironia. Che il giornale
della «città dei due mari» sottolineava con un'intervista in
cui un docente di Economia alla Cattolica di Milano spiegava
che non si era mai visto al mondo un finanziamento di 250 milioni
di euro coperti dall'emissione di Boc (Buoni ordinari comunali)
«senza una certificazione del bilancio e senza un rating», cioè un giudizio di affidabilità dd debitore stilato da una società specializzata. Ma certo, a rifare oggi quella copertina,
bisognerebbe far cadere sulla testa della sindachessa una pioggia
di tegole. Politiche e giudiziarie. La relazione dei commissari mandati dal governo a tentare di salvare ciò che si poteva salvare è infatti pesantissima. Quella che ai bei tempi era chiamata «la capitale industriale del Mezzogiorno» per gli stabilimenti dell 'Italsider che avevano «un gigantesco treno a nastri larghi della terza generazione, affiancato
da un treno a nastri freddi e da un laminatoio per lamiere
grosse che per larghezza e lunghezza erano tra i maggiori
nel mondo», si è infatti inabissata in un buco calcolato nel marzo
dd2007 di almeno 700 milioni di euro: quasi 14.000 per ogni
famiglia cittadina. Pretesi da oltre 3500 creditori. Dall'End (2
milioni di bollette mai pagate) all'Agenzia delle Entrate, che
nel 2005 non ha visto neppure un centesimo degli 8 milioni di
Irpef che gli uffici municipali avevano trattenuto dalla busta
paga dei dipendenti. Fino alla pasticceria che consegnava sui
vassoi i «sann' acchiuder», il dolce natalizio tarantino.
Una voragine tutta politica, creata dalla scelleratezza dei
politici che amministravano la città con mille scelte sventurate
fatte per avere in cambio un vantaggio politico. Non è un'opinione sociologica. E la rivendicazione pubblica, che oggi assume il valore postumo di una confessione, della soave Rosanna Di Bello. La quale, al giornalista Cesare Bechis della “Voce del
popolo” che le ricordava come la sinistra denunciasse la decisione
d 'indebitare per decenni la città coi Boe quale una «manovra
elettorale», rispose: «Mi semb ra un'ingenuità. Tutto è
elettorale, tutto viene fatto per rispondere ai bisogni dei cittadini
dei quali un amministratore deve guadagnarsi e consolidare
il consenso con il proprio lavoro».
Intendiamoci, questa politica del consenso a spese delle
pubbliche casse non è stata inaugurata a Taranto. È di moda da
sempre in decine di paesoni e paesini soprattutto meridionali
dove le campagne elettorali sono state spesso condotte con promesse
cialtronesche: «Non vi faccio pagare l'acqua! Non vi faccio
pagare la spazzatura!». Nicola Leone, allo ra procuratore
regionale della Corte dei Conti di Catanzaro, elaborò i dati relativi
a 34 comuni calabresi. Media dell'evasione dell'imposta
sui rifiuti: 69%. Sull'acqua: 93,5%. Sulle fognature: 95,3% . li
che significa che evadevano e continuano a evadere oggi non
solo le famiglie sventurate (che casomai potrebbero invocare
esenzioni) ma anche i negozi, gli studi professionali, le industrie,
i laboratori. Tutti. Così era Isola Capo Rizzuto all'arrivo nel 2003 del commissario
di governo Antonio Ruggiero: il 93% della popolazione
non pagava la tassa sui rifiuti, il 97% non pagava l'acqua, il
100% non pagava le imposte sulle insegne o l'occupazione di
suolo pubblico perché il municipio non aveva mai trovato il
tempo di fissare le tariffe. E appena il commissario cercò di far
pagare un minimo forfait per l'acqua molti andarono dal giudice
di pace che diede ragione a loro e torto al Comune: affari suoi se non c’ erano i contaton,
Per non dire di Cirò, celebre per il vino e per una relazione della Corte dei Conti: 78,2% di evasione dell'Ici, 97,4% di evasione sull'acqua, 96,8% di evasione sui rifiuti solidi urbani,
100% di evasione sulle fognature e la depurazione delle acque.
Eppure tutti pagavano le bollette del telefono, tutti pagavano
quelle della luce, tutti pagavano l'Irap. «Sarà perché la riscossione
non l'effettua il Comune?» si chiedeva sarcastico il magistrato
autore dell'inchiesta. E chiudeva: «La domanda è retorica».
«Non è che la gente di qua sia portata all'evasione» spiegavano
all'ufficio ragioneria del municipio. «Il fatto è che ogni
volta che c'è da spedire le bollette c'è sempre qualche elezione
alle porte e alla fine arriva sempre un assessore che dice: "Non
adesso, non adesso. Sospendiamo un momento...".»
Sospendi oggi, sospendi domani, il commissario prefettizio
spedito sul posto dopo lo scioglimento del Consiglio comunale
trovò casi di persone che, chiesto il condono edilizio in base al- .
la legge Berlusconi del '94, non avevano mai pagato la multa.
Di più: nel 2003 mancavano ancora versamenti dovuti per il
Condono del 1980. Per non parlare delle altre voci della tabella
«Entrate», Come quella nell'ultimo bilancio consuntivo al «Titolo
4», cioè nella casella dei soldi recuperati attraverso la vendita
di beni comunali. Entrate previste: euro 615.000. Entrate
effettive: euro 1549. Il trecentonovantasettesimo dell'obiettivo.
Taranto spaventa perché è tutto più grande. Immenso il
buco, immense le professioni di ottimismo di chi ha accompagnato
la città al crac finanziario. Sul quale sono state aperte 30
inchieste per 30 diversi filoni impegnando 10 dei 18 pubblici
ministeri. Sapete cosa diceva, prima del drammatico tracollo, il
vicesindaco e assessore al bilancio Michele Tucci, premiato nel
2006 dall'Udc con l'elezione alla Camera, a chi paventava pericoli
di natura finan ziaria al Comune? «Non credo. Ritengo bassissimo
questo rischio.» E Lucilla De Rinaldis della Banca Opi
protagonista del megaprestito, spiegava come il Tesoro avesse
ritenuto «tutte le informazioni ricevute esaustive e soddisfacenti
». Tesi smentita da una sentenza del giudice Pietro Genoviva
che censura «gravi vizi genetici». Quale la decisione della banca
di accettare come garanzia sia per i 250 milioni dei Boe sia
per altri 100 di fido concessi al municipio, «i medesimi immobili
comunali» valutati 232 milioni di euro. Fatto sta che, danzando sull'orlo del baratro, i bravi amministratori tarantini pensavano in grande. Ed ecco i giochi d'acqua
delle fontane sincronizzate e illuminate costruite in mezzo
al mare davanti alla città vecchia, fontane costate oltre un milione
di euro e spente per sempre dopo poche settimane. Ecco
il progetto di ricostruire in chiave moderna, con un bestione di
vetro e acciaio alto 40 metri, il «colosso di Zeus fulminante», la
leggendaria statua di Lisippo che, stando alle testimonianze di
Tito Livio, era alta 17 metri e veniva chiamata così perché il dio
era raffigurato nell'atto di scagliare una folgore. E poi ancora
l '«isola dei delfini», descritta come «un impianto a mare con
sedi a terra per la cura e il trattamento dei cetacei e la "delfinoterapia",
unico nel Mediterraneo». E mille altre cose ancora.
li risveglio dal mondo dei sogni, per i cittadini, è stato durissimo.
Lo dicono il blocco di tutte le spese non indispensabili,
una rigidità mai vista sui pagamenti delle multe e delle bollette,
l'aumento delle tasse locali ai limiti massimi. Per un appartamento
di 100 metri quadrati in perife ria l'Ici è schizzata a
273 euro, in zona semicentrale a 490, in centro a 531. Un salasso.
Neppure sufficiente, però, a salvare la città senza un intervento
di Roma. Pagato da tutti i cittadini it aliani. Che an cora
ricordano quando i tarantini, prima della maga Rosanna, si innamorarono
di un altro illusionista, Giancarlo Cito. Che, eletto
sindaco a furor di popolo, minacciava la squadra di calcio re-
trocessa (Metterò le gambe dei più brocchi a mollo in un a vasca
di piranha!») e tentava la conquista di Milano dicendo di
valeria «ta rantizzare» e prometteva a Di Pietro di «riempirgli la
bocca di cemento a presa rapida» e girava per i quartieri con le
ronde contro «gli zingari e i delinquenti» mettendo a verbale il
sequestro di 16 freschiere, 7 coprisedili, 18 p arasole di cartone,
13 zainetti, 11 racchettoni, 4 confezioni di fazzolettini, 7
cappelli di paglia...
C'è chi dirà: ognuno h a i sindaci che si merita. Ciò che è
certo è che, prometti prometti, gli amministratori di Taranto fecero
mostra di non accorgersi della profondità dell'abisso, scoperta
solo nell'autunno del 2006 all'arrivo del liquidatore Francesco
Boccia e del suo braccio destro Mario Pazzaglia, che col
passare dei mesi avrebbero trovato cose da pazzi. Non si accorsero
neppure (ma davvero?) che nel caos generale una moltitudine
di dipendenti si segnava ore e ore di straordinario e 23 funzionari
e impiegati si autoregalavano in busta paga, riconoscendosi
«lavori a progetto» e consulenze, una montagna di soldi. A
botte di dieci, venti, trentamila euro. Fino a venire accusati di
essersi fregati chi 434.000 euro e chi 422.000, chi 429.000 e chi
(come un certo Cataldo Ricchiuti che aveva 12 fabbricati e un
terreno e 124.000 euro in banca) addirittura 567.000.
Totale dell'ammanco? Vai a saperlo. La commissione d'inchiesta
interna, davanti a furti così diffusi e pazzeschi, ha allargato
le braccia. Limitandosi a una stima dei soldi rubati dai di pendenti
infedeli dal 2001 al 2005: da 21 a 30 milioni di euro. li
che non ha neppure consentito ai liquidatori di liberarsi dei furboni
licenziandoli in tronco: va aspettata la sentenza definitiva.
In Cassazione. Fra anni e anni. Nel fr attempo c'è chi, come
Francesco Grassi che secondo le accuse si era regalato compensi
extra per 389.000 euro, ha fatto ricorso anche contro la sospensione:
come hanno osato metterlo provvisoriamente fuori?
Niente di nuovo sotto il cielo. Sapete quante notizie Ansa
escono dalla banca dati on -line, su milioni e milioni di takes dal
1981 a oggi, incrociando le parole «dipendenti comunali + licenziati»? Dodici. Ma nella stragrande maggioranza non raccontano di licenziamenti (come quello di 9 b ecchini triestini, sbattuti fuoti perché davvero nessuno se la sentì di difenderli
dopo che avevano aperto un sacco di tombe per rubare ori e
orologi ai morti) , ma di rimozioni tenacemente combattute dai
sindacati o da qualche ipergarantista. Come nel caso di Fabrizio
Filippi, accusato dal municipio di Livorno di essere un lavarivo
e messo fuori , dopo un'accanita guerra processuale, solo
dopo 13 anni di sentenze e ticorsi. O di uno spazzino licenziato
dal Comune di Latisana, Udine, dopo un'assenza ingiustificata
di 15 giorni e fatto riassumere perché, essendo l'uomo sempre
ubriaco, «non era provata la volontà dell'inottemperanza al dovere
di prestare servizio». Se era ciucco come faceva a decidere
di non lavorare? Per non dire di un caso simile a quello di Taranto. Ricordate
cosa successe a Napoli? Finirono sotto inchiesta in 321 ,
nel 2002, per essersi gonfiati lo stipendio. Molti avevano dichiarato
con l'autocertificazione di avere in casa, a proprio carico,
una tale quantità di nonni, suoceri, cugini, zie, cognate e
consuocere da ottenere fino a 15 o 20.000 euro di arretrati. Altri
si erano ritoccati le buste paga attribuendosi fino a 16.000
euro al mese. E «voci accessorie» fino a 53.000 l'anno. Bene:
solo uno, il dirigente dell'ufficio Aldo Buono, è stato rimosso.
Gli altri se non se ne sono andati per godersi la «meritata pensione», stanno ancora lì. E con l'indulto del 2006 si sono tolti pure il pensiero del processo: marameo!
E siamo sempre alla stessa domanda: è o non è un costo della politica la scelta di non combattere un'aperta battaglia frontale per licenziare i dipendenti infedeli, assenteisti o lavativi? Il Comune di Napoli, dal '93 saldamente in pugno alla sinistra, ha 2180 vigili urbani (più di un sesto di tutti i dipendenti municipali) ma sulla strada, dice un'inchiesta del «Mattino» ,vanno sì e no in 500. Uno ogni 2000 abitanti. Ed è Napoli, non Zurigo. Perché così pochi? Molti stanno in ufficio a sbrigare pratiche relative ai 32 (trenradue!) «compiti d'istituto». Ottanta (80!) vigilano sui locali del Consiglio comunale perché, ha spiegato l'assessore Gennaro Mola ad Anna Paola Merone del «Corriere del Mezzogiorno», «questa è una città dove non possiamo tenere gli uscieri all'ingresso del Comune: ci sono cortei e problemi tutti i giorni». Cinquanta (50!) fanno gli autisti per i loro superiori. Quattrocento (400!), cioè uno ogni cinque divise, fanno i sindacalisti. Stare per strada, si sa, è un lavoro che logora. Tanto più se non si è giovanotti. L'età media è di 57 anni. Moltissimi sono li
dagli anni Ottanta o addirittura da prima. E stando ai certificati medici sono pieni di acciacchi. Dicono sia colpa del virus dell'« incrocite» . Certo è che a stare agli incroci è diventato subito inidoneo anche un settimo dei «caschibianchi» assunti nel Duemila. Facendo salire il totale degli inabili a 600. Sia chiaro: inidoneità quasi sempre «parziale». Perché? Se fosse «totale» non potrebbero intascare l'indennità di chi va per strada. Quindi ci vanno. Ma stando accuorti. Con «magari», calma. Ogni tanto, dicono i certificati sui quali la magistratura ha aperto un'indagine, si devono sedere. Staccare la spina. Accasciarsi in
auto per recuperare le forze psicofisiche. E la scelta di «come» usare il patrimonio edilizio? Non è anche questa una scelta squisitamente politica le cui spese sono scaricate sulla collettività? Dice una recente inchiesta della Corte dei Conti che il Comune di Napoli, che pure è riuscito ad accumulare 6 milioni di bollette Enel inevase prima di decidersi
a pagarne una parte, è sulla carta ricchissimo. Il suo patrimonio immobiliare valeva nel 2002 (anno esaminato dai giudici contabili) 2 miliardi e 169 milioni di euro, oltre il doppio del
valore di quello di tutta la Regione Lombardia. Ma sulla gestione, a leggere il rapporto, c'è da mettersi le mani nei capelli. Da 59.927 unità immobiliari, per un decimo fuori dal territorio comunale o dalla Campania, il municipio ricavava in totale meno di 30 milioni di euro. E siccome per mantenerlo ne spendeva oltre 45 milioni, ecco che riusciva nell'impresa
grandiosa di perdere su quel patrimonio immenso, di cui facevano parte oltre 30.000 alloggi, quasi 16 milioni di euro l'anno. Una follia. Tanto più coi precedenti di Napoli, che nel
1992 era stata la prima grande città italiana a fare bancarotta.Sciatteria. Approssimazione. Poca voglia di prendere di petto il problema, autolesionista in termini elettorali, dei morosi
(11 milioni di euro di affitti non pagati l'anno !) e degli abusivi che hanno occupato 12.000 unità immobiliari che pur non dando un cent di reddito, scrive il magistrato, costringono
il Comune «a provvedere alla relativa manutenzione determinandosi in tal modo un ulteriore pregiudizio economico» . E sapete qual è la ciliegina sulla fetida torta? Un decimo del patrimonio è sottoposto a sequestro perché chi ci sta (magari dopo averlo occupato) ci ha pure commesso abusi edilizi non condonabili. Gira e rigira, sempre lì si torna. All'uso dei soldi pubblici per raccogliere consensi e mantenere le rendite di potere. Vale per Giuseppe Vitale, il sindaco di sinistra del paese palermitano di Villafrati, dove ancora nella primavera del 2006 c'erano 109 lavoratori socialmente utili e cioè, record planetario, uno ogni 30 abitanti, come se !'Italia ne avesse 2 milioni. Vale per il sindaco di centrosinistra di Avellino Giuseppe Galasso, che nel dicembre del 2006 è riuscito a tagliare (lui sperava la metà) solo 55 dei 347 telefonini a disposizione degli assessori e degli impiegati e ha dovuto pagare una bolletta supplementare di 15.000 euro. Vale per il senatore leghista Ettore Pirovano, condannato dalla Corte dei Conti a risarcire, insieme con gli assessori della sua giunta comunale, 251.466 euro presi dalle pubbliche casse per finanziare una «scuola padana» dopo che le locali elementari erano state soppresse per mancanza di alunni.Vale per il sindaco di Catania Umberto Scapagnini, che prima di tentare di vendersi nel 2007 certi pezzi pregiati del patrimonio edilizio (bloccato dalla Sovrintendenza alle Belle Arti) aveva così esagerato nelle spese da costringere il governo Berlusconi a dirottare al suo Comune un pacco di soldi prelevati dai fondi dell'8 per mille (destinati a opere di bene) per pagare
i librai furenti perché avanzavano il denaro dei buoni-libro e i
non meno furenti ballerini brasiliani che si erano esibiti sotto
l'Etna per la gioia di Surama De Castro, la bella guagliona carioca
che allietava allora il primo cittadino.
E vale per Gunther Januth, il sindaco sudtirolese di Merano
che per le nuove terme (25 piscine, alcune saune, 3 bagni di vapore,
un sanarium, un bagno di fieno, un caldarium e una sauna
finlandese all'aperto e mille altre cose) ha speso probabilmente
più di quanto spese Caracalla: 32 milioni di euro. Pari all'intero
stanziamento nel 2006 per l'emergenza case in Campania.
Per non dire del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti,
che nel settembre del 2006, come ha scritto Antonello
Caporale sulla «Repubblica», spese 120.000 euro per «offrire
ai concittadini una supersorpresa: fargli trovare in st rada artisti
e personaggi di gran fama». Propose quindi a Lele Mora, l'impresario
dello spettacolo poi investito dalle bufere giudiziarie,
di «cogliere l'idea e svilupparia. E Lele Mora che ha fatto? Una
cosa bellissima: ha chiesto a un numero davvero ampio di star
(24) di lasciarsi libera la serata e di raggiungerlo a Reggio
Calabria. Insieme, tutte insieme, le stelle del firmamento televisivo,
letterine, vallettine, passaparoline, modelline, meteorine
hanno preso l'aereo e sono atterrate a Reggio. Con una cartina
geografica davanti, Lele Mora ha dislocato, come un generale
in guerra, nei punti nevralgici le sue stelle: Costantino Vitagliano
e Alessia Ventura, Federica Ridolfi, Mascia Ferri e Daniele
Interrante, Anche Irene Pivetti e P atrick, Nina Moric e
Simone Corrente. A tutta questa gente è stato chiesto un impegno
inedito ma altrettanto faticoso: camminare su e giù per la
città, camminare e sorridere sempre, camminare e lasciarsi abbracciare
dai fan, camminare e firmare autografi.» Ma quella era solo la chicca della lunga estate calda scopellitiana durante la quale, secondo Beppe Baldessarro del «Quotidiano
di Calabria», il Comune spese in circenses 7 milioni di euro. Di cui 25.000 all'Associazione calabresi golfisti nel mondo, 100.000 per la messa in scena dello spettacolo teatrale Chi
ha assassinato la suora che gridava il Vangelo e 22.800 euro per
«salviettine al bergamotto»... Tutta coltivazione dell'orticello elettorale? Forse no, ma
certo la montagna di questi coriandoli di spese locali è sterminata.
Perché sterminato è il numero dei municipi. Certo, come
spieg a Robert Putnam nel suo saggio La tradizione civica
nelle regioni italiane, la diffusione dei Comuni è un fenomeno
che da noi ha radici storiche profonde. Ma 8102 Comuni sono
un'enormità. E te ne accorgi, con una risata, in quei casi in cui
il governo, sulla base di norme demenziali, decide di distribuire
certe somme a pioggia. Come successe con l'assegnazione
di 2 milioni e mezzo di euro smistati a 7470 municipi (tutti salvo
quelli della Val d'Aosta e del Friuli-Venezia Giulia) perché
aiutassero le fasce più deboli della popolazione ad affrontare
«spese sanitarie particolarmente onerose». Un assurdo ridicolizzato
sul «Mondo» da Giuliano Cazzola: 6561 municipi ricevettero
meno di 500 euro, 869 meno di 25. Fino al delirio dei
3 euro e 51 centesimi di finanziamenti ad Argentera, 2 e 68 a
Macra, 2 e 48 a Valmala, tutti in provincia di Cuneo. Avuta la
notizia di un contributo di 2 euro e 47 centesimi, Giovanni
Manzoni, sindaco di Brumano, un paese sotto il Resegone,
esultò ironico: «Sono emozionato. Grazie». E spiegò che per
incassare i soldi aveva dovuto disporre una reversale di cassa,
registrare i denari arrivati sul libro mastro, mandare un messo
coi documenti per l'incasso alla Popolare di Bergamo del paese
vicino: «L'unica cosa certa è che ci abbiamo perso». E meno
male che la consegna della corrispondenza, in tutto questo
via vai di lettere e raccomandate, era inclusa nel prezzo: il postino
era lui. Tema: vale la pena averne così tanti? Abolirne una parte
con la forza , ha spiegato Augusto Barbera in un'audizione agli
sgoccioli del 2006 alla Commissione affari costituzionali, non è
una buona strada: «Sono il frutto di secoli di storia, romana,
feudale, ecclesiatico-parrocchiale». Un riordino, però, è indispensabile:
«Mentre in Italia le competenze regionali in materia
hanno portato a un sia pur lieve aumento del numero dei
Comuni (da 8056 nel 1971 a 8102 nel 1995), in Germania per
l'azione dei Lander si era passati da 24.282 Comuni a 8505, e
quelli con meno di 5000 abitanti erano scesi da 22.722 a 6478.
Anche i Lander dell'Est, dopo la riunificazione, hanno avviato
un deciso processo di razionalizzazione. Non dobbiamo dimenticare,
inoltre, che il Regno Unito è passato negli ultimi
vent'anni da 1400 a 369 distretti, la Svezia da 1037 a 272 unità
locali e la Danimarca da 1278 a 275».
Perché da noi no? Indovinato: perché i Consigli comunali
sono la prima palestra di chi ha deciso di guadagnarsi il pane (e
il companatico) con la politica e riceve lì, dai partiti, la sua prima
poltrona. L'assemblea municipale, come scrive lo stesso
Putnam, è «un eccellente trampolino di lancio per la carica di
consigliere regionale» tanto che «più di due terzi degli eletti in
Regione sono stati consiglieri in Comune». Non bastasse, ci si
può guadagnare da vivere.
Non ovunque, si capisce. Sono migliaia e migliaia i sindaci
e gli assessori e i consiglieri comunali che sgobbano con grande
dignità e cristallina pulizia morale in cambio di tante grane e pochi
soldi. Migliaia. Per uno stipendio che certo non consente
lussi. Uno come Massimo Cacciari, per governare una realtà
complessa come Venezia (centro storico tesoro d'arte, Mestre
centro commerciale, Marghera polo indust riale) con problemi
da togliere il sonno guadagna (la tabella è in Appendice) 5784
euro lorde al mese, cioè quanto prende, per esempio, il capo di
gabinetto del sindaco di Crotone, Vincenzo Punturi. O il capo
ufficio stampa del Comune di Bergamo. Poco più della metà di
un dipendente medio del Senato. Meno della metà di quanto dichiarano
pro capite i farmacisti. Poco più di un sesto di quanto
la Regione Sicilia aveva dato alla manage r Patrizia Bitetti
(468.000 euro) per ridurre i costi della sanità isolana.
Sinceramente: una persona perbene che non metta in conto
di chiedere bustarelle (ma questo è un altro discorso, lì valgono
le manette) perché dovrebbe caricars i sulle spalle i problemi
e i rischi di un paese come Platì per 2169 euro? Di un ago
glomerato edilizio mostruoso come Portici per 4132? Di una
metropoli stracarica di splendori e contraddizioni come Roma
per 7798 euro e cioè un quinto di quanto denuncia mediamente
un notaio da Vipiteno a Lampedusa? Va da sé che un lavoro
così si può fare solo per tre motivi: passione politica d'altri tempi,
ambizione di potere o investimento sul futuro. Detto questo,
la poltrona di sindaco può essere un affare anche economico.
Basta vivere nei posti giusti.
In Val d'Aosta, per esempio, il sindaco della città capoluogo
che ha 34.000 abitanti, all'inizio del 2007 prendeva 7833 euro:
più del doppio dei colleghi delle più grandi Bassano e Cantù.
E la legge regionale è così generosa, anche se poi gli amministra-
tori locali non sempre se la sentono di approfi ttarne, che perfi no
Edi Emilio Dujany, sindaco di La Magdaleine, il municipio
più piccolo delle Alpi coi suoi 91 abiranti avrebbe diritto sulla
carta al 60% dell'indennità d'un consigliere regionale. Vale a dire
a 4915 euro. Una busta paga, in rapporto alla popolazione,
duemila volte più alta di quella di Walter Veltroni.
Sul versante orientale delle Alpi le poltrone non sono meno
dorate. Il sindaco di Trento (110.000 abitanti) prende ogni
mese 88 10 euro, quello di Rovereto (35.000) 7890, quello di
Arco (15.000) 6969, quello di Ala (8000) 3287. Stipendi da leccarsi
le dita. Ma mai quanto quelli dei colleghi altoatesini : il
borgomastro di Badia (3000 anime) guadagna 4745 euro, quello
di Bressanone (1 9.000) 937 1, quello di Merano (35.000)
9943, pari al triplo del sindaco di Gubbio che è grande uguale.
Per non dire di Bolzano che per grandezza è solo quarantaquattresima
tra le città italiane ma paga il primo cittadino
12.434 euro, il suo vice 9322 e ogni assessore 6217. Cioè mezzo
migliaio di euro più del sindaco di Firenze Leonardo Domeni ci,
presidente dell'Anci, l'Associazione nazionale dei Comuni
italiani. Che per gestire una città con 370.000 abitanti, un patrimonio
artistico straordinario, 10 milioni di turisti l'anno, prende
non solo molto meno della metà del collega bolzanino, ma
addirittura meno di Christoph Gufler, sindaco di Lana, un paese
vicino a Merano che ha qualche notorietà solo per la chiesetta
di Santa Margherita con tre absidi in stile romanico e Armin
Zoggeler, campione olimpico di slittino. Cosa c'entra, tutto
questo, con l'autonomia?
In realtà, anche fra le regioni ordinarie c'è chi si tratta meglio.
Grazie a una serie di «bonus», ha spiegato, per esempio,
sul «Corriere» Andrea Silla, «tutti gli amministratori lombardi
hanno indennità superiori al minimo di legge». In vetta alla graduatoria
«c'è ancora Milano, con 5900 euro lordi per assessore,
seguita da Brescia, Cremona e Bergamo, tutti superiori ai 3500.
Le insidia Como, che ai suoi assessori mette in busta paga 3471
euro». Ma torniamo alla domanda di prima: cosa c'entrano certi
lussi locali con i diritti all'autonomia?
In Sicilia, sulla carta, gli stipendi di sindaci e vicesindaci non sono
poi così diversi da quelli del resto d'Italia. Ma la spartizione
clientelare della torta ha coinvolto, come da nessun'altra
parte del Paese, le circoscrizioni. Ricordate le elezioni comunali
a Messina del dicembre del 2005? Nella speranza di aggiudicarsi
un posto di sottogoverno si affollarono in tanti che la
scheda elettorale era larga un metro, alta 48,3 centimetri e ospitava
1755 candidati. Come Pippo Famulari, che ha un bar sullo
Stretto noto per un «pappajaddu» (pappagallo) celebre quanto
quello del pirata Long John Silver e si candidò aprendo uno
«sportello cittadino 50S» e distribuendo volantini dove p rometteva
che avrebbe aperto nel suo quartiere la stagione delle
vacche d'oro: scuole di calcio per i ragazzini, lezioni di ballo
per pensionati e fidan zati un po' pinguini, nuovi giardini per
mamme e pupi, gite per gli anziani... Certo, dopo una sfo rbiciata
del commissario prefettizio, gli anni magici delle circoscrizioni
a Messina sono praticamente finiti. Però, domani, forse...
Ad Agrigento gli «onorevoletti del quartierino» hanno resistito
fino alla primavera del 2007. Poi il sindaco, dato che non
c'erano più soldi in cassa nemmeno per pagare i dipendenti con
qualche rischio perfino per le paghe degli assessori, ha dovuto a
malincuore abolirli. Quattro «parlamentinis costavano 220.000
euro l'anno e un quinto pesava da solo per 160.000. Alle elezioni
successive erano destinati a diventare tutti come quest'ultimo.
Col risultato che, tra una cosa e l'altra, sarebbero costati un
milione. Troppo anche per degli amministratori spendaccioni.
A Siracusa le circoscrizioni sono 9 e succhiano 300.000 euro
di indennità per gli 11 presidenti, 380.000 euro di gettoni ai
consiglieri (lO a quartiere), 155.000 per l'affitto delle sedi, 6000
per attività di promozione culturale e 30.000 di spese varie. Totale:
871.000 euro l'anno. Per fare cosa? Riunioni. Senza poter
spendere un centesimo. Neppure un centesimo. A Catania sono
lO, vengono chiamate «municipalità», ogni presidente prende
2372 euro al mese e i 148 consiglieri 1581 a testa.
Ma il Bengodi dei «parlamentini», come dicevamo, è a Palermo.
Dove sono 8, hanno ciascuno 15 «deputatini- (che guadagnano
intorno ai 1200 euro netti grazie a una dozzina di gettoni
da 120 euro lordi a seduta) e un presidente che è già, nel suo
piccolo, un bramino. Prende 4750 euro al mese e ha un'autoblu
con l'autista. «Per fare cosa?» ha chiesto Carmelo Lo Papa
della «Repubblica» all'azzurro Giuseppe Milazzo alla guida
di una circoscrizione di quartieri periferici. «Mentre parlo con
lei ho decine di persone che aspettano fuori dalla porta dell'ufficio.
Chi si lamenta del lampione rotto, chi della buca, chi del
sindaco che non si fa mai trovare, chi della casa popolare che
non arriva. Cancellare le circoscrizioni vorrebbe dire eliminare
l'ulrima catena di collegamento tra la gente e l'amministrazione
comunale.» Sarà. Ma pesano sul Comune di Palermo per 3 milioni di
euro. Più i costi per 160 dipendenti distaccati. Ma insomma, a
cosa servono? «A niente, servono» risponde il difensore civico
Lino Buscemi. «Solo al sistema di potere che governa le città. I
partiti, nessuno escluso, li usano per candidare e fare eleggere
galoppini e portaborse in cerca di un'occupazione. Con la fava
della sicura elezione si prendono due piccioni: uno stipendio a
spese del Comune ai fedelissimi e, attraverso di loro, il controllo
elettorale del quartiere.»
E dove le indennità sono meno generose? Occorre fanta sia,
si sono detti un po' di consiglieri circoscrizionali di Reggio
Calabria. Detto fa tto: visto che i gettoni di presenza erano bassi,
li hanno moltiplicati. Arrivando a segnarsi 25 riunioni in luglio
e agosto. Ma come, si san chiesti i giudici, nei mesi del solleone?
E finita con una raffica di arresti. Mentre un po' di chilometri
più a nord la Commissione Cultura del Comune di Lamezia
Terme si riuniva polemicamente (e gratis) con l'ordine
del giorno più straordinario che mai sia stato discusso neppure
nella più sfaccendata delle assemblee politiche: «Plutone è ancora
un pianeta?».
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